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Essere xx e non volere essere “madre”: childfree e genitorialità non binarie

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Per le persone di biologia xx e tutte le persone socialmente percepite “donne” è difficile sia una scelta childfree, sia una genitorialità diversa, lontana dalla mistica della maternità. Vediamo perché….

Childfree: spazi senza censura per chi non ha figli


Da tempo sono iscritto ai gruppi a tematica “Childfree”, in cui le persone senza figli possono confrontarsi sulle ingiustizie che in società subiscono gli adulti/le coppie senza figli.
La discriminazione verso chi non ha figli è più sottile e strisciante di altri. Ci sono tante “regole non scritte” che chi non ha figli deve implicitamente seguire, come il “fare festa” se un collega o un amico porta un bambino, la sopportazione dei comportamenti sgradevoli dei bambini nei luoghi pubblici, i privilegi al lavoro per chi ha figli (ad esempio lo smart working concesso ai genitori dal Decreto Conte in occasione del Covid-19), le pressioni riservate a chi non ne ha per scelta.
La discriminazione delle persone senza figli colpisce qualsiasi persona sopra i 30 anni, indipendentemente da sesso, identità di genere ed orientamento sessuale, anche se la principale vittima di queste pressioni e aspettative è la donna cis, eterosessuale e mediamente femminile.
E’ per questo che le iscritte dei gruppi childfree sono quasi tutte donne, prevalentemente cis ed eterosessuali.
Spesso così come gli sfoghi partono da donne, anche le destinatarie dello sfogo sono donne,e per essere precise, madri. Spesso il “bersaglio” naturale sono tutte coloro che non solo sono madri, ma portano avanti la “mistica della maternità”, condita di fondamentalismo cristiano/cattolico e di una precisa ideologia che riguarda i ruoli di genere binari e tradizionalmente concepiti (le cosiddette “mamme pancine).
La cosa negativa è che spesso la rabbia e il senso di ingiustizia spinge i/le childfree ad usare termini anche sgradevoli (e a volte anche sessiti) verso chi è genitore o lo sta diventando. Le donne incinte “si sono fatte farcire”, l’atto del parto viene paragonato all’andare in bagno e così via.
Insomma, dalle donne childfree, in questi gruppi e ambienti protetti, vengono dette quelle cose che il binarismo “non vorrebbe mai vedere in bocca ad una donna”, quindi sono anche luoghi, esterni alle aspettative di genere, dove le donne liberano il loro linguaggio dalla “cappa” del perbenismo.

Si fa notare per il suo valore, tra i gruppi “Childfree”, il gruppo “lunàdigas”,rivolto in particolare a donne senza figli, che, riprendendo la filosofia della cultura femminista intersezionale, è molto attento ad esprimere concetti sempre inclusivi e mai giudicanti verso le donne che hanno fatto altre scelte, diventando genitori.

Che ci fa un uomo xx in questi gruppi?


Come persona di biologia xx, so bene che, almeno in parte, anche io subisco la pressione sociale rivolta alle persone socializzate, loro malgrado, come donne, riguardo alla genitorialità, ed è per questo che, pur non essendo childfree convinto, frequento questi gruppi, anche perchè, come studioso del binarismo, mi interessano tutte le discriminazioni per sesso e per genere.
Premetto che la mia “scelta” di non avere figli è legata all’impossibilità di diventare genitore senza dover vivere l’esperienza della maternità biologica, in quanto sarebbe impossibile un’adozione (essendo io dichiaratamente transgender e poco motivato a fingermi “madre adottiva” con le varie agenzie di adozione, che lavorano su parametri binari ed eteronormativi), e una GPA (ancora non consentita nel nostro Paese, e comunque vorrei tenermi alla larga dalla polemica “pro Gpa VS contro Gpa”).

Mi sono, però, spesso interrogato sul desiderio di diventare “genitore”, senza dover per forza passare dalla condizione (biologica e di socializzazione) di “madre”.
Non entro nel merito di quanto sarebbe traumatico, per un uomo xx, diventare genitore biologicamente, osservare il corpo che cambia, si femminilizza, spesso in modo definitivo, creando molto probabilmente situazioni di profondo disagio. Tuttavia, alcuni ftm sono diventati genitori prima di prendere consapevolezza, e alcuni anche dopo, essendo realmente difficili gli altri modi di diventare genitore, e probabilmente desiderando molto diventarlo.

Il trauma sociale e biologico di diventare genitore se sei un ragazzo xx

Non di minore gravità e impatto sono le ricadute sociali del diventare genitore in modo biologico essendo “xx”: gli sguardi complici delle “altre donne” durante un periodo di tempo comunque medio-lungo (almeno 5 o 6 mesi), ma a questo si aggiungono tutti quei problemi legati all’essere percepiti come “madre” che vengono dopo “il parto”, e che quindi interessano anche chi, essendo xx, è diventato genitore in altri modi (magari anche tramite adozione).
Ricordate il “puttana la maestra” della canzone di Tricarico? La maestra aveva imposto il tema sul papà al bambino che non lo aveva: quante di quelle maestre imporrebbero ad un figlio di un ftm non med o di una persona non binary di biologia xx di dire che quella persona è “la mamma”?
E così ti chiederesti se ha senso dare la vita a un bambino che sarebbe sballottato tra due punti di vista: quello della coppia che lo ha generato/adottato e quello della società binaria che vuole mettere tutti i pezzi nell’ordine “naturale” delle cose.

Tutte le childfree non vogliono diventare “genitore”, o alcune di loro non vogliono diventare “mamme”?

A questo punto mi chiedo, però, quanto le donne stesse, childfree e lunàdigas, abbiano scartato la genitorialità perché nel loro/nostro caso coincide con l’essere “mamma”, con tutto ciò che comporta, fisicamente e socialmente.
In coppia etero, se vengono fatti dei figli, tutto ricade sulla madre, e quel poco che fanno i giovani padri viene visto come “un miracolo commovente” e non come il minimo sindacale. L’identità di mamma/madre viene imposta alla persona di sesso femminile che diventa genitore (persino se adottiva), tanto da prevalere sulla sua identità personale, di donna, o ancor prima di singola e irripetibile persona. Per tutti, la persona, diventa una madre/mamma, il tutto corredato da stereotipi, complicità con le altre genitrici, gruppi whatsapp al femminile, tra mamme e tutto il resto.
Se, per una donna, il “diventare genitore” non comprendesse questo opprimente pacchetto, queste donne sarebbero comunque childfree? Sicuramente molte di loro si, ma alcune forse no. Credo che non siano neanche state abituate ad “astrarre” a tal punto da separare la genitorialità dalla “maternità” (sociale e biologica), con tutto ciò che essa comporta, astrazione che è facile se sei un ragazzo xx o una persona non binary, ma per nulla scontata se la tua identità di genere è femminile, come lo è il tuo corpo, e quello che rifiuti è il “ruolo”, attribuito alle donne, in particolare se “madri”.
Ma anche si fosse addestrate a questa astrazione, a cosa servirebbe? Comunque in questo mondo se sei donna e genitore, sei vista come “madre/mamma”, e quindi come puoi astrarre da questo inevitabile destino, per capire se ti saresti potuta vedere come “genitore” al di fuori di questi manierismi?


Se sei xx, non vai bene in ogni caso, genitore o non genitore

Concludo dicendo che il vero punto è il fatto che la società pensa di poter normale come debba vivere una donna (o una persona percepita tale) e questo ricade sia sulle donne genitrici, sia su chi non lo è, perché il vero punto è che, se sei xx, decide sempre qualcun altro per te: quali esperienze devi fare, come te le devi vivere. C’è sempre una tabella di marcia pronta per te, e la non-madre, la single, la genitrice atipica, hanno sempre un caro conto da pagare se non seguono il rigido tracciato deciso dagli uomini eterosessuali e da chi, donna e non, etero e non,  con quel sistema oppressivo, è suo malgrado connivente.


Perché i “non med” non hanno “coscienza di classe”?

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Perché quasi nessuna persona “non med” usa questa definizione per la sua autodeterminazione e per rivendicare delle istanze? Indaghiamo sul motivi e sul sentimento di inferiorità interiorizzata che colpisce la persona “non med”

 

Negli “anni zero” non esisteva neanche il concetto

Quando ho iniziato come attivista non era concepita la possibilità di definirsi transgender, o di autodeterminarsi come appartenente ad un’identità di genere non “attesa” rispetto al proprio sesso biologico senza almeno essere in terapia ormonale, o avere intenzione di intraprenderla.
Tante cose sono cambiate negli anni, nel movimento LGBT, soprattutto grazie ai movimenti queer d’oltreoceano, all’influenza dei media americani, non ultime le serie Tv di netflix, che tanto hanno fatto, ad esempio, per iniziare a parlare di identità di genere non binarie, ma sulla questione “non med”, e i relativi diritti civili associati (il cambio documento senza medicalizzazione, ad esempio, l’inclusione dei non med in una legge contro l’omotransfobia, senza che sia necessario un “diploma di transgender”) non si è mai fatto molto attivismo.

Più semplice definirsi “non binary” o “pre-T”

Basti pensare che “non med” rimane una definizione elitaria che non molti/e usano o conoscono, e si limitano ad usare termini come “pre-T”, come se si fosse in attesa di diventare T con una terapia ormonale sostitutiva che inevitabilmente deve iniziare (ma per molti cosiddetti “pre-T” non inizia mai.
Poi c’è l’abitudine di usare “non binary” per descrivere tutte quelle persone che non sono nel percorso medico-legale per scelta, anche per descrivere chi di loro, in realtà, ha scelto un nome proprio con una precisa connotazione di genere, e chiede che ci si rivolga a lui/lei con un preciso genere grammaticale (maschile o femminile), e quindi, in realtà, in questi casi, sarebbe più corretto definirsi transgender non medicalizzati, più che “non binari”, perché l’unica cosa di “non binario” è il corpo, che, privo del cambiamento che provoca il trattamento ormonali, ha scarso passing, e quindi rompe le norme del binarismo.

Varie ipotesi che portano a non definirsi “non med”


Ma perché un “non med” dovrebbe preferire “non binary” o “pre-T” a non med?
Ipotesi 1: ci si sente in colpa verso chi ha avuto il “coraggio” di fare il percorso medico-legale, e quindi non legittimati a dirsi uomini, donne, o semplicemente ad usare “trans”, sensi di colpa, comunque, veicolati dalla comunità T, da quella parte di comunità “med”, spesso lontana dall’attivismo, che vuole prendere le distanze da chi non è nel percorso che i cis hanno previsto per noi.
Ipotesi 2: si pensa di essere più rassicuranti se si “promette” di intraprendere un percorso ormonale a breve, come se per gli altri fosse più facile legittimare un genere se siamo in un “pre” e non in un “non”.
Ipotesi 3: si pensa che senza il percorso ormonale al massimo si possa essere “non binary”, ma, paradossalmente, citando la mia amica Laura Caruso, cosa c’è di più “binario” che imporre “non binario” a tutti coloro che non hanno il passing?

Definirsi altro porta a mirare su istanze diverse


Concludendo, i diritti “non med” non arrivano perché non c’è un gruppo identitario che rivendica la propria esistenza partendo dalla pretesa che questa posizione sia legittima e meriti i diritti che hanno/a cui aspirano le altre persone T.
E’, ovviamente, possibile che alcune persone “non med” siano anche non binary, ma il termine che usiamo identitariamente per rivendicare i diritti dà un preciso taglio alle battaglie politiche che intraprendiamo.
Ad esempio, molti non binary (che sono anche non med), politicamente, insistono molto più sulla battaglia di avere la X o il genere non binario sui documenti (o per la diffusione dell’asterisco, del they e di altre forme grammaticali neutre), rispetto alla possibilità di poter avere la M o la F anche se non med. E’ una differenza non da poco, premesso che, magari, per molti “non med”, la X sarebbe già meglio di niente, ma per altri, invece, il riconoscimento come “altro” e non per il proprio genere d’elezione sarebbe un ripiego insultante.

Anche per i cis non med=non binary


Ogni volta che ho provato a portare il tema non med con professionisti cisgender, anche transfriendly, immediatamente il tema è stato portato sulle persone non binarie, ed è quindi chiaro che per molti i due concetti coincidono: chi non prende ormoni è “non binary”, è in una condizione identitaria intermedia, chiede la X sul documento, etc etc, questo anche a causa della letteratura straniera, che fa molta leva sul tema non binary e non su quello della legittimità identitaria senza medicalizzazione.
Questo non vuole, chiaramente, essere un post “contro” i non binary, perché è chiaro che ci sono persone sia non med, sia non binary, così come ci sono le persone non binary che sono med (con transizioni binarie o parziali, microdosing e altro).
Quello che voglio far capire è che se “non med” non diventa un’identità da brandire con fierezza, senza paura del giudizio di chi è in percorsi canonici, non verranno mai pretesi quei diritti che dipendono dal fatto che avete scelto di non modificare il vostro corpo chimicamente/chirurgicamente. Probabilmente avrete i diritti legati all’identità non binaria, anche perché spinti dal movimento internazionale, ma non sarete mai legittimati legalmente come uomini e come donne senza dover ricorrere ad un trattamento ormonale.

Il silenzio di associazioni e della stampa su questo tema


Come è possibile che, con tutte le persone disforiche che si incontrano nel web e nelle associazioni, non ci sia stata finora una causa pilota per il cambio documenti senza la volontà del trattamento ormonale? Come è possibile che l’unico evento a tema sia stato proposto dal Circolo Milk di Milano nel 2018 e non ci sia stato nessun seguito?
Come è possibile che fiocchino le interviste ai non binary ma nessun giornalista sia minimamente interessato al tema non med?
Le parole, per essere reali, vanno incarnate. Se le persone “non med” non inizieranno a presentarsi al mondo come tali, rivendicando con orgoglio l’opzione non med, senza paura che ciò offenda chi ha preferito altre opzioni, non ci sarà mai un effetto domino che porti al riconoscimento legale delle persone non medicalizzate.
Che aspettiamo? Non abbiamo neanche una bandiera, neanche all’estero qualcuno ci ha pensato. Vogliamo davvero mandare sempre avanti gli altri e sperare che portino sul tavolo anche le istanze di cui noi in particolare abbiamo bisogno?

Il maschile xx “offende” meno del femminile xy? Siete sicur*?

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Qualche giorno fa è esplosa, sul web (postata dalla pagina Trans Army), una vignetta con una ragazza coi capelli lunghi, la coda, una felpa, un jeans e delle scarpe da tennis con accanto un ragazzo in gonna. Lo slogan diceva “se non ti offende la prima, perché ti offende il secondo”?

La vignetta tocca un tema molto presente nelle rivendicazioni LGBT di origine biologica “xy”, ovvero che sia molto più difficile essere “femminile xy” piuttosto che essere “maschile xx”.

Ogni volta che sento questo discorso lo contrasto in modo deciso, e voglio esporre le motivazioni una per una, perché questa visione, senza malafede, ignora davvero le implicazioni del vivere essendo xx e senza alcun interesse a scendere a compromessi con ciò che la società pretende o si aspetta se lo sei.


1) Vestire con ciò che è stato “naturalizzato” come unisex non è “vestire da uomo”

Sarebbe errato, nel 2020, dire che una felpa, un jeans e delle scarpe da tennis sono “da uomo”. I reparti femminili sono pieni di felpe, jeans, tennis, e lo erano anche quando ero piccolo, negli anni 80. Questi abiti sono molto simili, ma non uguali, agli stessi capi commercializzati per gli uomini, ma questo non impedisce alle donne di avventurarsi nel reparto da uomo e prendere proprio quelli “per l’uomo”, anche se questo ha spesso conseguenze, tipo la commessa che invita la persona ad andare dall’altra parte se sta cercando “per se”.
Allo stesso modo, ci sono abiti ed accessori, di meno, in verità, che si sono naturalizzati per i ragazzi, o che, comunque, si sono sdoganati almeno per una stagione della moda, come ad esempio la fascia per capelli, il cerchietto da calciatore, maglie scollate, jeans aderenti e a vita bassa con mutande a vista, orecchini anche su entrambi i lati, depilazioni, manicure, le meches, e così via, quindi il punto non è se qualcosa è “da uomo” o “da donna”, e non è neanche chi viene giudicato di più: il punto è se quel capo o accessorio, in quel momento, è “accettabile” per quel determinato sesso biologico.

 

2) “La donna può uscire in smoking”.

Falso. La persona di biologia xx non può presentarsi in giacca e cravatta sul posto di lavoro. Anche al di fuori dal lavoro, se gira in metro in smoking, è quasi sicuro che la gente mormori alle sue spalle e giudichi. La donna in smoking può essere solo qualcosa di “ironico”, limitato ad una festa di carnevale o ad una manifestazione, ma non può essere il suo look quotidiano. Idem per la cravatta, che deve sempre essere associata, non so, a un tailleur da donna, col pantalone e dal taglio un po’ androgino, o con il capello lungo, il trucco, o il capello corto ma femminile, etc etc. Insomma, “mascolina” si, ma “vestita da uomo” no. E’ fondamentale che ci sia sempre una quota di rassicurazione dell’uomo etero, almeno un accessorio “da donna” che eviti che si turbino gli animi

 

3) Vabbè, ma succede solo sul lavoro…

Questo è un aspetto spesso ignorato o sottovalutato dal mondo queer. Il lavoro ci impegna circa 11 ore al giorno, tra andata, ritorno, pausa pranzo, e le otto ore in cui sei lì, tra colleghi, capi, clienti che non hai scelto. Così come non verrebbe tollerato l’impiegato “vestito da donna”, non avrebbe speranza neanche l’impiegata vestita da uomo, in smoking e cravatta, oltre al fatto che alcuni lavori hanno anche il dress code, spesso “spietato” con le persone xx, comprendente gonna, tacco e collant, quando non obbligo di trucco e sorriso.



4) gli abiti “per donne” normano anche capelli, peluria ed altro.

Se fosse vero che “la donna” può vestirsi da uomo, potrebbe uscire in pantaloncini e con i polpacci pelosi. Invece, è tacitamente obbligatorio che un uomo e una donna, entrambi con lo stesso pantaloncino jeans, abbiano l’una i polpacci depilati, l’altro no. A dire il vero, oggi, grazie alla diffusione della cultura dello sport, è persino più accettato il maschio con gambe e ascelle depilate che la donna che non lo fa.
Inoltre, anche i costumi, lasciando scoperte delle aree, costringono dalle depilazioni spesso pesanti e invasive, non richieste al corrispettivo maschile.



5) dal parrucchiere se sei donna, a zero non ti rapano.

Ho avuto vari fidanzati metallari e glamster. Sebbene mi diletti come parrucchiere, in passato erano stati a tagliare i capelli, e, nonostante tutto, erano stati accettati come ragazzi “capelloni”. Diversa è la storia di persone xx, amici non binary, butch, a cui, alla richiesta di rapare tutto o quasi, hanno riso in faccia.
La persona xx calva o completamente rasata, su una metropolitana, viene guardata molto peggio del ragazzo capellone. Non la si insulta, certo, magari si mormora, la si pensa malata e quindi da compatire, proprio perchè “per quale altra ragione una donna dovrebbe voler violentare la sua femminilità”?



6) sbarazzina si, ma sempre piacente alla vista degli etero

E’ vero che la donna può avere i capelli corti, ma pur con la stessa quantità di centimetri, il parrucchiere tenderà, anche quando non richiesto, ad addolcire il taglio, con basettine svolazzanti da fatina o asimmetrie varie, questo perché la donna, seppur “sbarazzina”, deve comunque bilanciare. Se rasi, tingi, se hai i pantaloni, hai gli orecchini, se hai la felpona, hai il capello lungo e così via. Se una ragazzina si concia in un modo talmente “unisex” che non si capisce se è uomo o donna, apriti cielo: come si sentirà “in pericolo” il ragazzo che la guarda? Quindi i “marcatori” modaioli devono essere sparsi in modo da non creare questi piccoli psicodrammi pan-fobici



7) Dress code: lui in giacca e cravatta, lei “freestyle”…ma è davvero free?

Agli eventi eleganti si impone il maschile classico ai maschi e “eleganza” alle donne, ma siamo sicuri che sia davvero libertà? alla fine l’eleganza presenta soluzioni al più binarie, e sembra quasi che la possibilità di “spaziare”, più che alla libertà “di genere”, strizzi l’occhio alla fantasia degli stilisti, che permetterebbero alla donna, al gran galà, di variare molto, ma sempre sul tema della femminilità. Ci sarà sempre la donna che si presenta col tailleur sbarazzino col pantalone, ma sarò sempre guardata come eccentrica e diversa.

 

8) chi diverge dallo stereotipo viene preso per gay, e per lesbica no?

Il mio primo fidanzato, glamster e sedicente etero, veniva continuamente preso per gay. Quando sei giovane e frequenti architettura, tante cose ti sono permesse. “Al massimo” penseranno che sei gay. Qualcuno pensa che non succeda lo stesso alle donne senza orecchini, coi capelli a spazzola, e senza orpelli. Chi diverge dai ruoli di genere viene preso per omosessuale, dando per scontato che l’unico vero motivo accettabile per divergere da quegli opprimenti stereotipi sia il “non dover” piacere all’altro sesso, ammettendo, implicitamente, che la gente “si concia in modo eteronormativo” solo perché è etero.
In effetti, il calo di vendite di rossetti a causa mascherine darebbe ragione a chi la pensa così, e anche la liberazione dagli orpelli eterosessisti che vive, nel giro di un anno, chi si dichiara gay o lesbica. Ad ogni modo, molta più ostilità si riserva a chi invece è “non conforming” pur essendo etero e cis.

 

9) niente “Botte”, ma sicuri che sia “meglio”?

Una donna rapata, in smoking, evidentemente lesbica, non verrà pestata in una metropolitana. Si mormorerà, sarà guardata con espressione di schifo, se è qualcosa di diverso da “donna cis”, verrà comunque pensat* come donna cis, e così via. Certo è meglio delle botte, perchè “su una donna non si alzano le mani”, ma siamo sicuri che si possa dire che la cancellazione sia qualcosa di “meglio”?



Concludendo: sicuramente un uomo che rinuncia agli accessori della sua virilità, all’austerità dei colori, alle apparenze virili, rappresenta un problema, e diventa oggetto di scherno, ma non va pensato che alla persona di biologia xx sia concesso “tutto”. Il compromesso è sempre presente, e gravi sono le conseguenze di chi vuole rinunciare a quel minimo sindacale di femminilità “da contratto”, che la persona xx deve comunque, sempre, garantire.

L’importanza dell’“identità di genere” nella Legge Zan

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La legge Zan, che protegge le persone LGBT dalla discriminazione per orientamento sessuale ed identità di genere, sta subendo i solito attacchi clerico-fascisti, a cui si unisce un “coro” gendercritical di persone (spesso eterosessuali) che vorrebbero far saltare la legge, e di persone (spesso omosessuali) che vorrebbero “semplicemente” eliminare “identità di genere”, per sostituire questo termine col più rassicurante ed eteronormativo “transessuali”.
Vediamo quali sono i motivi per cui questa modifica sarebbe sbagliata:

 

La transessualità è un concetto “psichiatrico” e deprecato dalla comunità T

 

La comunità T, da decenni, ha deprecato “transessuali”, termine, nato in ambiente eteronormativo, per descrivere la condizione di “varianza di genere” come patologica.
La comunità T preferisce termini come gender variant o transgender. Una delle battaglie del movimento transgender è quella per la depatologizzazione, battaglia già affrontata dagli e dalle attivisti/e omosessuali per quanto riguarda l’omosessualità, in passato considerata malattia mentale dal DSM e dall’OMS.

 

Non è richiesto un “diploma di gay/lesbica”, perché chiederlo alle persone transgender?



Se una persona gay, lesbica, bisessuale, dovesse denunciare un abuso, non verrebbe chiesta “prova” di omo/bisessualità. Non siamo in medio-oriente, non controllano il fondoschiena per avere la prova che uno sia “gay” (non certo per tutelarlo!). Perché, invece, dalle persone transgender ci aspettiamo un “diploma”? Che poi…magari fosse un diploma: è un certificato patologico, frutto di una mentalità eteronormativa in cui il “normale” certifica la persona transgender, non tanto la sua identità di genere (ammesso che sia certificabile dall’esterno e che non possa semplicemente essere autodeterminata), ma il suo “soffrire di disforia”. E’ come se alle persone gay, ormai emancipate da questa situazione formalmente dal 1990, ma in realtà da molto prima, si chiedesse un certificato in cui affermano di “soffrire di omosessualità”.

 

Perché togliere “identità di genere” e non togliere “orientamento sessuale”?

 

Sembra che non sia in discussione “orientamento sessuale”. Sembra che nessuno voglia sostituirlo con “gay e lesbica”, e se la sostituzione riguardasse solo l’identità di genere, la legge presenterebbe una grave asimmetria, oltre che delle fallacie logiche.
Il fatto che non vengano nominati gay e lesbiche, ma che si parli di “discriminazioni per orientamento sessuale” tutela chiunque sia discriminato “per” questa tematica, quindi un bisessuale, ad esempio (che non rientra strettamente nella parola “omofobia”, e che non è detto che sia discriminato solo dagli etero), ma anche un/una etero “di ruolo di genere non conforme” che fosse scambiato per gay. Se fosse, quindi, nella legge, sostituito il concetto di “orientamento sessuale” con “i gay e le lesbiche”, un etero, con tanto di moglie e fede nuziale al dito, fosse aggredito perché indossa un paio di pantaloni rosa, e quindi con una “motivazione omofoba”, non potrebbe ricorrere alla legge in quanto “non gay”.
Questa impostazione fa sì che non sia punito l’aggressore (quindi il suo comportamento omofobo), ma sia quasi la vittima che deve “dimostrare” di essere qualcosa, per poter essere tutelato.
Fare leva sul “movente” della discriminazione e non sull’effettiva identità/orientamento del soggetto è una logica virtuosa, che potrebbe portare, se fosse lasciato “identità di genere”, a proteggere sia le persone che effettivamente sono T, sia quelle che potrebbero sembrarlo a chi agisce transfobia. Che senso ha “peggiorare” il linguaggio inclusivo dell’attuale proposta di legge?

 

“Transessuali” non tutela tutte le persone T, forse meno della metà

 

Una legge deve essere pensata per proteggere le persone LGBT che porterebbero un oppressore davanti ad un giudice. Per la maggior parte dei giudici, “transessuale” indicherebbe la persona all’interno del percorso medicolegale, con tanto di “perizia” e di medicalizzazione del corpo. Ci sono persone che questo percorso non possono farlo (per ragioni fisiche, ma non solo), che sono troppo giovani per farlo (ma già visibilmente “gender non conforming”), o che non desiderano farlo (perché, pur essendo T, non desiderano un cambiamento chirurgico o anche solo ormonale). Le persone che rientrano in queste categorie, di solito, hanno un peggior passing, e quindi sono più riconoscibili come transgender, e maggiormente esposte a mobbing, bullismo e discriminazioni. Inoltre, anche se non si crede sia così, sono una grandissima fetta di popolazione T e non binary.
Si pensi agli adolescenti di genere non conforme: se bullizzati per la loro “androginia”, tanto da desiderare il suicidio, sarebbe giusto lasciarli sforniti da quest’arma di difesa contro la transfobia, solo perché non sono sul “binario” di un percorso medico-legale?

 

Il tentativo di “schiaffeggiare” il movimento culturale T

 

Un certo tipo di femminismo, e movimento gay maschile “gender critical”, desidera “schiaffeggiare” l’attivismo T, che tanta cultura ha fatto sul concetto di identità di genere. E’ comodo, per molti, considerarci dei “poveri transessuali”, nati nel corpo sbagliato, dei “derelitti” da proteggere dagli sputi e dalle botte dei protettori. Se però smettiamo di essere “i transessuali” e diventiamo dei fier* portatori di un’identità di genere variante, se siamo autori, contestatori del percorso canonico, se alziamo la testa contro il “transificio” dei professionisti che vorrebbero lucrare sui nostri corpi e cambi di nome/genere, se iniziamo a dare fastidio a qualcuno che va oltre “il pappone”, se possiamo fare fastidio anche a loro (autori binari, biologisti e “omonormativi”) allora qualcuno vuole che nessuna legge ci protegga.
Come il cattolico vuole continuare a dire che i gay sono malati senza che una legge lo possa punire, la terf, il gay “gender critical”, vuole continuare a dire che il fidanzato di un ftm è un etero, la compagna di una donna mtf è una etero, che una donna T non è una donna, che un uomo T è una donna, e così via.
Vogliamo continuare a dare queste “garanzie” a chi, con belle e sofisticate parole “di sinistra” esercita transfobia?

Su Elly Schlein, Armine Harutyunyan, e le “donne che sembrano uomini”…

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Gli ultimi weekend d’estate sono stati dominati da molte polemiche: l’abbronzatura di Di Maio, il bodyshaming ricevuto dalla modella Gucci, e la battuta transfobica ricevuta da Elly Shlein. Provo a mettere per iscritto i miei pareri a riguardo.

Armine: una donna nella media resa “brutta” dal piedistallo mediatico


Per quanto riguarda la modella della Gucci, Armine, io non credo che lei sia “brutta”: incontrata in un supermercato, in metropolitana, nessuno si girerebbe a guardarla in quanto “brutta”, e parecchi si girerebbero a guardarla in quanto attraente, soprattutto per il corpo, che è portatore di una bellezza canonica ed eteronormativa.
Ha un viso nella media, ha un naso importante come molte donne di origini mediorientali, e anche sul dare una forma alle sopracciglia, ogni cultura ha tradizioni e canoni di bellezza diversi.
Il problema è quando si prende una donna “di media bellezza”, ma anche sopra la media, magari, e si dice che è “la più bella del mondo”: è come se implicitamente si sapesse che arriverà un’ondata di body-shaming, da uomini bulli, ma anche da donne che avranno i loro 5 minuti per sentirsi belle.

I primi autori di Body Shaming sono i pubblicitari della Gucci, e il fem-washing


Il bodyshaming, in fondo, è stato esercitato dalla Gucci. Che sia buona o cattiva pubblicità, alla Gucci ne è arrivata a palate, e rimane un mistero se anche la modella sia sia prestata a questo per soldi, ingaggi e visibilità, o sia stata inutilmente vittima di un bodyshaming pesante e difficile da sopportare, emotivamente.
La Gucci, inoltre, ha attirato a sé la simpatia del femminismo, che spesso ha forti remore sul mondo della moda, per come tratta la donna, costringendola all’anoressia e a dei canoni eteronormativi pressanti e vergognosi.

La sfumatura transfobica degli insulti ad Elly Schlein e ad Armine Harutyunyan


Mi soffermo ora sul fatto che quel naso, e quelle sopracciglia, hanno richiamato insulti di bodyshaming con una chiara sfumatura transfobica: la donna col nasone e con folte sopracciglia “sembra un uomo”, perché la donna, quella che vuole lavorare con l’immagine, deve per forza fare una rinoplastica. Sia corpi xx che corpi xy possono “ospitare” un naso importante, ma un naso importante è “maschile”. Perché?
Lo stesso per quanto riguarda le sopracciglia scure e folte: non depilarle, o ritoccarle appena, mantenendo forma e dimensioni, è “maschile”.
L’androginia è brutta? E’ accettabile ma solo se riguarda vestiti sbarazzini e ammiccanti? Devono esserci sempre mandibole dolci, nasini all’insù, come nel caso di Ruby Rose o di Miley Cyrus? Androginia si, ma ammesso che l’uomo che guarda e apprezza possa “sentirsi eterosessuale”?


Simile sorte ha subito Elly Schlein, fotoscioppata ad hoc dai copertinisti dell’Espresso, con forti contrasti di ombre e luci che le rendono spigoloso il volto. Credo che l’intenzione fosse di dare un taglio “virile” alla bisessuale dichiarata.
Anche qui, l’accusa è la stessa: “sembrare uomo”.
Che sembri una donna transgender (tratti anatomici mascolini), o che sembri una donna tomboy/lesbica/butch o un uomo transgender (look o impatto mascolino), la donna “che sembra n’omo” va offesa e disprezzata.
Elly ribatte, dalla Gruber, dicendo che “E’ un modo per distrarre dai contenuti”, e fa bene, è una risposta “politica”, ma se volessimo soffermarci sul fatto, come ha senso che faccia un attivista T?
Una donna che “sembra uomo” perché mai dovrebbe essere disprezzata?

E se il “sembrare dell’altro sesso” fosse attraente?


Ho tra gli amici facebook molte persone che ahimè “devo” frequentare per ragioni di lavoro, e anche loro si sono aggiunti (ed aggiunte) al coro di chi “schifa” la “donna che sembra un uomo”. Ho provato a commentare con provocazioni (ma provocazioni mica tanto: il mio orientamento sessuale è caratterizzato dall’attrazione di altre persone di aspetto e psicologia non binaria) del tipo “e cosa c’è di più bello di una donna che sembra un uomo, o di un uomo che sembra una donna?”. Non vi stupirete se vi dirò che le reazioni sono state di forte fastidio e di “bullismo” verso chi aveva espresso questa visione (io e quelli/e che mi davano ragione).

L’errore da non fare


Esiste un modo che possa portare, nel giro di pochi anni, a cambiare la mentalità imperante?
Non dico che il gusto debba cambiare a tal punto che la persona media considererà bella l’androginia (anche quella “non di moda”) e sgradevole l’estetica eteronormativa (ci mancherebbe che tutti avessero il mio orientamento sessuale: sai quanta concorrenza!), ma che almeno venisse meno tutto questo disprezzo per i corpi non binari e questo desiderio di praticare bodyshaming e bullismo.
Il vero problema è che ciò non si fa dicendo che Armine è bella, che Elly è “femminile”, e che Tara Lynn è magra, atteggiamento che servirebbe solo a far “incazzare” il pubblico mainstream, che odia il politically correct ed una certa sinistra pedante, ma diffondendo una mentalità pluralista su ciò che è bello, facendo un lavoro parallelo sulla non necessità di “offendere” ciò che per noi rimane “brutto” (che poi è la mentalità che porta a disprezzare gay, transgender, persone di altre etnie).
Credo che questi casi di attualità possano dare una grande lezione a noi attivisti su come gestire il tema dell’educazione sociale alla pluralità del bello ed al rispetto di ciò che non ci attrae.

 

 

#IoSonoIoVoto – Seggi elettorali accessibili, inclusivi e rispettosi per le identità trans*

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Egregia Ministra,
con la presente intendiamo sottoporre alla Sua attenzione alcune gravi problematiche che limitano alle persone transgender l’esercizio del diritto al voto così come riconosciuto dall’art. 48 della nostra Costituzione.

 

Clicca qui per aderire come singol*

 

Le attuali procedure di accesso ai seggi elettorali non tengono conto della complessità delle vite delle persone transgender. Migliaia le persone aventi diritto al voto che in questo momento in Italia non sono in possesso di documenti conformi alla propria identità, e che sono costrette a un coming out forzato e pubblico in occasione di voto al seggio elettorale, ambiente spesso impreparato ad accoglierle.

Essendo espressamente richiesto di collocarsi in una fila o presso un registro a seconda del mero dato del sesso anagrafico indicato sul documento, si costringono di fatto le persone transgender a violare la propria privacy e ad esporsi in contesti non protetti, con l’evidente risultato di comprometterne la partecipazione democratica alla vita pubblica, ed esporle alla non remota possibilità di divenire bersaglio di discriminazioni.

Riportiamo alla Sua attenzione come il criterio di suddivisione previsto dall’art.5 del DPR n°223 del 20 Marzo 1967 rappresenti a tutti gli effetti una limitazione all’esercizio del diritto di voto per migliaia di persone transgender e non binarie, in contrasto con le disposizioni dell’art. 48 della nostra Costituzione.

Io Sono, Io Voto” è una campagna nazionale promossa dalle Associazioni che si occupano dei diritti delle persone transgender che ha informato l’opinione pubblica in merito a tutte queste difficoltà. Sempre più realtà e singole persone hanno aderito alla campagna facendo mettere a verbale al proprio seggio la richiesta di modificare e aggiornare le procedure di accesso al voto.

In occasione del Referendum Costituzionale e consultazioni elettorali del 20 e 21 Settembre la campagna “Io Sono, Io Voto” raccoglie firme a sostegno per ripensare le forme della partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e per garantire tutela e inclusione nell’accesso al libero esercizio della democrazia.

Come realtà sostenitrici della campagna siamo quindi a richiedere formalmente un Suo intervento affinchè l’elettore non debba più qualificarsi ai seggi sulla base del sesso assegnato alla nascita, bensì di accedere secondo altri criteri che ne tutelino l’identità personale e il diritto alla privacy, come ad esempio potrebbero essere le liste elettorali su suddivisione alfabetica.

Numerose infine le testimonianze dirette, raccolte negli anni, di rinuncia al voto da parte di persone transgender anche a causa del deficit formativo del personale presente ai seggi, in merito al linguaggio utilizzato e alle buone pratiche raramente adottate. Per questo motivo, come realtà sottoscriventi restiamo a disposizione del Ministero anche per fornire contributi formativi da destinarsi al suddetto personale in vista di future consultazioni elettorali.

Fiduciosi di un Suo interesse nelle tematiche prospettate, Le chiediamo cortese riscontro che, si auspica, possa condurre a possibili e condivise soluzioni.

Cordiali saluti

Le 89 realtà sottoscriventi:

ACET – Associazione per la Cultura e l’Etica Transgenere
AGEDO Nazionale
Arc Onlus
Arci MiXED lgbti Aps
Arcigay Nazionale
Associazione ACQUE
Associazione Culturale ARC Onlus
Associazione NUDI – Nessuno Uguale Diversi Insieme
Associazione Orlando
Associazione Universitaria Iris
BarT
Boramosa Aps
Bproud
CasArcobaleno Torino
Centro di Ateneo SInAPSi
Certi Diritti – Associazione Radicale
CEST – Centro Salute Gender Variant
Circolo culturale TBIGL+ Alessandro Rizzo Lari (ex Harvey Milk)
Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli
Circolo Tondelli LGBTI
CITT – Collettivoinclusivotransfemministaterritoriale
Collettivo GenderLens
Collettivo Studentesco GayStatale Milano
Coordinamento Comasco Contro l’Omofobia
Cuori in Versi – Circolo Arco
Di Gay Project – DGP
EDUCARE ALLE DIFFERENZE
FRAME APS
FtM Italia Community
Fuori dai binari – Torino
G.A.G.A Vicenza
Gay Center
Gay Help Line
Gay Lex
Gruppo TaMO
GRUPPO TRANS APS
Human Gender
I Sentinelli di Milano
IAM – Intersectionalities and more
ILGA – Europe
Intersexioni
IVG, ho abortito e sto benissimo!
Komos aps – Coro LGBT di Bologna
L’Altro Circolo – Centro culturale di iniziativa Omosessuale
L’Ottavo Colore
Lesbiche Bologna
Mazì Pescara
Milano Quidditch ASD
MoReGay
NUDM Reggio Calabria
PLUS – Persone LGBT+ Sieropositive – aps
Possibile LGBTI+
Progetto Genderqueer
REA – Rete Empowerment Attiva
Rete Genitori Rainbow
SAT Pink
SCOSSE associazione
SpazioAltrove
Sportello Trans – Viterbo
STONEWALL LGBT
Te@ – Generi a confronto
TGenus
TIP – Trans In Progress
TMW – Trans Media Watch Italia
UniLGBTQ
Vitadidonna
Volt Italia
Wildside – Human First legali associate
Arcigay Rete Donne Transfemminista
Arcigay Rete Trans* Nazionale
Arcigay Agorà Pesaro e Urbino
Arcigay Approdo Lilia Mulas Aps – Genova
Arcigay Catania
Arcigay Coming-Aut LGBTI+ Community Center – Pavia
Arcigay Comunitas Ancona
Arcigay Elio Venturi – Ravenna
Arcigay Friuli
Arcigay Gioconda – Reggio Emilia
Arcigay Il Cassero Bologna Aps
Arcigay La Rocca – Cremona
Arcigay Le Bigotte – Foggia
Arcigay Marcella Di Folco – Salerno
Arcigay Matthew Shepard – Modena
Arcigay Ottavio Mai – Torino
Arcigay Piacenza
Arcigay Roma
Arcigay Stonewall – Frosinone
Arcigay Tralaltro – Padova
Arcigay Varese

Ciro e Maria Paola, vittime della transfobia per ben due volte

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Un episodio di “ordinario” patriarcato: ma è stato solo questo?

Femminicidio con movente patriarcale in provincia di Napoli. Sarebbe stata una delle tante storie che racconta il degrado della periferia italiana: una sorella che sceglie “l’uomo sbagliato” e il tutto finisce con un pestaggio al fidanzato, l’obbligo di lasciare il ragazzo (sempre se fosse rimasto vivo), e la “legge della giungla”, per cui il maschio della famiglia decide per figlie, sorelle e mogli. Una vicenda di ordinario patriarcato.
Ma la vicenda di Caivano non è solo questo (dove il “solo” è rigorosamente tra virgolette). Questa volta il fratello si accanisce non sul cognato, ma sulla sorella stessa, che, “ormai infettata” non aveva più diritto a vivere. Infettata da cosa? Dal fatto che il suo compagno è un uomo trans, ed è questo il “piccolo particolare” che fa sì che si tratti di un episodio non solo di misoginia e patriarcato (del fratello verso la sorella) ma di transfobia (Maria si era allontanata dalla famiglia perché non accettava Ciro come uomo).
E così una macchina sperona il loro motorino. Maria cade a terra e muore. Suo fratello scende dalla macchina ed, al posto di soccorrere la sorella, riempie Ciro di botte, quel Ciro che non veniva accettato come uomo, ma a cui si riserva una “resa dei conti” al maschile (non una violenza sessuale, ma un pestaggio).

La violenza dei Media e di Arcilesbica


I giornali raccontano la vicenda. Sorprendentemente, giornali conservatori come “Il Messaggero” riescono a rispettare l’identità di genere di Ciro, mentre Rai 1 lo trasforma in “Cira” e parla di “relazione gay”. Insorge Arcilesbica correggendo: era una relazione lesbica, tra due donne, postando un disgustoso status di una loro affiliata che chiarisce che “Cira pensava di scappare dalla lesbofobia facendosi chiamare Ciro, ma la lesbofobia ha visto quel poco di femminile che era rimasto”. Insomma, Arcilesbica e i suoi famigli hanno “deciso” che Ciro era solo una lesbica che non si accettava, e che se nasci in un corpo xx sei donna e basta. Insomma, Arcilesbica, e la corte dei miracoli del femminismo terf hanno “deciso” che Ciro si definisce uomo solo per ignoranza e lesbofobia interiorizzata, e “uccidono” questa coppia due volte. Parlano delle “ferite del corpo di donna” di Ciro, e della sua forza fisica inferiore (non è che sarebbe andata diversamente se fossero stati speronati in scooter due uomini gay), ma a parte questi dettagli, tutti confutabili uno per uno, la cosa che lascia basiti è lo sciacallaggio: una tragica morte usata per ribadire il biologismo, e che gli uomini trans, secondo loro, sono donne: la triste contesa per rivendicare una “lesbofobia” che non c’è: è evidente per tutti che è un chiaro caso di transfobia, ma ad Arcilesbica non essere sotto i riflettori pesa. Un anno fa di questi tempi era stata uccisa Elisa Pomarelli, e lì era sacrosanto che il femminismo/l’associazionismo lesbico fosse in prima linea. Vi immaginate se, un anno fa, le associazioni T avessero rivendicato che Elisa fosse Eliso per via del “look androgino”? Vi sembra diverso ciò che stanno facendo con Ciro le associazioni Terf?

Non è misoginia/patriarcato se la vittima è una donna etero?

Se il desiderio è parlare di misoginia, patriarcato, femminicidio, la morte di una ragazza mi sembra un motivo buono per farlo. Se Ciro fosse stato un ragazzo, biologicamente maschio, maghrebino, o semplicemente un ragazzo diverso da quello scelto per Maria, e lei fosse stata uccisa per questo, non sarebbe stato sufficiente per intervenire contro misoginia, maschilismo e violenza familiare sulle donne? No. Pare che debba essere “donna” anche Ciro.
E un aspetto che nessuno sembra voler trattare è la transfobia che ricevono i nostri partner, colpevoli solo di amarci, indipendentemente che siano etero, omo o bi.
E, se questo teatrino non fosse sufficiente, arriva la “gara di vittimismo”, con le femministe che dicono che “stanno parlando troppo di Ciro, la vera vittima è Maria”.

“Lo misgenderiamo perché non prende ormoni”

Per finire in bellezza, oggi troviamo sulle bacheche di Arcilesbica Nazionale e Marina Terragni uno status condiviso che chiarisce che loro useranno Cira finché qualcuno non garantirà che Ciro era nel percorso medicolegale/ormonale, ribadendo che “i transessuali” meritano il rispetto, gli “autocertificati” no. Dopo quest’affermazione, ribadiscono quindi la loro volontà che la legge Zan non tuteli chi non è nel percorso medico-legale (quindi, ad esempio, Ciro stesso).
Non sappiamo se Ciro fosse in ormoni, se avesse difficoltà ad iniziare il percorso per via dell’ambiente degradato in cui vive, se fosse pre-T o semplicemente “non med”, ma un noto film ormai di decenni fa, Boys don’t cry, parlava di un ragazzo T al di fuori del percorso ormonale, ma quando il film è uscito, nessuno ha insinuato che fosse un film “lesbico”. Insomma: si era più evoluti negli anni novanta. Possiamo dire quindi che, la precisazione di Arcilesbica, è un caso emblematico di “la toppa è peggiore del buco”.


Conclusioni

L’episodio tragico, e il triste epilogo che riguarda i media e le associazioni lesbiche/femministe, dimostra che la legge Zan (nella sua attuale configurazione, che cita l’identità di genere) è fondamentale, per tutelare le persone T “da destra” (la transfobia degli etero, dei media) e “da sinistra” (la transfobia di un certo attivismo lesbico e femminista).

Le persone T rafforzano gli stereotipi? Falso. Vediamo perché…

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L’accusa più frequente che ricevono, da parte del cosiddetto movimento “gender critical”,  le persone transgender e non binary è quella di “confermare gli stereotipi”.
Il messaggio implicito è che la condizione transgender non esista, che siamo tutti “cisgender” (anche se loro non userebbero mai questo termine, preferirebbero il più gettonato “normali”), e che in realtà si definisca transgender chi è troppo debole per vivere come “non conforme ai ruoli”, rivendicando sesso biologico e nome anagrafico.
Per dirla con un esempio, secondo loro un ragazzo ftm, o non binary di biologia xx, dovrebbe vivere usando nome anagrafico, usando la grammatica in modo che si declini in base al corpo, esprimendosi poi, nei ruoli, in modi non previsti o accettati dalla società.

Il movimento T supporta le persone cisgender che sfidano ogni giorno ruoli ed espressioni binarie e tradizionali, perché la loro presenza, indirettamente, contribuisce a far sì che vengano accettate le persone LGBT.
E’ però un percorso adatto a chi non ha una tematica di identità di genere, e che mette in discussione “solo” i ruoli.



Affrontiamo però, una per una, le contraddizioni della visione Gender Critical…

 

1) “Il genere è un costrutto. Se tua madre ti ha chiamato Carmela, devi usare quel nome, e poi reinventare il tuo ruolo di genere, come donna”

 

Se “il genere” è un costrutto, allora è un “costrutto” che ci nasce con la vagina si chiami con un nome scelto dai nomi di persona “approvati” per le bambine (tanto che spesso, almeno nel passato, i genitori italiani che volevano chiamare Andrea loro figlia hanno avuto dei problemi). Se siamo contro questo “costrutto” e i suoi stereotipi, allora chiunque, portatore di pene o di vagina, dovrebbe potersi chiamare Kevin, Alex o Maria Antonietta.
Imporre un nome aderente a quel “costrutto”, sarebbe un modo di supportarlo, così come viene supportata l’impostazione grammaticale che vuole la A per i nati con la vagina e la O per i nati col pene. Perché? Se è un “costrutto” non dovremmo essere contro questo “costrutto”?

 

2) “Voi ftm gay volete solo sfuggire dalla tossicità di un compagno etero”

 

“Gay” ed “etero” sono orientamenti, che nulla dicono sul ruolo di genere della persona, né su quanto la persona sia misogina, né su quanto voglia prendersi carico della gestione domestica, o vogliano prendersi cura del piacere del/della partner. Detto questo, io scarterei l’idea che “una donna etero” si finga “uomo gay” per smettere di attrarre l’uomo etero ed attirare un tipo di uomo più “civile”.
Mi interrogo, però, se quest’argomentazione nasca da una frustrazione di fondo della donna etero, lasciata da “sola” da tutti questi “migranti del genere” che lasciano il porto dell’eterosessualità femminile per approcciare altrove: donne eteroflessibili, omoflessibili, bisessuali, che scelgono infine una compagna donna, magari proprio per sottrarsi a quella dinamica eteronormativa tossica che non fa di per sé parte dell’essere etero, ma di fatto vi si sovrappone, e anche quelle persone transgender o non binary che si trovano meglio nelle relazioni non eteronormative e non binarie con partner uomini non eterosessuali.
Anche fosse così, e non credo sia così, sarebbe solo la prova che il movimento femminista ha fallito, e sa solo dispiacersi del fatto che venga preferita qualsiasi definizione a “donna etero”, un po’ come quei governi che attaccano chi va a vivere all’estero senza concentrarsi su dove hanno sbagliato per il fatto che le persone vanno via, e sono felici altrove.
Se fosse vero, se noi ci definissimo “altro” da donna etero per scappare ad un “ingrato destino”, fatto di maschi binari spaparanzati sul divano, mentre la moglie pulisce il culo del bebè, non sarebbe solo un segnale del fatto che, al posto, di disperdere energie nelle battaglie “gender critical” bisognerebbe riqualificare la condizione di “donna etero”, rendendo meno tossico, per una donna, stare in coppia con un uomo etero?

 

3) “Se una donna mascolina vuole essere considerata uomo, rafforza lo stereotipo che solo un uomo può fare cose maschili”

 

Premettendo che persone T e non binary non sempre (anzi, quasi mai) incarnano lo stereotipo, mi chiedo perché si faccia sempre leva sulle incarnazioni stereotipate delle persone T e non su quelle di altre realtà.
Premettendo che ognuno di noi dovrebbe incarnare l’espressione che sente più sua, se proprio dovessimo restituire questo atteggiamento, potremmo dire che:
le donne lesbiche butch e gli uomini gay “checca rafforzano lo stereotipo che si possa essere non conformi ai ruoli solo se omosessuali
– le coppie lesbiche butch-femme e le coppie gay virile-checca rafforzano lo stereotipo che anche le coppie gay debbano essere eteromimetiche e che quindi ci sia sempre una polarità femminile ed una maschile, come nell’eteronormatività, e che quindi l’unico modello di riferimento valido sia sempre e solo quello della coppia etero.
– le femministe etero che depilano polpacci, baffi e via dicendo fomentano lo stereotipo che se devi piacere all’uomo devi avere un’espressione di genere aderente allo stereotipo, almeno il minimo sindacale, altrimenti rischi di rimanere zitella.

 

4) “Se ti definissi donna, saresti più efficace, la tua esistenza combatterebbe gli stereotipi”

 

La presenza di persone che, rivendicando sesso biologico e nome di nascita, si comportano in modo non binario, cambierà il mondo: vero. Il movimento T tifa per queste persone.
Tuttavia, è una battaglia che deve fare chi T non è.
La felicità prima di tutto: non è sacrificando le persone T e non binary, imponendo loro di presentarsi come da sesso biologico, che le cose cambieranno.
E’ il momento, per le persone gender critical, di scendere in piazza rendendo politici i loro corpi: che siano loro, i critici del genere, ad incarnare ruoli contro ogni logica binaria e normativa, che smettano di chiedere a noi di combattere le loro battaglie, mentre incarnano i dettami rassicuranti della società per non rischiare la marginalità che rischiamo noi.

 

5) “Una famiglia preferisce un/a figlio/a transgender ad un/a figlio/a omosessuale o di ruolo non conforme”

 

Quasi tutte le persone T, ai gruppi di autocoscienza, rivelano che i familiari avevano maggiormente accolto l’eventuale precedente coming out di “cis omosessuali” o accettavano maggiormente una non conformità agli stereotipi, legata alla rassicurante presentazione in società col nome anagrafico.
Chi parla, non ha idea del prezzo di un coming out transgender, in un posto di lavoro, in una famiglia d’origine.
Se così non fosse, non ci sarebbe tanto “velatismo”, di persone T etero che vivono da cis omosessuali o di T gay che vivono da cis etero. E queste persone T velate, attualmente, sono la maggioranza delle persone T.

6) “In un mondo antibinario, non esisterebbero le persone T”

 

Non sappiamo se, in un mondo totalmente antibinario, con una grammatica inclusiva, nomi anagrafici unisex, vestiti e ruoli unisex, esisterebbero le persone T.
E’ difficile fare valutazioni su quel mondo: magari la body modification, anche sui caratteri sessuali, sarebbe estesa a tutti, e non solo a chi oggi si definisce T, e di contro chi oggi si definisce T potrebbe non averne bisogno.
E’ facile immaginare quel mondo senza persone T, ma per noi potrebbe essere facile immaginarlo senza omosessuali ed eterosessuali. Cadute tutte le differenze tra xx ed xy, rimarrebbe solo il corpo, che, svuotato da tutti i sovra-contenuti culturali, soprattutto nelle persone giovani (o paradossalmente, molto anziane), è androgino. Chi può dire se, in questo mondo “non binary”, i genitali avrebbero l’importanza che hanno nel nostro?

 

7) “Anche io mi sono interrogata, volevo transizionare, ma poi il femminismo mi ha salvata”


Sembrano presenti, molto spesso, i casi di donna “gender critical” che da giovane era questioning sull’essere transgender. Imma Battaglia, J.K.Rowling e tante altre. Nulla di male: tante persone vivono periodi “questioning” su orientamento sessuale ed identità di genere.
Perché proiettano il loro percorso, dignitoso quanto il nostro, ma che ha portato su altri lidi, su di noi? Perché tanto risentimento per la via che hanno scartato? Cosa c’è di non risolto in quell’odio?

 

8) “Ora ti definisci uomo, ma un domani potresti definirti donna butch”

 

Spesso, le femministe lesbiche rivendicano azioni “alla Povia” in cui ricordano che qualsiasi definizione può essere smentita, rivisitata, cambiata, negli anni.
In realtà, questo vale anche per la definizione che diamo del nostro orientamento. Quante militanti di associazioni lesbiche ora sono madri di famiglia con tanto di marito etero al fianco? Idem per chi è stato attivista gay, e per i tanti e le tante etero che solo in tarda età si sono accettati come omo o bisessuali (i cosiddetti “percorsi secondari”), e, per concludere in bellezza, tutte quelle persone che, dopo anni nella militanza omoessuale, si sono scoperte ed accettate come omoflessibili, eteroflessibili, bisessuali, pansessuali.
L’esplorazione di se stessi è fisiologica, avviene, ma sottolineare il tema “presta il fianco” ai ripatatori, ai seguaci di Nicolosi e Povia, a chi propone i percorsi “ex gay”, “ex lesbica”, “ex trans”, in cui interviene “la devozione verso Cristo”.
Evidentemente, però, i gender critical stanno molto attenti a dire che l’orientamento può essere rivisitato ed esplorato, nel corso della vita, e sottolineano invece che l’identità di genere può essere ridiscussa dalla persona, portando sul palmo di mano tutti quei percorsi “desister”, che esistono, pur essendo pochi, e valorizzando persino quei percorsi legati a conversioni religiose.

 

Conclusioni

Concludendo, io penso che chi combatte battaglie femministe “gender critical” sia molto frustrato/a. I risultati tardano ad arrivare e dà fastidio che chi sceglie altri percorsi rivendicativi sia felice.

Tante, troppe, pagine di presunto femminismo hanno esclusivamente contenuti contro la condizione T: nessuno spazio alla lotta contro ruoli e stereotipi di genere.
Se davvero, come loro sostengono, l’autodeterminazione è qualcosa di effimero e variabile, se davvero le nostre definizioni valgono nel “qui ed ora”, perché, al posto di insultarci, delegittimarci, misgenderarci, deridere le nostre autodefinizioni, non combattono per costruire quel mondo senza dettami di ruolo?
Siamo un nemico debole, rassicurante, un bersaglio facile. Siamo, per usare una parola “complottara”, l’arma di distrazione di massa, il giocattolo delle teoriche annoiate, professoresse di diritto in pensione e  scrittrici autoprodotte.
Il vero nemico è quel marito che hanno nel letto e non ha mosso un dito nell’educazione dei loro figli, il capo che le sottopaga in quanto donne, il figlio machista e bulletto che presenta tutto il maschile tossico del padre, nonostante una madre femminista, eppure, tutto ciò, sembra meno pericoloso di una persona xx che si definisce uomo e ha un fidanzato gay…

 

 


FestivalMix 2020, la forza dell’irriverenza LGBT on demand ed in sala

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Il rituale del CinemaMix

Il Cinema Mix è uno dei momenti cardine del mondo dell’attivismo meneghino.
Per noi attivisti della “vecchia guardia”, sfilare sul “red carpet” del Cinema Mix, farci le foto davanti al tabellone pieno di loghi “more love” e bandiere arcobaleno, magari sfoggiando un bel fidanzato, entrambi elegantissimi, è il top.
Non si può non esserci: è un rituale: quando il lavoro scema, i pomeriggi di luce diventano infiniti, a giugno, inizia la maratona CinemaMix, e così per quattro giorni si “vola” in scooter, facendo lo slalom tra lavoro ed eventi PrideWeek in cui magari si è relatori, si attraversa uno sciame di attivisti e non, tutti impegnati nell’aperitivo adiacente al Teatro Strehler, tutti con birretta in mano in bicchiere di plastica.
Saluti qui e là a persone che non vedi dall’anno prima. Sfoggi il biglietto “vip”, col tuo bel collanone col cartoncino “Staff Only”, entri, posi il casco in guardaroba (dopo che ti hanno rimproverato, perché stavi entrando portandolo con te), le luci si abbassano, ed inizia la maratona: documentari che mostrano quanto sia difficile essere LGBT nei paesi in via di sviluppo, alternati a film, corti, e documentari più “occidentali”, che mostrano tecniche cinematografiche e narrative spesso più sofisticate.
E poi, le premiazioni, soprattutto alla serata d’apertura. Esserci non è solamente l’occasione di vedere una serie infinita di prodotti video che parlano di noi, ma è partecipare al Movimento, esserne parte, condividere questo momento con tutti gli altri che hanno, insieme a te, appena terminato un intenso anno di attivismo.
Poi, però, è arrivato il Covid….

 

Le soluzioni trovate dalla direzione artistica

CinemaMix non ci ha lasciato a bocca asciutta. A giugno abbiamo potuto godere, on demand, della proiezione di Temblores (che poi sarebbe stato il vincitore del festival), un film made in Guatemala che narra un coming out che in gergo potremmo chiamare “secondario” (in età adulta) di un padre di famiglia che subisce la marginalizzazione, in un Paese ancora non abbastanza in via di sviluppo.
Poi, a fine settembre, si è dato il La al CinemaMix vero e proprio, in modalità ibrida: alcune proiezioni e presentazioni di pregio dal vivo, e tutto il resto (in verità non di pregio inferiore) on demand da casa, con la possibilità di “chiacchierare” in chat coi vicini di posto.

La maratona dei corti e dei documentari

Si inizia con Letter to my mother, una pellicola che narra di un ragazzo iraniano, che, riprendendosi nella vasca da bagno mentre si depila, parla degli abusi sessuali subiti dal patrigno, e di quanto, parlandone con lo psicologo, non sappia quanto il suo essere LGBT sia stato condizionato da questo. Il corto finisce con un primo piano del protagonista truccato.
Passiamo ad un documentario della categoria “I talenti delle donne”: Presenting Joani: The Queen of the Paradiddle, che narra della batterista lesbica che ha aperto la strada alle donne nella musica Jazz, impegnate in strumenti pensati a torto solo per gli uomini.
Si prosegue con un corto del Nord Europa, Queer Shorts: Tricky to Love, che narra, con ironia e scenari “trash”, di una madre iper apprensiva col figlio adottivo asiatico, la quale, decidendo che il figlio è gay, gli cerca un fidanzato coetaneo sulle app, mentre vive nella paura che un viscido uomo maturo gli metta le mani addosso.
Si prosegue con Code Academy, ambientato in un futuro distopico, in cui ragazzi e ragazze crescono separati fino ai 18 anni, incontrandosi e flirtando solo in una realtà virtuale, ma cosa succede se una persona sceglie un avatar di sesso opposto?
Si prosegue con Deep Clean, corto della durata di 4 minuti, britannico, che esplora l’oggettofilia, mentre un gay molto camp, fanatico del design, vive un rapporto sessuale passivo con l’aspirapolvere, il tutto condito da una fotografia allegra e colorata, scene incensurate di penetrazione, ed una briosa colonna sonora, elementi che rendono il tutto incredibilmente camp.
Unconditional Love parla di un ragazzo polacco gay, accettato dai genitori e con un compagno, che fa coming out con una nonna molto conservatrice, momento che rischia di incrinare il loro rapporto.
Les saintes de Kiko narra di un’artista giapponese, in Europa per trovare l’ispirazione, monitorata a distanza da un marito geloso, che si incuriosisce nel vedere due “leather bear” fare sesso in spiaggia. Inizia a “perseguitarli” e ritrarli, finché loro, inizialmente infastiditi, se ne accorgono, ma poi (sempre che non sia una fantasia dell’artista, attratta da uomini fisicamente virili, diversi dall’androgino marito orientale) la coinvolgono in un ménage à trois. Il corto finisce con quello che ormai è diventato l’ex marito, che va a chiederle un autografo per il suo yaoi di successo, ispirato a quest’avventura poliamorosa.
La maratona dei corti finisce con Panteres parla dell’adolescenza confusa di due ragazze.

I lungometraggi: e l’inconfondibile provocazione queer di Bruce LaBruce

Per ragioni di tempo, ho potuto vedere solo tre lungometraggi. On demand, ho visto And then we danced, che parla dello scoprirsi gay nel mondo del ballo (folkloristico) in Georgia.
Dal vivo ho visto Kokon, incentrato sulla vita di una quattordicenne timida a Berlino, che si interroga sulle attrazioni lesbiche che prova, sminuita da una dottoressa che ridimensiona tutto ad “una fase”, da una sorella maggiore che la bullizza insieme alle sue amiche, da una comitiva di ragazzi musulmani di “seconda generazione” piena di “maschile tossico”, e con una madre alcolizzata ed assente. Unica figura positiva, la nuova compagna di scuola, bisessuale e “punk”, che rappresenta per lei il suo primo amore.
Il film mette in scena con realismo i momenti chiave della pubertà femminile, lo stare a contatto, anche tramite lo sport, con coetanee dello stesso sesso ed il ciclo mestruale.
Maggiore attenzione ha avuto per me il film, proiettato in prima serata sabato, dopo la premiazione di Gino Strada, il film di Bruce LaBruce, autore punk/queer che seguo da anni, chiamato Saint-Narcisse, ambientato negli anni Settanta, e che di quell’epoca evoca colori e profumi.
La vicenda prende le mosse quando Dominic, turbato da sogni erotici eterosessuali e dall’immagine nebulosa di un frate incappucciato, lascia la casa della nonna, che lo aveva cresciuto insieme al padre, per rintracciare la madre, che credeva defunta, e che invece era stata “ripudiata”, separata alla nascita dal bambino, ed andata a vivere con la sua compagna in un luogo sperduto. Il suo viaggio, però, lo porterà a trovare una sorella adottiva, e un inaspettato fratello gemello frate, prigioniero di un percorso di vita non scelto, e molestato da un vecchio Abate, che lo crede la reincarnazione di San Sebastiano, e lo trafigge con piccole frecce. Il regista pone in contrasto gli abusi all’interno del mondo religioso ed una famiglia poliamorista, pansessuale ed incestuosa, presentata come modello positivo.
La scena cardine è quella in cui i due fratelli gemelli, ritrovati, narcisisticamente fanno sesso. Dopo, Daniel racconta di ciò che vive con l’abate, e Dominic, sconvolto, chiarisce che è un abuso. A quel punto Daniel, confuso, chiede se è un abuso ciò che è appena successo, e Dominic, stimolando una risata del pubblico del CinemaMix (non certo dei moralisti, direi), esclama “Ma è diverso! noi siamo una famiglia!”

Conclusioni

Il CinemaMix si dimostra, come sempre, pieno di piccole perle, che sarà difficile reperire o rivedere al di fuori di questo contesto. L’unica pecca è la carenza di narrazioni transgender, soprattutto in direzione FtM, ma è possibile che negli anni questo aspetto possa essere migliorato, magari con il coinvolgimento di più attivisti transgender e non binary nella scelta delle pellicole.
Dopo questa piccola nota negativa, però, voglio fare i complimenti allo staff, che, nel proporre questa modalità ibrida, è riuscito a donare all’attivismo milanese, sconfiggendo i problemi legati al Covid, un momento rituale fondamentale, la cui mancanza, lo scorso giugno, ci aveva fatto sentire tutti un po’ vuoti e disorientati.

Legge Zan, Nathan relatore per ArciAtea

RedPill, quando la critica ai ruoli di genere è misogina

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Qualche anno fa mi hanno spiegato che oltre agli attivisti MRA, ci sono gli “attivisti” Incel e “RedPillati”. Curioso come una scimmia, ho provato a capirne di più di questo movimento.
La cosa che mi incuriosiva è che per una volta era la “maggioranza” (non che “le donne” siano una minoranza!), ovvero gli uomini etero, a voler costruire impalcature sociologiche per analizzare vantaggi e svantaggi di quello che noi attivisti LGBT chiameremmo “binarismo di genere”.

Mi incuriosiva il fatto che qualcuno, quelli che noi LGBT e le femministe consideriamo “privilegiati”, ragionassero sullo “svantaggio” di essere uomini biologicamente maschi ed eterosessuali, in un mondo “binario” che si basa sui ruoli di genere.
Mi interessava cercare di capire il “contraccolpo del privilegio”, in quanto io sono una persona LGBT, ma sono anche un uomo, anche se non eterosessuale, e soprattutto perché non mi sono mai definito “femminista” ma “antibinario”.
Ho deciso di capire se poteva esserci qualcosa di fondato nella cosiddetta RedPill, anche se non condividevo per nulla come essa veniva promossa e presentata, almeno in lingua italiana.

Prima, però, è il caso che io spieghi a chi mi sta leggendo
 cosa è questa RedPill e a che conclusioni sono arrivato studiandola.

Cosa è questa RedPill

Non so quando la teoria RedPill sia nata, ma esaminando Google Trends, nel 2014 questo termine ha una veloce crescita nelle ricerche, e ha un picco nel 2017, proprio quando io ne avevo sentito parlare.
Il nome è tratto da Matrix, anche se le due registe transgender non avrebbero mai pensato che qualcuno facesse questo utilizzo, e il fenomeno è legato a doppio filo al movimento Alt Right americano, della destra “alternativa”, che sostiene che il “vero” discriminato oggi sia l’uomo eterosessuale bianco.
La teoria sostiene che l’uomo etero “risvegliato” dalla pillola rossa è in grado di capire che la donna, “per natura” (e qui vi è grande distanza dal movimento antibinario, che sostiene che i ruoli siano culturali), cerca la sicurezza di un uomo protettivo e potente che la mantenga, e che quindi abbia potere, soldi e “bellezza”.
Andando, però, negli spazi redpillati scopri che hanno un loro concetto di bellezza, basato sulla simmetria del viso, verificabile da alcune strane app che danno ad ogni viso un voto dall’1 al 10. In qualcosa che ha sfumature omoerotiche, i redpillati condividono foto per avere conferme o smentite sul voto da 1 a 10 che essi danno a sè stessi, dagli altri maschi redpillati.

Inoltre, la teoria sostiene che sia stato il 1968, e la successiva libertà sessuale a permettere, tramite la caduta dei “matrimoni combinati” a tutte le donne ad ambire a uomini più belli e ricchi, lasciando a bocca asciutta i brutti, i poveri, e gli ignoranti.
Il movimento, quindi, spera in un ritorno alla società precedente all’emancipazione femminile, quella che per noi attivisti, invece, non è ancora sufficiente.

Molti uomini redpillati sono di destra e cattolici.

I loro gruppi sono più che altro spazi di “gruppo di autoaiuto”, in cui, spesso con commenti gratuitamente misogini (addirittura le donne sono chiamate le NP, o le ennepì, le “non persone“), gli uomini protestano sui rifiuti ricevuti, chiarendo che queste donne sono dei 3, dei 4, dei “cessi a pedali” e non si capisce come abbiano respinto loro. Inoltre, sostengono che le donne siano attratte prevalentemente da uomini mascelloni e violenti, e scartino i “sensibili uomini beta”, ma spesso si dimostrano loro stessi violenti, in questi sfoghi pieni di insulti e minacce.
I personaggi peggiori, invece, giustificano stupri, molestie, dicendo che sono le donne che “se la cercano”.
E’ chiaro che, se il loro movimento voleva essere una critica ai ruoli di genere (quelli che vogliono che l’uomo sia galante, offra cene, e venga scartato se non abbastanza macho o in carriera), poichè essi paradossalmente danneggiano anche l’uomo etero (pressato dalle aspettative di forza e dominanza, scartato per qualcuno di più autoritario), esso fallisce e si perde in una serie di sfoghi gratuiti, violenti, pieni di body shaming alle donne, senza nessuna vera proposta, se non quella di tornare a quando vigeva “la legge del più forte” e la donna doveva sposare chi la sceglieva, senza poter scegliere, e dove i ruoli di genere da cui si sentono oppressi erano ancora più marcati.

E le donne? Esistono donne redpillate?

In questi gruppi ce ne sono di tre tipi:
La connivente: cattolica e di destra, spera che si torni agli anni 50, e dice che sono “tutte troie”. E’ sessuofoba e moralista e toglierebbe la sua stessa libertà per toglierla alle donne più disinibite. Un esempio ante litteram potrebbe essere Costanza Miriano di “Sposati e sii sottomessa”
La troll: è lì sotto copertura solo per prenderli in giro e fare screenshot
La profumiera fiera: una “mistress” che dice che la redpill esiste eccome e lei la applica con successo, usando il suo “potere sessuale” per puntare a uomini ricchi e potenti. E’ antifemminista, e non le interessa la carriera (considera stupide e “contronatura” le donne che vogliono fare successo senza affidarsi ad un uomo potente accanto a loro).
Considera la donna più “potente” dell’uomo, una “privilegiata”, e ne è felice, ma nel considerarla potente, fa riferimento al suo potere “sessuale” sull’uomo etero, da sempre affamato di figa.

Ma il potere “sessuale” è potere?

Il fatto che una donna non possa accedere ad un posto di lavoro sufficientemente retribuito, per comprare “una Ferrari”, ma possa “sventolare la vagina” (cit.) su uno sfigato per fare un giro nella sua Ferrari, è potere?
Secondo queste redpillate, e un certo ramo estremo di femminismo, si. Secondo me, no.
Quello che lamentano i redpillati, ovvero che la donna possa entrare in una discoteca o iscriversi su meetic gratis, essendo subito bombardata di proposte di proverecci insistenti, non è “un privilegio”.
Se la donna potesse accedere alla carriera, al potere, senza passare dai letti di questi “Chad” (la redpill sembra chiamare così gli uomini con soldi, potere, e mascellone), sarebbe meglio non solo per la donna, ma anche per questi maschi etero “beta” che non hanno soldi e potere da offrire.
Non si capisce, quindi, perché, questi signori redpillati vogliano il ritorno agli anni ’50, un’epoca in cui l’uomo senza istruzione, senza un buon lavoro, senza una posizione, valeva ancora meno di adesso.
Non capiscono che le varie “mistress” che puntano ad un benessere economico dato da un uomo, e non ottenuto tramite la propria carriera, sono il frutto di quei ruoli tradizionali a cui vogliono tornare? Era proprio a quei tempi che le madri dicevano alle figlie di cercare “il buon partito”, ed è stato dopo il ’68 che, invece, hanno potuto scegliere il partner che più preferivano, anche solo per motivi estetici, o perché maggiormente capace di dare loro piacere.
Perché quello che non considerano gli Incel, quando dicono che “per natura” il sesso piace molto più agli uomini che alle donne, è che la loro idea di sesso è qualcosa che finisce quando l’uomo gode, senza la preoccupazione di far godere la donna, e un sesso concepito in questi termini non può che essere una prestazione “di scambio” per avere in cambio altro, che sia l’amore o la stabilità.
Non capiscono che il femminismo, che tanto odiano e combattono, darebbe alla donna un’equa possibilità di accedere a soldi e lavoro, e quindi non ci sarebbe neanche più bisogno di quei residui di cavalleria, che impongono di “pagare una cena” ad una donna, cavalleria che spesso porta poi le donne a vivere con imbarazzo un rifiuto, colpevolizzato da chi, avendo offerto una pizza, sperava di ricevere in cambio del sesso…

Redpill e omosessualità.

Essendo quasi tutti cattolici e di destra, donne comprese, l’omosessualità e la transgenerità sono spesso stigmatizzate dai e dalle redpillate.
Qualcuno sostiene che l’omosessualità “eteromimetica” (non usano di certo questo termine) riprende i ruoli redpill, e in quel caso a “farlo odorare per una cena” sarebbe il gay passivo.
Altri redpill, invece, sostengono che vorrebbero tanto essere gay, perché tra gay non esiste “l’ipergamia” (termine redpill che descrive il presunto tentativo delle donne di cercare un uomo più bello e ricco di loro), ma sono gli stessi che vorrebbero tanto “essere donna per poter essere troia”. Addirittura alcuni di loro pensano che le donne trans siano uomini che sono “diventate donne” per avere la vita più facile, pensiero condiviso, paradossalmente, dalle terf, che in teoria dovrebbero essere agli antipodi di incel e redpillati.

Termini tecnici incomprensibili per gli esterni

Fare un tuffo nella loro “subcultura” porta a dover quasi tradurre le loro frasi, piene di inglesismi apparentemente incomprensibili e di difficile riconduzione etimologica.
Usano LookMaxare per parlare di chi migliora il suo aspetto, Cuck o Bluepillato per descrivere chi è “ancora sottomesso” al potere sessuale femminile, Blackpillato per descrivere chi è ancora troppo incazzato con le donne per abbracciare la teoria redpill, LMS per descrivere la teoria secondo la quale la donna cerca Look, Money e Status, Incel per descrivere un celibe non per sua volontà, Chad per descrivere il belloccio dietro cui le donne muoiono al posto di accettare la corte di un redpillato, Ipergamare per descrivere la donna che cerca un uomo migliore di lui, e il già citato termine misogino “non persona”, per descrivere le donne, ovviamente madre e sorella esclusa.

Ma questi “incel” sono davvero così brutti?

Oggettivamente sono anche carini, forse non per i parametri eterosessisti ma lo sono. Il problema, secondo me, è che le donne percepiscono rabbia e instabilità psicologica, e li evitano. Ogni tanto, nei loro gruppi, qualcuno dice di “esserne uscito”, perché, “abbandonata la rabbia”, ha iniziato a proporsi in modo più sereno e ha trovato l’amore, ma ovviamente viene insultato.

Quindi essere donna può essere, sotto certi aspetti, un “privilegio”?

Il problema del “potere femminile” di cui parlano i redpillati, è che è qualcosa che può piacere solo alle fiere redpillate di cui ho parlato prima.
Le donne sono un insieme molto variegato. Ci sono donne non etero, ci sono donne non giovani, non magre, o magari giovani, magre, ed etero, ma non disposte ad agghindarsi per l’uomo etero.
E’ potere quello che ti costringe a conciarti per forza, a vita, in modo avvenente per l’uomo etero, per avere il potere “tramite” lui?

Non capiscono che la ricostruzione sociologica della realtà che fanno e da cui si sentono oppressi è tossica molto più per donne stesse che per l’uomo etero beta?

Conclusioni e alert per i “Queertechisti”

So già che mi si sarà fatto pesare persino che queste cose me le sono chieste, perché il “dogma queer” non permette di interrogarsi sulla validità, anche solo parziale, delle teorie “alternative”, ma io sono per natura un ricercatore, un pensatore autonomo, e non un catechista di una teoria imparata e importata dall’estero.
Le conclusioni sono sicuramente negative, e non potrebberlo essere di più, ma questo non significa che non ci sia, oltre al problema degli uomini redpillati, quello delle donne redpillate, che lo siano consciamente o, come nella maggior parte dei casi, a loro insaputa:
tante donne, al di fuori dei circuiti della consapevolezza femminista o antibinaria, sono convinte che essere una donna procuri dei privilegi, ovvero avere potere usando l’avvenenza di un corpo femminile, che però, per essere efficace, deve sempre essere tenuto giovane, magro, ed attraente, e quindi gradevole agli occhi dell’uomo etero, coerente col suo desiderio, perché questo è l’unico modo di avere potere e benessere economico “tramite” l’uomo.
Al di fuori di certi percorsi di autocoscienza, qualcuno, o meglio, qualcuna, potrebbe davvero credere che questo sia un “privilegio femminile”.


We are who we are, potrebbe essere la storia di un giovane ftm gay?

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Non ho dato a “Chiamami col tuo nome” la giusta attenzione, quando l’ho visto al cinema, con un gruppo di amici gay entusiasti: narrava una storia troppo diversa dalla mia: il giovane alla scoperta della sua sessualità che prende una sbandata per l’uomo adulto, amico del padre, che poi lo abbandona per un destino conforme ed eteronormativo.
Ai miei occhi non apparivano come due bisessuali che hanno avuto un loro momento, ma mi sembrava la classica storia dell’uomo adulto velato che prende in giro il ragazzino, e questo ha creato in me un pregiudizio verso Guadagnino.
Ma quando l’amico GI mi ha parlato di We are who we are, accennandomi la trama delle prime puntate, ho deciso di dare una possibilità a questa serie tv, presente sulla piattaforma NOW TV e su Sky.


La trama (allarme spoiler), salta il paragrafo se vuoi


I protagonisti sono due: Fraser, adolescente ribelle, fashion victim e per nulla virile, figlio di una donna, da poco a capo della base militare di Chioggia, che ha una compagna, che ha conosciuto appena dopo aver scoperto di essere incinta, quindi, di fatto, figlio di queste due donne, e poi abbiamo un personaggio che viene chiamato Catlin da genitori, una donna Nigeriana e un alto grado militare afroamericano trumpista.
Fraser nota qualcosa di singolare in Catlin, e “la” pedina, per scoprire che, al di fuori della base, si presenta come Harper e prova “euforia di genere” ad essere considerata maschio. A quel punto i due diventano amici e Fraser aiuta Harper a prendere consapevolezza, parlando a lui dell’essere “transgender”, non come mero passaggio da un genere all’altro, ma come dell’essere “oltre”, e accompagna Harper nelle sue sperimentazione, regalandogli vestiti e rasando i suoi capelli, la lunga chioma iconica che lo rendeva la ragazza più carina della scuola, ambita da molti maschietti, con cui però limonava in modo annoiato.
Harper sperimenta con alcune ragazze (una ragazza di Chioggia, poi la sua migliore amica, e infine una stone butch molto maschile di Bologna, informata su cosa è un transgender, proprio perché a Bologna non dimentichiamo che c’è il MIT), che hanno il pregio di vederlo uomo, ma solo dopo rivelano di sapere della sua natura biologica. Non sembra interessato a questi baci, e l’interesse scema del tutto quando viene fuori che sanno che non è un uomo biologicamente maschio.
Poi abbiamo Fraser, arrabbiato con le madri per averlo portato via da New York e dal suo migliore amico, di cui era innamorato. Trova in un soldato trentenne una figura paterna, ma anche un ragazzo da cui è attratto, e che cerca di corteggiare, con parziale successo, visto che il soldato flirta apertamente, pur chiarendo che ha una fidanzata, che, a quanto pare, non ha problemi con la sua bisessualità.
Poi abbiamo le famiglie dei ragazzi. Harper ha un padre conservatore e ossessionato dagli Usa, tanto che ha fatto perdere l’identità africana alla moglie e al figlio adottivo, che la moglie aveva avuto da una precedente relazione, cambiando i loro nomi, americanizzandoli, e facendo sì che il figliastro cerchi le origini islamiche. La moglie nigeriana, però, scoprirà un fugace amore con una delle madri di Fraser, mentre l’altra proverà un passeggero invaghimento per il soldato bisessuale che piace tanto al figlio.
Infine, il giorno prima della partenza della famiglia di Harper, la quale ha visto i cambiamenti “della figlia” (del figlio?) come il risultato della cattiva influenza di Fraser e della sua famiglia, finalmente Harper e Fraser avranno un momento per loro stessi, in cui Fraser, dopo aver pomiciato con un coetaneo, capirà che ha sempre avuto interesse per Harper, e anche Harper capirà la stessa cosa, e i due, finalmente, si baceranno davanti ad un tramonto nei portici bolognesi.

Commenti sulla serie

 

La serie sembra affermare che siamo tutti bisessuali, compreso il giovane soldato poliamoroso, compresa la madre biologica di Fraser, militare in carriera e piuttosto “butch”, compresa la madre nigeriana di Harper, che si abbandona ad un amore lesbico con la co-madre di Fraser, e così via per quasi tutti i personaggi, forse ad esclusione del rigido padre di Harper, trumpista e conservatore.
Nella serie vengono sviluppati vari temi: la morte di giovani soldati in inutili missioni all’estero, ma anche il fatto che tutti pensino sempre che se una giovane persona scopre la sua identità anche grazie a persone simili con cui entra in contatto, sia “colpa” di queste ultime, che lo/la stanno portando sulla cattiva strada.

Non biologismo e amori gay al di là del corpo


Infine c’è un dato particolare, inedito nel precedente film di Guadagnino, ed è come se il regista volesse condividere un messaggio di non biologismo e amori che vanno al di là dei corpi. Per buona parte delle puntate, avvengono fatti che fanno pensare che Fraser sia gay e non bisessuale: lo bacia una ragazza ad una festa, ma lui non ne sembra felice, il maggiore gli propone un menage a trois con la fidanzata, ma lui scappa sconvolto, e bacia anche un ragazzo ad un concerto. Guadagnino fa dire anche al padre di Harper che Fraser è sicuramente gay e che è inutile che abbia tagliato i capelli per lui, perché soffrirà inutilmente per un amore impossibile (ma Harper non li aveva affatto tagliati per lui, anche se ovviamente il discorso paternalista è biologista, senza nessuna cattiva fede, ma lo è).  Di contro, Harper ogni volta che viene baciato da una ragazza, dice di non essere sicuro che gli sia piaciuto, e scappa via disinteressato.
Forse, Guadagnino vuole sia portare il tema della fluidità e della scoperta (non solo degli adolescenti, ma anche dei genitori), ma anche sottolineare il fatto che Fraser, ragazzo gay, “checca” e fashion victim, è in realtà innamorato di Harper.
C’è una scena molto bella, in cui tanti si saranno identificati, in cui Harper, in treno, in attesa del concerto di Bologna, si fascia e si fa una barba finta, così come insegnato da Harper in alcune puntate precedenti.
E’ molto bella anche la scena in cui Fraser aiuta Harper a liberarsi di quei lunghi capelli “per cui tutti LA amavano”, scena di grande liberazione e complicità.
Sicuramente, però, quel taglio di capelli porta poi alla perdita di questa popolarità, e ad un momento di crisi per il personaggio, di abbandono ed isolamento, che finirà solo nell’ultima puntata, con il bacio tra lui e Fraser.


Chi di noi non ha provato tutto questo?


La storia di Harper, quindi, qualsiasi sia la sua evoluzione, narra tante storie ftm gay, di chi, nell’adolescenza, ha “provato” ad essere la ragazzina più popolare della scuola, con lunghe chiome fascinose, e i quaterback interessati, ma poi ha scoperto di essere altro, di avere interesse per i ragazzi, ma per quelli “diversi”, e di non desiderarli in quanto donna.
Penso che, così come tanti uomini gay si siano identificati in “Chiamami col tuo nome”, stavolta è stato il turno di noi ftm gay, non binary, pansessuali e popolo “queer”.
Grazie, Guadagnino 😀

Ancora Giovanni Dall’Orto: rispondo punto per punto

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Ero qui a farmi il mio Lockdown in tranquillità, quando 13 di voi (si, 13!) mi hanno contattato per dirmi che Giovanni Dall’Orto “mi aveva risposto punto per punto” (immagino che dipenda dal fatto mi avevano inviato degli screenshot, di pagine pubbliche, in cui Giovanni scriveva alla pagina LGB Alliance Italy che in passato mi ha preso di mira con cyberbullismo),

In realtà ormai ho abbandonato la “critica al mondo gender critical”, che mi richiedeva troppe energie e troppi rischi, perché dal 2016, da quando il mondo LGBT ha fatto un “connubio” col mondo femminista, abbiamo dovuto assorbire tutte quelle logiche malate (minacce, outing, querele, diffide) e io ne sono riuscito a rimanere fuori, e sto benissimo così.
Per questo, vedete che non aggiorno spesso il blog, e quando lo faccio mi dedico ad altro (redpill, recensioni di serie e film), mi mancano le ultime puntate della “guerriglia” terf. Vedo giovani come Simone sempre sulla barricata, a commettere gli stessi errori che ho commesso io da giovane, 12 anni fa, ma che ho continuato a commettere fino a qualche anno fa. Non ne ho più voglia. Comunque, quando 13 persone, 13, mi mandano qualcosa da leggere, non posso resistere.

Come sapete (la cosa è documentata da vari album di foto, risalenti a due o tre anni fa) io e Giovanni siamo stati amici in passato, ed è difficile “odiare” una persona di cui sei stato amico.
Io sono molto combattuto nel fare una valutazione su di lui, e sulle sue posizioni, ora che non siamo più amici.

Alcuni di voi hanno anche aggiunto che “è rinsavito”, quindi provo a dire cosa mi è piaciuto del suo scritto, e cosa invece per nulla.

Punti a favore di Giovanni

che lo delineano come pensatore autonomo non “incanalato” in una delle due correnti (terf/queer)

1a) presa di distanza dagli attacchi pecorecci delle pagine Gender Critical

Nel suo articolo, Giovanni prende una posizione contro le pagine pecorecce che insultano le persone transgender con misgendering, attacchi ad personam, vignette “perculanti”, shit storming, body shaming. Siccome io (ma io tra i tanti) sono stato bersaglio di una di queste pagine, ringrazio Giovanni per la presa di posizione.
Ovviamente lui sottolinea che il farlo “danneggia la causa gender critical”, o è “una cattiveria gratuita contro persone che soffrono di disforia”, però è una presa di distanza importante, visto che spesso queste pagine lo hanno “usato”.

2a) Ognuno si definisca come vuole

Dall’Orto è sempre geniale e sagace nel suo linguaggio. Le pagine terf da cui si dissocia, quelle pecorecce di cui sopra, censurano la possibilità che un uomo transgender si definisca uomo, che il suo compagno si definisca gay e via dicendo.
Dall’Orto, invece, sostiene che “chiunque possa definirsi come vuole”, ma lo fa con una frase che ci fa sentire un po’ sfottuti “In fondo anche un uomo etero può definirsi gay se vuole”. Quindi, è come se chiarisse che lui continuerà a vedere le persone per la loro biologia, o, per quanto riguarda l’orientamento sessuale, per la biologia/le biologie da cui è attratto/a, ma si dissocia dalla “persecuzione” verso l’autodeterminazione delle persone non aderenti al biologismo, persecuzione ad opera di molte pagine terf.

3a) L’Orientamento dei e delle partner delle persone T

La parte più “tossica” del suo pensiero, tossica per persone come me, quella che ci ha fatto allontanare come amici, è il fatto che, considerando l’orientamento SOLO causato dal sesso biologico, lui delegittima l’orientamento dichiarato dai partner di persone transgender (che spesso, prima e dopo la persona trans, hanno avuto partner dello stesso GENERE della persona trans, non dello stesso SESSO).
Diversamente dai bulli delle varie pagine terf (che definiscono etero un uomo che sta con un uomo ftm, e una donna che sta con una donna mtf), Dall’Orto ipotizza che queste persone siano pansessuali/bisessuali, in quanto capaci “anche” di apprezzare i genitali “nativi” della persona trans, oppure appartenenti ad un ulteriore orientamento (quella parola che ci sta antipatica, skoliosessuali, che indica i e le translover?).
Credo sia un tentativo di poter trovare un compromesso tra chi lega l’orientamento sessuale al solo sesso (quindi il partner di un uomo ftm sarebbe etero), e chi lo lega al solo genere (quindi il partner di un ftm sarebbe gay).
L’unico dubbio è cosa renda, per Dall’Orto, bisessuale/pansessuale/queer il partner di un ftm, se l’ftm stesso (come se chi fosse attratto dalla compresenza di caratteristiche fisiche e psicologiche fosse bisessuale/pansessuale) o le esperienze precedenti (come se un uomo che ha avuto uomini xy fosse gay, ma solo per il fatto di aver avuto un solo uomo xx, e nessuna donna, fosse “reso bisessuale” dal rapporto con l’uomo xx). Questo è un punto interessante per collocare il pensiero di Giovanni in una delle sfumature tra Gender Critical e Queer.

4a) Non negazione dell’attrazione per persone con caratteristiche fisiche coerenti con il sesso che ci attrae

Dall’Orto ammette che un uomo gay può essere attratto da un ftm, per la sua mascolinità, e magari tirarsi indietro dopo, quando si viene a conoscenza della sua genitalità, quindi ammette che possa esserci un’attrazione fisica, ma non genitale. Poi, ahimè, si collega al movimento terf dicendo che la persona trans deve dichiararsi prima di arrivare al rapporto sessuale, però almeno non si accoda a chi dice che la persona trans emette raggi x che le persone non siano attratte a priori. Poi, onestamente, io ho sempre pensato che ogni persona può decidere di scartare un partner anche per motivi genitali. Se non fossero “perseguitati” i nostri partners, se non si pensasse di dover dire loro se sono gay, etero o altro, io non ce l’avrei con i e le gender critical: non vogliono venire a letto con una persona con genitali “dissonanti” col sesso da cui sono attratti/e? Legittimo. Fino a 10 minuti prima di saperlo erano attratti/e, e poi hanno cambiato idea? Benissimo: del resto il femminismo insegna che una donna possa dire di no a un partner eterosessuale anche un secondo prima, che possa cambiare idea, quindi perché dobbiamo negare a qualcuno di “cambiare idea su di noi”, se informato sulla nostra genitalità?
Siamo transgender, non siamo “incel”, abbiamo una tale offerta sessuale (spesso non gradita, perché insistente), che non dobbiamo di sicuro inseguire chi da noi non è attratto o chi si scopre non attratto dopo essere stato informato sui nostri genitali.

5a) Cosa si prova quando fai attivismo da 40 anni e le parole cambiano significato

Questa è una cosa di Giovanni che capisco molto. Quando ho iniziato a fare attivismo, il “non binarismo”, l’ “antibinarismo”, riguardava i ruoli di genere. E noi, seppur con identità definita, ci professavamo “antibinari”. Oggi sembra un crimine usare non binarismo ed antibinarismo per ruoli, espressioni di genere, orientamenti sessuali, perché “non binary è un’identità di genere”. Il problema è che quell’identità di genere, fino a pochi anni fa, si chiamava genderqueer, genderfluid, e non “non binary”, ma più che sulla semantica mi concentrerei sul fatto che “i giovani” hanno censurato i “meno giovani”. Allo stesso modo si deve usare “Afab” e non “uomo xx”, e usare le nuove accezioni di bisessuale e pansessuale, e potrei fare mille esempi.
Ora, se queste censure da parte dei “mocciosi” del Movimento (o del cybermovimento, in quanto molti di loro non hanno mai messo piede su un palco o in un’associazione LGBT) danno fastidio a chi ha la mia età, ed è nel Movimento da pochi anni, figuriamo quanto possa dare fastidio a chi, 40 anni fa, ha costruito il suo attivismo sul fatto che “Gay” descriva le persone attratte dallo stesso sesso. Ai tempi, gay, femminiello, donna trans, era tutta una sfumatura che aveva come denominatore comune l’essere “maschio” biologicamente. C’erano butch che prendevano ormoni, e comunque rimanevano nel movimento lesbico, e non in un movimento “di uomini”. Ai tempi le cose andavano così, e noi costruiamo le nostre teorie su quello che viviamo: se cambia troppo, ne usciamo disorientati.
Io, ad esempio, sono disorientato dal fatto che il Movimento LGBT stia incamerando altre identità (migranti etero, asperger etero, asessuali maschi eteroromantici, poliamorosi maschi eterosessuali, uomini eteroflessibili abituati a fare mansplaining, perché nella vita vivono da uomini etero, e così via), che spesso poi risultano molesti nei confronti di persone xx come me.
E se faccio questa fatica io ad adattarmi a tutte queste novità, figuriamoci lui che ci ha costruito tutta la sua trattazione.
Ecco, faccio molta fatica a capire i giovani reazionari, che in un mondo queer e fluido ci sono nati, ma da questo punto di vista io posso capire Giovanni.
Del resto, solo qualche giorno fa, mi hanno dato del “vecchio”, perché avevo impiegato alcuni minuti a riflettere sul sessismo dei vecchi film italiani di fine anni ’90, visti recentemente per caso, e se già a metà della trentina i liceali ti danno del vetusto, dicendo che ti preoccupi di “cose inutili e superate”, capisco come si possa sentire Giovanni. Poi, a mio parere, i liceai che archiviano l’omofobia interiorizzata di Platinette come “ma ha più di 50 anni, non conta niente” (ne ha 65, ma quando sei giovane, sopra i 50 “sono tutti vecchi”), non hanno capito che il potere economico è nelle mani di chi ha più di 50 anni. Ma devi entrare nel mondo del lavoro per saperlo.

Le cose che non ho apprezzato del suo articolo

1b) “Genere” usato come “sintesi” di Identità di genere e di Ruolo/Espressione di genere

Anche se Dall’Orto si dissocia dal movimento Gender Critical, abbraccia il fatto che per i Gender Critical “identità di genere” e “ruolo/espressione di genere” sia un tutt’uno, chiamato “genere”, e quindi il ragionamento incappa negli errori (errori dal punto di vista non gender critical, ovviamente) causati dall’unire questi due concetti.

2b) Se le persone sono attratte “da sesso”, un sacco di persone vengono cancellate

Ci sono partner di uomini ftm che prima e dopo hanno avuto storie con uomini biologicamente maschi, e nessuna donna transgender o biologicamente femmina. Solo uomini. Insomma, per queste persone il fil rouge dell’orientamento è l’identità di genere maschile, la mascolinità.
Queste persone possono davvero essere “congedate” come bisessuali? O come appassionate di trans”?
E’ più corretto definire “gay” il tizio velato, in cerca di “trasgressione”, che si aggira nei “localacci” in cerca di qualsiasi cosa abbia un pene? (prostitute trans, uomini biologicamente maschi gay, etc etc, travestite, drag queen e compagnia bella?).

3b) “Hanno iniziato loro”

Non so se ha senso il discorso su chi ha iniziato. E non so se ha senso giustificare il cyberbullismo che molte pagine gendercritical fanno su chi ha come “colpa” quella di essere trans (e quindi viene misgenderato e sfottuto), solo perché non si sa bene chi, nel mondo trans e queer, avrebbe “iniziato per primo“.
E alcune iniziative che descrive come innocue (le magliette che chiariscono che donna è un sinonimo di femmina) non lo sono, perché il retromessaggio è che un uomo ftm sarà sempre “una donna”, “una di loro”.

4b) Il rifiuto del confronto c’è stato davvero?

Nell’articolo Dall’Orto sostiene che gli attivisti trans rifiutino il confronto, prendendo ad esempio il recente caso dell’Università di Bologna, eppure io per anni ho dialogato con Libreria delle donne, Cristina Gramolini, Arcilesbica, Daniela Danna, e quindi io non credo che si possa dire che il dialogo non ci sia stato. Alcune posizioni sono inconciliabili, tutto qua. Poi, onestamente, se io non fossi costantemente disapprovato dalla maggior parte di femministe radicali, ti direi che, a parte la questione transgender, io condivido vari punti di vista radfem, come per esempio il fatto che le persone xx subiscono una discriminazione peggiore di tutti, in quanto sono cancellate, non contano nulla, quindi non contano neanche nulla i loro coming out (come lesbica, non binary, transgender o altro). Il dialogo con questo mondo, però, nel mio caso, si può dire un’esperienza conclusa.

 

5b) Buck Angel

Buck Angel ha sicuramente ragione quando dice che non vuole che sia cancellato il suo passato da persona biologicamente femmina che performava il ruolo sociale e pubblico di donna. Questa è una battaglia in generale del mondo trans, e in particolare,  ma non solo, di tutte quelle persone, come Buck, che hanno fatto coming out o preso consapevolezza tardi.
Il problema è che Buck Angel, pornoattore che fa i soldi sui feticisti che amano vedere una vagina penetrata in mezzo a tanti muscoli e peli, disprezza i percorsi non medicalizzati, delegittima le persone non medicalizzate, le prende in giro, vorrebbe che non si definissero transgender.

6b) Il divorzio LGB+T

Non sono affatto d’accordo sul fatto che il “divorzio” riguardi due blocchi, uno fatto da persone di identità di genere divergente da quelle attese dalla sua biologia (le persone transgender), e uno fatto da persone che hanno come tematica l’orientamento sessuale (le persone LGB non transgender). Esistono persone transgender (loro preferiscono “transessuali“, un termine che l’attivismo, composto in gran parte da persone in percorsi “med”, ha deprecato, in quanto termine psichiatrizzante e deciso da chi non era nè trans nè LGB) che, come Buck, prendono le distanze da chi è transgender in percorsi non canonici, spesso mostrando un enorme disprezzo: queste persone con chi andrebbero dopo il “divorzio”?
Di contro, ci sono tutte quelle persone LGB che con le persone T (nello stesso Movimento, perlomeno) ci vogliono stare, che le supportano, che le sostengono, che non si sentono minacciate dalla loro autodeterminazione, né da quella dei loro partners. Tante persone LGB si sentono offese dai movimenti LGB. E’ un fatto. Dall’Orto potrà anche considerarle tutte queer se vuole, possono essere persone che usano le parole in modo diverso da come le usava lui 40 anni fa, e persino da come le usavo io 10 anni fa, ma i significati vengono cambiati dall’utilizzo, come provano le varie revisioni dei dizionari storici, quindi probabilmente, un giorno, gay sarà chi è attratto da persone di genere maschile, semplicemente perché per la maggior parte delle persone sarà così. O forse no, forse le retroguardie avranno fatto “un buon lavoro” dal loro punto di vista, e si tornerà ai significati degli anni ’70.
Il punto è che questo avverrà anche senza l’intervento mio o di Dall’Orto. Noi possiamo solo esprimere il nostro pensiero, ma i tempi cambiano, i corsi e ricorsi della storia ci sono, indipendentemente da noi, che siamo solo gocce in un enorme oceano.

Se ho travisato il persiero di Dall’Orto in qualcuno di questi punti, sono disposto a rettificare.

La storia di Valentina Beoni, lesbica e detransitioner dal percorso ftm

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Ho conosciuto Valentina nel suo periodo in cui viveva come trans ftm (periodo durato dai 18 ai 27 anni).
Siamo poi rimasti in contatto, e ho pensato che fosse giusto dare la possibilità di narrarsi anche alle persone “destister”, e non solo in ambienti gender critical.
E’ giusto che le storie delle persone desister/detransitioner arrivino anche alle persone transgender e alle persone questioning, soprattutto quando, come nel caso di Valentina, si ha il massimo rispetto per i percorsi altrui.

Ciao Valentina, due parole per presentarti…

Valentina Beoni, classe 1992 (28 anni), vivo a Binasco (MI), ho studiato in conservatorio chitarra classica e pianoforte attualmente studio Biologia alla triennale e lavoro come receptionist a Milano. 

Come è iniziato il percorso che ti ha portato a definirti come ragazzo trans?

Ho iniziato a immaginarmi bambino molto presto, tanto che non ho un ricordo di me bambina felice di essere femmina. Sono la primogenita di quattro figli, gli altri tre sono tutti maschi e ho questo ricordo chiaro nella mente di quando ho aiutato mia madre a cambiare il pannolino di mio fratello: mi sono chiesta cosa avesse tra le gambe e perché io non lo avevo.
L’idea di essere uomo trans non mi era mai passata per la testa, credevo semplicemente di essere lesbica ma al tempo stesso pensavo che “lesbica” significasse “donna che vuole essere uomo”. Quando è uscita la notizia di Thomas Beatie (l’uomo incinto) ho scoperto della possibilità di intraprendere la transizione e lì non ci ho pensato due volte, mi sono subito rivolta prima a mia madre (facendo un rapido coming out) e poi all’associazione di persone transgender.
Ricordo che sono entrata dicendo “salve, io voglio diventare un uomo!” e già quella frase li aveva lasciati un po’ perplessi.

Quando ti definivi uomo trans, per te era una questione identitaria (essere di identità di genere maschile) o era più una questione fisica (il desiderio di avere le sembianze fisiche di un uomo biologicamente maschio)?

Per me essere uomo era una questione meramente fisica: avere la barba, la voce grossa e mi piaceva l’idea di avere forme meno tondeggianti, inoltre non sopportavo il seno e il ciclo mestruale. Il fatto di non avere il pene mi faceva sentire molto in difetto e inadeguato come uomo, anche perché la mia idea non era semplicemente essere un uomo a livello di genere, ma volevo essere un maschio a tutti gli effetti (cosa che poi ho realizzato non possibile).

Il fulcro della tua detransizione è l’interruzione delle modifiche fisiche o il riappropriarsi della definizione di donna e lesbica? (lo chiedo perché alcune persone, invece,  interrompono le modifiche corporee ma continuano a definirsi transgender o non binary).

Bella domanda. Per quanto riguarda il fulcro della scelta in realtà è stato proprio il riappropriarsi del mio essere donna, donna lesbica e donna lesbica di genere non conforme. In verità i cambiamenti fisici derivati dagli ormoni non mi hanno mai dato davvero fastidio, ciò che mi faceva soffrire era il non essere autentica e la ricerca costante di un essere maschio a tutti gli effetti. Quando ho compreso la questione molto scontata e basilare che non avrei potuto davvero cambiare sesso ho deciso di interrompere le cure e onestamente il fatto di non poter tornare perfettamente indietro non mi spaventa, poiché avere un aspetto maschile non mi turba affatto. Il punto è che mi sento più a mio agio nella mia identità di donna di genere non conforme perché credo che le premesse iniziali che mi hanno portata a intraprendere la transizione fossero sbagliate in partenza: io volevo cambiare sesso al cento per cento, cosa che non è possibile. Mi avevano anche detto all’associazione di Milano che la transizione era un percorso per trovare serenità e sentirsi più a proprio agio e non per diventare qualcos’altro da ciò che si è… non li ho ascoltati.

Come ti relazioni al periodo che hai vissuto come uomo trans? Ti percepisci come una donna lesbica che lo è sempre stata, e che “si credeva” un uomo trans, oppure come una donna lesbica che “è stata” un uomo trans per una fase della sua vita?

E’ difficile dare una risposta a questa domanda. Premetto che pur non essendo un’esperta del campo né un medico ho una mia personale idea sulla transizione e sulla disforia di genere. Non credo esistano “veri transessuali” e falsi transessuali. Semplicemente nella vita si può cambiare e l’importante è il rispetto della libertà di autodeterminazione dell’individuo. Ci sono persone che attraversano un periodo di sperimentazione da omosessuali e poi iniziano a sperimentarsi come eterosessuali. Non è un “ritorno” all’eterosessualità, ma un cambiamento che può essere scatenato da moltissimi fattori. Ciò non significa che bisogna aderire a movimenti estremisti religiosi e andare in giro a dire che l’omosessualità è peccato e che si può “guarire”. Lo stesso vale per il transessualismo. Al di là della disforia di genere che è considerata una condizione medica, una persona è semplicemente libera di cambiare il proprio corpo, tutto qui. Ed è anche libera di ri-cambiarlo e “tornare” a identificarsi col proprio sesso biologico, senza necessariamente dare una spiegazione o imporre agli altri la propria esperienza. In conclusione per quanto riguarda la mia personale esperienza potrebbe essere stato un errore di introspezione, ma non saprò mai con certezza come mai mi sentissi bambino in età così precoce. 

Se non avessi fatto un percorso che ti ha fatto sperimentare come “Valentino”, avresti potuto “riappacificarti” con Valentina e capire che il percorso T non era la tua strada?

La transizione per me non è stata il male assoluto. Lo sarebbe stato se avessi fatto l’operazione, ma fortunatamente mi sono fermata prima (grazie a uno psichiatra specialista molto bravo che per anni mi ha “impedito” di fare l’operazione). Avere un aspetto mascolino non mi infastidisce minimamente, tanto che la barba mi è indifferente (la toglierò per motivi puramente sociali, per essere riconosciuta come donna, ma a dire il vero non mi dà fastidio). E’ stato un percorso che mi è servito per capirmi meglio, sia a livello sessuale che a livello di personalità. Se oggi mi sono ritrovata e mi trovo bene come donna lesbica è anche perché ho intrapreso questo percorso.

Rimproveri qualcosa a chi ti ha accompagnato in questo percorso? E, se sì, cosa?

Per quanto riguarda il mio caso non attribuisco colpe a nessuno, certamente avrebbe dovuto essere un percorso un po’ più lungo e strutturato, dato che ho iniziato gli ormoni dopo pochissime sedute, se non ricordo male 2 massimo 3. Credo che l’errore maggiore sia la mancanza in generale di persone davvero specializzate in transessualità, inoltre credo che gli specialisti dovrebbero prendere in esame i casi di detransizione per comprendere le motivazioni alla base dell’intenzione di fare la transizione, che in alcuni casi sono omofobia interiorizzata o nel caso ftm anche misoginia interiorizzata (gran parte dei casi di desisters hanno iniziato la transizione spinti da omofobia/misoginia). Inoltre dovrebbero informare sin da subito i soggetti interessati degli effetti della terapia ormonale e della eventualità che il percorso non sia reversibile (nel mio caso ad esempio mi era stato detto che il percorso era reversibile).

Essere desister comporta per forza l’essere gender critical?

Non credo ci sia alcun legame tra essere desister ed essere gender critical. Poi sottolineo che sono vicina al mondo gender critical ma non a tutto, mantengo le mie idee, mi faccio avvicinare soltanto da chi rispetta il percorso delle persone trans e specifico sempre che non sono contraria alla transizione per le persone adulte.

Cosa pensi dei/delle desister che pensano che tutte le persone transgender sono in realtà omosessuali vittime di transfobia o misoginia interiorizzata?

Che non c’è molta differenza tra loro e gli estremisti religiosi che da omosessuali sono “tornati” etero e vanno in giro a dire che l’amore puro è solo eterosessuale.

Secondo te, come ci si dovrebbe comportare con i minori gender-questioning?

Credo che lasciare un bambino o bambina libero/a di indossare gli abiti che preferisce, giocare ai giochi che preferisce ecc sia una cosa positiva a prescindere dalla disforia di genere. Per quanto riguarda il nome diventa un attimo un po’ più complicato, ma credo che si possa trovare una soluzione, come un nome neutro, o il diminutivo (quando ho iniziato la transizione mi han sempre chiamato Vale, mai Valentino o Valentina).

Le ferite aperte del separatismo lesbico sulla condizione ftm non med

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Il coming out di Elliot Page come transgender ha causato reazioni scomposte all’interno di Arcilesbica Nazionale, che ha iniziato a postare a raffica una satira che prendeva in giro l’autodeterminazione dell’attore, che in passato aveva fatto coming out come donna lesbica.

Dopo le tante critiche, molte delle quali pacate (ma passano sempre in sordina, se sono pacate), Cristina Gramolini fa una lunga lettera, che tocca tanti punti (persone trans nello sport, transizioni minorili), parzialmente fuoritema con la reazione che hanno avuto in relazione al coming out di Elliot page, e l’unico punto pertinente è questo:

Le persone transgender vogliono il cambio anagrafico di sesso senza operarsi e anche senza ormoni né diagnosi, come E. Page a quanto pare. Figuriamoci se gli uomini considerano come uno di loro una donna che si dichiara uomo. E le donne? Ma dicono di sì perché bisogna essere inclusivi a costo di essere ipocriti, presumere la sofferenza e fingere di non vedere quello che vediamo!

“Non sono io che non ti accetto, sono loro che rideranno di te…”

In pratica, Cristina Gramolini attacca Elliot Page perché si è presentato al mondo come transgender non binario, senza manifestare, almeno al momento, il desiderio di un intervento ai genitali, l’assunzione di testosterone, e senza una “diagnosi” di uno psichiatra cis che gli dia il permesso di definirsi al maschile.
Il commento di Cristina ricorda tante reazioni ai coming out (anche omosessuali) avute da genitori conservatori: “Non sono io che non ti accetto ma…figuriamoci se gli altri ti accetteranno“.
Cristina, con un uso abile della parole, quindi sposta il problema negli “altri”, nel mondo eterosessuale, o in particolare nel mondo maschile, decidendo, senza aver mai vissuto come uomo transgender, che gli uomini non considereranno uno di loro un ragazzo transgender (ovviamente preferisce usare parole offensive, in salsa gender-critical, come “donna che si dichiara uomo“).
Cristina, però, non condanna questi fantomatici uomini biologicamente maschi che non accetteranno come uomo Elliot Page o gli altri ragazzi transgender non medicalizzati: anzi invita a smettere di “fingere di non vedere quello che vediamo“, e di “essere ipocriti“.
In poche parole, Cristina consiglia al presunto uomo eterosessuale, biologicamente maschio, di vedere in Elliot Page un bel corpo femminile, e di non “fingere di vedere altro”. O mi sbaglio?
La “preoccupazione” che quell’ftm non sarà mai incluso ed accettato non è una reale preoccupazione, ma un augurio: dobbiamo smettere di rispettare le persone che non hanno un buon “passing”, dobbiamo basarci su “quello che vediamo, e in base a quello, declinare nomi anagrafici e genere grammaticale.

Non “partono da sè” ma pontificano su vissuti che non conoscono

Se molti uomini ftm hanno vissuto sulla loro pelle l’esperienza del presentarsi al mondo come donna lesbica (io no, ma Elliot senz’altro), si può dire con certezza che Cristina e le altre attiviste di Arcilesbica non hanno un passato da uomo ftm, e le considerazioni su come verrebbe accolto un coming out sono solo supposizioni.
Potrei dimostrarle, facendo qualcosa che è sempre stato amato nel femminismo, ovvero il “partire da sé“, che in molti casi non ho avuto problemi con uomini etero a cui mi ero presentato, o ero stato presentato da altri, come ragazzo/uomo (a volte spiegando che ero transgender, a volte senza neanche spiegarlo).
Non è così vero che le persone eterosessuali (sia uomini che donne, o in particolare gli uomini) o le persone di sesso maschile (sia etero che gay/bi, o in particolare gli etero) siano maggiormente predisposte ad ignorare i nostri coming out.
Potrei fare tanti esempi di uomini eterosessuali, lontanissimi dall’attivismo, che non hanno avuto problemi con me, come potrei fare esempi di donne etero, uomini gay/bi, e donne lesbiche/bi lontane dall’attivismo.

A volte un ftm senza passing decide di non fare coming out con qualcuno

Questo non vuole essere un tentativo di “non voler vedere il Re Nudo”, perché è vero che un coming out trans, non supportato dalla narrazione di imminenti cambiamenti estetici, o dal passing, tende ad essere ignorato.
Alla luce di questo, talvolta, la persona transgender non med preferisce non fare coming out, che non significa “presentarsi come donna” o “presentarsi col proprio nome anagrafico”, ma rimanere in un campo neutro, senza troppe indagini o spiegazioni, e senza troppe correzioni all’interlocutore ignaro della propria condizione.
Ad esempio, se mi rubassero lo scooter, e dovessi andare a fare la denuncia dai Carabinieri, preferirei semplicemente dare loro i miei documenti non rettificati, spiegare i dettagli del furto, senza entrare nel merito del mio essere transgender (a meno che l’argomento non uscisse fuori), in un ambiente ostile e conservatore, visto che non sarebbe pertinente al motivo per cui sono lì (e visto che lo scooter non sarebbe stato rubato per “transfobia”).
Non è infatti vero che le persone transgender non med e non binary sono degli “isterici” che scattano ogni volta che vengono misgenderate da estranei, ignari della loro condizione. Quando il passing “non funziona” e si viene percepiti come appartenenti al proprio sesso biologico, semplicemente si decide se chiarire o meno, in base a quanto l’interlocutore sia potenzialmente reazionario e in base alla profondità/continuità del rapporto sociale che dobbiamo avere con quella persona. A volte, esattamente come succede a persone gay o lesbiche, si decide di soprassedere, non correggere e non spiegare, perché non ne vale la pena e perché, non tutelati da dei dati anagrafici a supporto della nostra identità, sarebbe un coming out perdente. Molto ho scritto sul fatto che gli ftm, medicalizzati e non, non esistono nell’immaginario collettivo, e che questo ci porta a fare coming out in contesti in cui ne valga la pena (la famiglia d’origine, i e le potenziali partner, gli amici, i contatti di lavoro più stretti o continuativi) e soprassedere in altri casi (la panettiera, il carabiniere).
Gli equilibri della vita di una persona transgender non med (o di una persona non binary di biologia xx) dovrebbero essere affari delle persone T, che quelle condizioni le vivono, e non di chi pontifica da fuori, senza aver capito quelle condizioni esistenziali, senza averne rispetto, senza averle vissute.

La finta “preferenza” per le persone ftm in percorsi canonici e medicalizzati…

Anche se nei casi Ciro Migliore ed Elliot Page, i misgendering ed i deadnaming sono stati giustificati con Non sono veramente transessuali, non prendono ormoni”, spesso, l’associazionismo RadFem, Arci-lesbico, della Libreria delle Donne e di realtà simili, attacca anche i percorsi canonici, usando l’escamotage di “fare informazione sui danni del percorso ormonale“, attaccando l’uso del binder (canotta per rendere meno visibile il petto femminile), degli ormoni  e degli interventi.
Infatti, nonostante l’attivismo gender critical attacchi principalmente i minori, sui maggiorenni viene detto “Anche loro stanno rovinando il loro corpo, amputando organi sani, rendendo sterile il loro corpo, maturando una dipendenza a vita dagli ormoni…ma siccome sono maggiorenni, consenzienti e vaccinati non li costringeremo a smettere.
Alla luce di questo, come si fa ad essere contemporaneamente ostili al percorso med, e anche a quello non med?
La domanda sorge spontanea: quindi, una persona transgender, per essere considerata degna da loro, che tipo di percorso dovrebbe intraprendere?
Se quello “non med” è ridicolo, e i maschi ci ridono dietro, se quello “med” distrugge il nostro corpo, allora quale alternativa rimane? Vivere come lesbiche (se ci piacciono le donne) o come femministe radicali etero (se ci piacciono gli uomini)?
Anche dei coming out gay prima si rideva. E dei coming out lesbici, spesso, si ride ancora (o quantomeno vengono ignorati, perché la persona xx non vale nulla in società, e quindi non vale nulla neanche il suo coming out).
Una donna lesbica, però, non accetterebbe mai che le si consigliasse di vivere da donna eterosessuale perché il mondo non è pronto ad accoglierla senza farsi una risata o senza ignorarla.
Perché questo consiglio viene dato a noi?
Non entro nel merito dei minori T (anche se non capisco perché arrivino a dire che “non esistono” quando semmai ha senso chiedersi come andrebbero accompagnati nel loro periodo questioning), ma non si può contemporaneamente lottare contro la loro medicalizzazione, ma anche contro la possibilità che siano accettati con l’identità che hanno scelto, senza medicalizzazione. Anche qui, sembra che l’unica strada lecita e legittima sia quella lesbica.

Conclusioni

Io credo che il movimento lesbico stia vivendo un problema: il fatto che molte giovani donne preferirebbero qualsiasi termine a “lesbica”, per definirsi, come giustamente denuncia Cristina Gramolini. Il problema, però, non riguarda quelle persone che, facendo un lavoro di introspezione, si rendono conto di far parte più della T che della L, e che il loro tema sia più l’identità di genere che il lesbismo, perché si tratta di poche persone, e sovradeterminarle, annullare il loro coming out, non è utile, ma solo offensivo.
Il problema, al limite, riguarda tutte quelle donne che di fatto sono lesbiche (donne attratte esclusivamente da donne) ma che, per vari motivi, che andrebbero ascoltati senza giudizio, non desiderano definirsi lesbica. Anche visti i grandi numeri di queste donne, forse è su queste che si dovrebbe puntare, e non su ftm e non binary, che, dichiarandosi tali, si espongono a derisioni, cancellazione del proprio coming out, discriminazioni pesanti (ebbene sì: anche più pesanti di quelle che subisce una lesbica).
Non voglio fare mansplaining (a parte il fatto che è ridicono che si dica che una persona nata xx, che ancora da molti viene scambiato per donna, e che non ha mai avuto “il privilegio maschile”, sia accusata di mansplaining…al massimo, non so, di transplaining?) ma io credo che siano quelle (le donne lesbiche “velate” o quelle che hanno scelto altri termini al posto di lesbica, e non hanno neanche uno spazio per spiegare il perché) le donne con cui il movimento lesbico dovrebbe dialogare.
Se ho fatto questa riflessione è semplicemente perché questo problema, sicuramente reale (il fatto che poche donne scelgono la parola “lesbica” per definirsi), ha creato poi un problema alla mia comunità (quella transgender e non binary), con continui attacchi che noi persone transgender di origine biologica femminile dobbiamo subire, con insinuazione del fatto che saremmo semplicemente “lesbiche che non si accettano“.

 


Le diverse risposte “filosofiche” all’essere non conforme alle aspettative legate ai corpi

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Ho una grande passione per la letteratura degli universi paralleli e spesso, quando poi queste opere diventano film o serie Tv, gli attori e le attrici sono davvero molto brav* a recitare le loro diverse versioni di se stessi. Anni fa, nella serie OA, un personaggio era ftm in un universo, ragazzina batterista nell’altro.
Questa narrazione è offensiva? Io non la vedo così.
Non mi interessa più, a quasi 37 anni, e dopo 12 anni di attivismo, gruppi di confronto di persona, la presidenza del milk, e centinaia di lettere di lettori ricevute, definire cosa una persona “è”. Il verbo essere è inappropriato e compete solo alla persona stessa.
E non deve diventare neanche un tabù la parola “scelta” se riguarda non quello che si è, ma come si sceglie di vivere.
E’ un fatto che persone molto simili tra loro trovano la pace “incorniciando” il loro essere in filosofie di vita totalmente diverse.

Per me non è un tabù dire che io ed una persona che ha intrapreso il percorso di femminista radfem potremmo non essere così diversi, semplicemente lei ha messo al centro della sua vita la biologia, e ha aderito ad una filosofia per cui essere donna significa “essere biologicamente femmina” e quindi lei non ha molte alternative per definirsi: è donna IN QUANTO femmina, e quindi la sua differenza è la non conformità alle aspettative, e su quella lei politicamente lotta (affinché una persona xx possa divergere dalle aspettative sociali quanto e come le viene spontaneo).

 

C’è chi invece trova risposte nella transgenerità (come me) o nel definirsi non binary (che è sempre sotto al cappello della transgenerità), chi trova risposte nella modifica del corpo (percorsi med), chi nella non modifica (ma si dichiara comunque col nome scelto e come persona T). Poi c’è anche chi decide di vivere da velato, e talvolta annulla anche la visibilità estetica e comportamentale della sua non conformità (quindi magari esalta ancora di più lo stereotipo, molto di più di quanto farebbe una donna etero “senza niente da nascondere”).
Ecco, a me piace pensare che queste persone, di base, non siano così diverse. Sono persone con lo stesso corpo, magari anche con simile sentire, ma che hanno trovato risposte diverse al loro malessere, a seconda delle loro esperienze di vita, del contesto sociale, degli incontri che hanno fatto, di ciò che hanno letto o visto.
Per esprimerlo con un paradosso fantascientifico, magari esiste un Nathan medicalizzato, un altro che preferisce dirsi “non binary” e preferisce il neutro “Nath”, un altro Nathan che vive da Carmela “virago” e viene continuamente scambiato per lesbica, o un altro ancora che vive come Carmela super femminile e “fuori da ogni sospetto”, o ancora adesso una Carmela che fa attivismo militante per fasi che ogni Carmela possa essere non conforme alle attese continuando a dirsi fieramente Carmela e donna.
Io non voglio avere la presunzione di dire che io sono il “Nathan vero” e loro dei “Nathan falsi, che non hanno scoperto il loro “vero io”. Mi chiederei solo se queste persone hanno trovato pace, intraprendendo il percorso che hanno scelto (il percorso lo scegli, si), anche perché non esiste un percorso che “oggettivamente” ti fa stare meglio. Il Nathan velato che vive da donna etero truccata, ad esempio, magari ha realizzato il suo desiderio di genitorialità, e subisce molta meno pressione sociale (quindi da questo punto di vista “sta meglio”) ma poi magari ha una bufera interiore dentro.
Ogni strada comporta una possibilità di serenità e una possibilità di sofferenza.
Negli anni ho avuto la possibilità di confrontarmi con molte femministe Gender Critical, ed a volte avevano storie molto simili alla mia, ma la cornice filosofica al loro percorso era il rivendicare la loro biologia, e pretendere che ogni “biologia” possa avere un’espressione di genere libera. Davvero, a me questa battaglia non disturba, perché è anche parte della mia battaglia (io penso che le persone T debbano vivere liberamente la loro identità di genere MA ANCHE che tutte le persone debbano vivere liberamente la loro espressione di genere), e, come già detto, l’unico problema è il giudizio degli altrui percorsi.
Se ci fosse una persona in un percorso che ha un passato e delle sfumature identiche al mio, ma che poi si è evoluto in altro, non oserei mai dire “cosa quella persona “蔓. A me non interessa decidere l’essere, soprattuto se riguarda altre persone. Allo stesso modo, come io non “deciderei mai” che quella persona è “un uomo t mancato”, non vorrei mai che lei decidesse che io sono “una radfem mancata”.
Vorrei che questa persona mi dicesse che “sta bene” in una filosofia di vita in cui “l’identità di genere non esiste” e che ha trovato pace vivendo come donna non conforme, ma non vorrei che questa convinzione poi invalidasse i percorsi di chi invece nella narrazione transgender hanno trovato risposte e pace.
La cosa particolare di tutta questa questione di contrasti tra diversi, è che poi, visti dai cishet (e anche dallE cishet, a volte) siamo più o meno cose simili, persone di biologia femminili, non conformi e quindi sciatte, stupide, inaffidabili, pericolose. Ma è anche vero che, nelle lotte teologiche in cui sembra più importante “provare scientificamente” l’esistenza dell’identità di genere, al posto di concentrarsi su cosa fa stare bene le persone, non c’è tempo per confrontarsi su ciò che ci unisce, perché è più facile “perculare” persone che hanno trovato risposte e serenità in un’altra narrazione, che riflettere su quanto in comune si potrebbe avere con quelle persone.

Revenge Porn: la più becera manifestazione dell’eterosessismo

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Nell’ultimo decennio il fenomeno che vedeva le donne vittime dei loro ex fidanzati/amanti/scopamici, i quali divulgavano delle loro foto di intimità, ha avuto un nome: Revenge Porn

Si tratta di uomini che, dopo la fine della relazione, iniziano a divulgare delle foto sexy che la ex compagna aveva fatto per loro, dei video di momenti di intimità, per vendetta e nella speranza che la ex compagna vada incontro a pubblico dileggio, mortificazione, e ripercussioni come il licenziamento o la distruzione della sua reputazione.
A volte, più che di “vendetta vera e propria” si tratta di “baldi maschi etero” che diffondono le foto delle loro prodezze sessuali, con ragazze con cui non hanno una relazione seria, in chat con amici, senza la precisa intenzione che queste immagini diventino virali, cosa che poi, inevitabilmente, succede: sia chiaro che questo tipo di uomo non è meno colpevole.

Premettendo che il revenge porn è un grave crimine, che ha portato alcune donne al suicidio (come nel caso di Tiziana Cantone), cerchiamo di capire le radici di questo orribile comportamento.
Non c’è nulla di più binario, eterosessista, maschilista e misogino del revenge porn, ecco perché…

Scenario Eteronormativo

Anche se esiste anche un revenge porn che coinvolge persone omosessuali (ma spesso l’intento è ricattatorio, e sfrutta l’omofobia sociale per far sì che l’uomo, gay velato, faccia di tutto per cercare di far sì che quel materiale non venga divulgato), principalmente il fenomeno riguarda uomini etero che divulgano foto sexy o di atti sessuali delle loro ex compagne.
Si tratta, guardacaso, di fotografie o video a carattere “pornografico” che mettono in scena momenti eccitanti dal punto di vista dell’uomo eterosessuale, e che lo fanno apparire figo e “maschio alfa” agli occhi degli eventuali amici eterosessuali “del calcetto“. Molto chiaro appare il fatto che c’è una “dinamica di branco“, in cui c’è un gruppo di maschi, tutti eterosessuali o presunti tali, che si ritrova in momenti di “soli uomini”, legati ad hobby maschili (essere tifoso, praticare sport di squadra tra maschi), e poi il gruppo delle donne, amiche tra loro, magari proprio le mogli e le fidanzate di quel gruppo di maschi.
Anche questo secondo gruppo fa parte del problema, e la causa è sempre l’eterosessismo: le “mogli moraliste“, che, vedendo le foto “di sfuggita” nel cellulare del marito, al posto di condannarlo, per la condivisione di materiale che umilia la donna, attacca l’altra donna, considerandola immorale e incapace di essere una professionista seria (nell’insegnamento o in altri settori).

L’uomo che fa sesso è un figo, la donna è una “donnaccia”

Sebbene la donna femminile disinibita sia il sogno erotico dell’uomo etero, socialmente, lo stesso uomo etero la disapprova. Ed è per questo che, se un uomo etero “beccato” in video o in foto con una donna non verrebbe mai licenziato, questo capita invece alla donna eterosessuale, e in un certo senso potrebbe capitare ad un ragazzo gay, in quanto è il “concedersi ad un uomo” che rende sporchi, e da marginalizzare nella professione. E’ quindi il ruolo ricettivo a rendere disdicevole una persona coinvolta in un rapporto sessuale, sempre a causa della visione del mondo binaria che considera “inferiore” tutto ciò che è accogliente e femminile, visto come “conquistato”, “concesso”, “predato”, e quindi “che deve provare vergogna“.

“Se l’è cercata”

Tutti fanno sesso, si fa ma non si dice, “persino” le donne!
Però se ne rimane traccia visiva, allora sotto sotto la donna ha “meritato” la divulgazione delle sue foto intime.
Il sentimento del “Se c’è cercata” è sempre presente, persino nelle donne lettrici di queste notizie. Persino quando il fatto di cronaca si conclude col suicidio della donna. “Doveva farlo, ma non lasciare traccia“, la colpa non è di lui ad aver divulgato, ma di lei ad aver partecipato a quelle foto o video, o averle fatte per “sedurre” il suo uomo.
Il “se l’è cercata” è qualcosa che si sente anche nei gruppi di Incel quando esce fuori una notizia di uno stupro: la donna viene vista come colpevole. Si pensa subito che in fondo, se era lì, era “perché voleva che accadesse”. E non si deve andare in questi gruppi organizzati per trovare questi pensieri violenti: può capitare di sentirli dall’uomo medio al bar, e di sentire donne che gli diano ragione.

Conclusioni

Sicuramente devono esistere, e devono essere perfezionate, le leggi che puniscono il revenge porn, sia l’uomo che divulga le foto, che tutti coloro che, anche solo per divertimento, contribuiscono alla diffusione, diffamano la vittima, contribuiscono allo stigma. Come sapete, però, non sono giurista, e rifuggo la burocrazia, quindi su questo non riuscirei a dare un contributo.
Il mio ruolo di attivista è sempre stato indirizzato a cambiare la società, cambiando il linguaggio, ad esempio, perché la tutela legale deve sempre camminare al passo del cambio di mentalità, e l’una cosa può spingere l’altra, e non di poco (la Legge Cirinnà ha fatto entrare le coppie omosessuali dichiarate e visibili nell’immaginario collettivo, facendo fare un grande salto in avanti su questo tema, così come la Legge Zan, o una legge che facesse cambiare i documenti alle persone transgender non med e non binary farebbe conoscere queste realtà, che si “naturalizzerebbero” in società).
La cosa più importante, però, è cambiare la cultura che condanna la sessualità femminile, il binarismo di genere che vede l’uomo eterosessuale che fa sesso come un figo e tutti gli altri come potenziali oggetti di dileggio e di stigma.
Può una buona legge cambiare la mentalità? Forse, in parte. Ma non basta

 

Quando definirsi una persona “Non binary”?

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Il termine non binary, che inizia a diffondersi in ambiente anglosassone dal 2013, anche se già noto da tempo agli “addetti ai lavori”, si diffonde in Italia a partire dalla primavera del 2019, diventando punto di riferimento identitario per tante persone che, per vari motivi, non si sentivano inclusi da parole come “transessuale” o “trans”.
Tante persone, ogni giorno, mi scrivono per capire se possono rientrare in questo termine: facciamo un po’ di chiarezza, pubblicando alcune delle domande più significative che mi sono arrivate via mail.

Un tempo mi definivo genderqueer/genderfluid/agender. PossoDevo definirmi “Non Binary”?

Negli anni ’90 iniziano a diffondersi dei termini per descrivere i percorsi transgender non canonici. Termini come Agender, Bigender, GenderQueer, Genderfluid, GenderBender, iniziano ad essere usati da persone che prendono le distanze dalla narrativa “transessuale” dell’essere “nati nel corpo sbagliato”. Per queste persone, i corpi non sono sbagliati, ma è la società ad essere “sbagliata”, e il cambiamento fisico è uno strumento della persona per rendere la propria immagine coerente con l’immagine interiore di sé, e non uno strumento per “adeguarsi” alle richieste sociali.
Allo stesso modo, per queste persone, non vi è un’adesione alle identità di genere concepite in modo binario e stereotipato, ma queste persone si definiscono appartenenti ad “altre” identità di genere, ad entrambe, a nessuna, o ad una terza, oppure, in altri casi, si considerano di identità di genere maschile, oppure femminile, ma queste identità vengono reinterpretate in chiave non binaria, ripensate, decostruite, depurate dalla tossicità del binarismo sociale.
Da qualche anno queste definizioni non sono andate “in soffitta”, ma sono diventate declinazioni di un grande termine ombrello: Non Binary.
Quindi, chi prima si definiva Genderqueer o Genderfluid, possono sostituirlo con “Non Binary”, o usare non binary associato ai termini che più preferiscono a cui si sono affezionati in passato.

Non desidero cambiare il mio corpo, neanche tramite ormoni: posso definirmi “Non Binary”?

E’ recente il coming out dell’attore Elliot Page, che, oltre a definirsi “non binary”, e a chiedere di essere considerato actor e non actress, chiarisce di non avere, al momento, bisogno o desiderio di apportare cambiamenti medicalizzati al corpo.
Chi segue questo blog da un po’ sa come il concetto di “non binarietà” può essere associato a tante cose: ai ruoli e alle espressioni di genere, agli orientamenti sessuali/romantici, ai tipi di percorso transgender che si desidera intraprendere, oltre che all’identità di genere, quindi il concetto di “binarismo” può essere associato su come, quanto e in che modo, e anche “se” si desidera un cambiamento fisico col corpo. C’è quindi un atto politico non binario in chi afferma che alla sua identità di genere non debba corrispondere necessariamente un determinato corpo.
Quindi si, le persone transgender “non medicalizzate” possono far parte dell’ombrello non binary.

Per stare bene, ho bisogno dei pronomi maschili (o dei pronomi femminili), quindi non posso essere non binary?

E’ uno stereotipo quello che vuole che tutte le persone non binarie chiedano il “they/them” o il loro, o che si usino asterischi, o lo schwa (ə). Molte persone non binary chiedono pronomi maschili, o femminili, e magari accettano anche il “they”, ma come preferenza secondaria.
Quindi, si, anche chi preferisce pronomi femminili, oppure maschili, anche quelle persone per cui “non vanno bene entrambi”, e quelle persone che non preferiscono il neutro, possono definirsi “non binary”, se, a prescindere da questioni grammaticali, appartengono ad una delle identità non binarie.

Per raggiungere la mia serenità ho fatto dei cambiamenti medicalizzati. Posso dirmi non binary?

Alcune persone hanno fatto dei cambiamenti medicalizzati per avere un’immagine di sé che li facesse stare bene. In loro non c’era un’intenzione di assecondare la società, o di assecondare la retorica dell’essere “nati nel corpo sbagliato”. Semplicemente, hanno modificato il proprio aspetto in modo che corrispondesse alla propria immagine di sé, e, anche grazie a questo, possono condurre una migliore battaglia in difesa delle identità e delle espressioni non binarie. Quindi, si, una persona che ha medicalizzato il suo corpo può definirsi non binary.

Ho il passing. Posso definirmi non binary?

Certo! Anche chi, tramite medicalizzazione, o anche tramite solo alcune caratteristiche fisiche innate, hanno il cosiddetto “buon passing”, possono dirsi non binary se combattono la retorica del passing obbligatorio per avere cittadinanza come persona transgender, o per avere il rispetto dei propri pronomi.

Non sono androgin*. Posso definirmi non binary?

Non binary non è legato ad un’androginia fisica, che spesso è dovuta semplicemente alla fortuna o alla casualità che ha fatto sì che madre natura ci abbia dato o meno l’androginia. Ci sono persone che hanno caratteristiche fisiche che l* caratterizzano come nati in quel determinato sesso biologico, ma questo non dice nulla della loro identità. Avere un corpo aderente a canoni anatomici “binari” non dà alcun dato sull’identità e l’espressione di genere della persona quindi, sì, una persona non androgina può benissimo essere “non binary”.

Conclusioni

Quindi….siamo tutt* non binary? Non di certo. Di sicuro non lo è chi non desidera che sia usata su di lui/lei questa definizione, chi ne prende le distanze, chi sotto sotto pensa che le persone “non binary” non siano “realmente” transgender e chi è felice che persone così “smettano” di usare il prefisso “trans” per definirsi (i transmedicalisti).
Eppure, è importante ricorda che una persona non binary, se lo vuole, può usare, per definirsi, anche “transgender”, e che la rivendicazione come persona “non binary” non deve essere una presa di distanza dalla comunità transgender, solo perché una parte di esse vuole escludere le persone più fluide e antibinarie.
Non binary si, quindi, ma con orgoglio!

 

Perché “liberale”è diventato sinonimo di “conservatore e reazionario”?

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John Stuart Mill, La servitù delle donne, 1869

Due righe sul liberalismo nella storia

Il liberalismo è una dottrina politica, di ispirazione anti-autoritaria, nata in seno all’Illuminismo (anche se alcuni pensano che le prime radici di questo pensiero risalgano addirittura al Medioevo).
Nato per sottolineare il valore dell’individuo, la sua autonomia rispetto allo Stato, e la separazione tra pubblico e privato, si sviluppa tramite nuovi pensatori , che, combattendo il concetto, caro ai pensatori proto-liberali (come Hobbes, che però non può dirsi davvero “liberale”), di giusnaturalismo (una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile), estendono i diritti civili, politici e sociali agli obiettivi del liberalismo, in coerenza con lo spirito “anti-autoritario” iniziale.
E’ giusto, quindi, essendo il liberalismo un fenomeno complesso, fare i giusti distinguo:
Liberalismo Sociale, che si oppone al conservatorismo quanto al socialismo. Per collocarlo politicamente, dobbiamo pensare ai Democratici Americani (progressismo di stampo social-democratico, i cosiddetti “Liberal“), a Più Europa, e alla forza centrista europea denominata Alleanza di Liberali e Democratici per L’Europa
Liberalismo Economico, in Italia rinominato “Liberismo, termine coniato, in lingua italiana, da Benedetto Croce, e incarnato da personalità come Luigi Enaudi, Friedman e Von Hayek. Nel resto del mondo viene semplicemente denominato “Liberalism”.
Anarco-Capitalismo: Autorità pubblica ridotta al minimo, difesa dei diritti individuali (Stirner)
Tutte le forme di liberalismo propongono anche la totale separazione di Stato e Chiesa, e la totale Laicità delle Istituzioni.

 

Liberalismo nella Prima e Seconda Repubblica Italiana


Uno dei grossi problemi, in Italia, è che liberale ha man mano cambiato significato rispetto al significato del passato, e al significato che continua ad avere nel resto del mondo.
Se, nella Prima Repubblica, il PLI (Partito Liberale Italiano) ha rappresentato lo spirito del Liberalismo (ma in parte lo ha fatto anche il Partito Radicale), il termine ha iniziato ad essere distorto nella Seconda Repubblica, quando Forza Italia ha sicuramente abbracciato il liberalismo economico, ma non quello sociale, nonostante si mostrasse, sui diritti civili, più aperta dei partiti che in quegli anni erano più a destra di Forza Italia (MSI ed Alleanza Nazionale).
Esponenti dello spirito Liberale di quegli anni, tramite partiti di centro destra, Italo Bocchino, Luca Barbareschi, Benedetto Della Vedova, Mara Carfagna, Alessandro Cecchi Paone e il Gianfranco Fini degli ultimi anni, ma si potrebbero citare anche donne non certo di Sinistra, impegnate nei diritti delle donne: l’ultima Oriana Fallaci, Stefania Prestigiacomo, Giulia Bongiorno. E si possono anche citare, ai confini con la Terza Repubblica, dei tentativi di partiti laici e liberali: Scelta Civica, Futuro e Libertà, Fare per Fermare il Declino.

 

Liberalismo nella Terza Repubblica Italiana

Oggi, la situazione è peggiorata. Si definiscono Liberali, da Statuto, la Lega e persino Fratelli D’Italia, che in teoria dovrebbe appartenere alla “destra statalista”, erede della Fiamma Tricolore, e quindi, oltre a non essere liberale, non dovrebbe neanche essere “liberista”.
Liberale, è, dunque, diventato sinonimo di conservatore, se non reazionario, di integralista cattolico. L’unico valore di “libertà” individuale che sembrano abbracciare i nuovi “liberali” di estrema destra sono quelli del “diritto al libero pensiero, ovvero il “diritto” di pensare (e dire) che una coppia gay non è valida quanto una coppia etero, le persone trans vanno “misgenderate” (ci si deve rivolgere a loro come da sesso biologico, anche quando hanno cambiato i documenti), che le donne abbiano dei ruoli sociali “innati”, che le etnie non caucasiche siano inferiori.
Per completare il quadro, ora, si definisce liberale anche chi è antieuropeista, sovranista, autarchico.


Come è cambiato l’elettorato di destra in Italia e nel mondo

Perché è successo?
E’ cambiato l’elettorato di destra. Se un tempo a votare la destra era chi ne aveva convenienza economica, e magari aveva il “portafoglio a destra” e il “cuore a sinistra” (persone per la meritocrazia, contro gli assistenzialismi, e indignati del fatto che più lavori, più ti tassano), oggi, a destra, si è spostato un elettorato non istruito, non affermato sul lavoro, che non teme l’alta tassazione, perché fa lavori umili, ma che viene demagogicamente convinto che siano le destre conservatrici e reazionarie a fare il suo interesse. Poveri e ignoranti, come molti di coloro che hanno fatto “l’attentato” al Campidoglio (tra loro anche “laureati”, e/o appartenenti a famiglie molto facoltose, entrambi fattori che di per sé non sono dati che garantiscono “cultura”), che, non potendosi unire sotto il cappello di valori liberisti e “no-tax”, vengono aggregati da “burattinai” colti sotto al cappello degli ultra-reazionari, convinti che i propri fallimenti professionali derivino da persone di colore, donne e gay.
Con questo spirito, sono nati i movimenti della destra americana Alt Right, che rivendica il fatto che il “vero discriminato” oggi sarebbe l’uomo etero. Gli “incel”, i “redpillati”, e gli MRA, convinti che oggi la donna sia “talmente emancipata” da poter scartare un compagno brutto, poco capace a letto, povero e ignorante.
E’ la rivolta dei “peggiori”, quelli che un tempo avrebbero votato la sinistra, e che davano la colpa allo Stato di tutti i loro fallimenti, e che oggi danno la colpa ai pharmacos: agli attori di colore che vincono l’Oscar, alle manager transgender, agli stilisti gay, alle donne single e senza figli.

 

Dove si è spostato il voto dei professionisti ambiziosi e colti?

Di contro, l’elettorato colto, il mondo dei professionisti d’alto livello, si è spostato a “sinistra”, in una sinistra che sinistra non è più: il PD o Italia Viva. I colti e ricchi delle grandi città italiane, ormai, sanno che partiti di centro destra tutelano anche i loro diritti di benestanti che vogliono rimanere tali, e che non hanno bisogno di votare un Centro Destra italiano, che, rispetto ai tempi di Montanelli (magari “squallido” nella vita privata, ma un conservatore di quelli che credeva che, all’esterno, si dovesse apparire “signorili” e non “pecorecci”), è diventato sempre più esplicitamente sessista, razzista, omofoba e pecoreccio, usando come strumenti dei “giornalacci” pieni di parolacce, vignette scurrili e aggressività, una volgarità da cui il colto ricco vuole prendere le distanze.
Il “liberale” di oggi, quindi, legge il Sole24Ore, non legge Libero, o Il Giornale, vota il PD, esulta per la vittoria di Biden, legge l’autobiografia di Obama, e manda i figli al liceo classico in centro, ma sta attento a non dirsi “liberale”, ora che questo termine, almeno in Italia, è diventato sinonimo di “fascistone bigotto”.

 

 

 

Sul maschile tossico, sulla virilità, e su nuovi modelli di mascolinità sana

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Cosa si intende per Mascolinità Tossica

“Maschile Tossico” è un concetto relativamente recente, che cerca di togliere l’accezione negativa, portata avanti da alcuni femminismi del passato, del “maschile”, e riconducendo il problema a quando il maschile è “tossico”.
Si parla di maschile “tossico” quando una persona di sesso o genere maschile ricalca gli stereotipi maschili veicolati da una mentalità patriarcale, sessista, omotransfobica e binaria.
La “tossicità” del maschile “tossico” non è un problema solo per le donne o gli uomini non conformi (ad esempio, gli uomini LGBT ma non solo), ma si considera vittima anche quel tipo di uomo, di solito eterosessuale, che cresce convinto di dover incarnare il ruolo di genere maschile tradizionale, evitando di apparire dolce e sensibile, dovendo per forza apparire interessato a tutte le donne, sentendosi in dovere di fare battute sessiste, omofobe e transfobiche per non “rischiare” di essere considerato un “mezz’uomo”, un uomo gay, o comunque un “maschio beta”.
Questo ruolo sociale, che viene inculcato genera sicuramente un privilegio sociale, ma anche una fatica a mantenere sempre alta la “performance”, per non rischiare l’esclusione dal branco e il passare, immediatamente, anche solo per una défaillance, dalla parte del “vero uomo” alla parte di tutte quelle tipologie umane che vengono prese in giro dal “vero uomo”, essendo oggetto di scherno e dileggio.

Esiste anche il Femminile Tossico?

Si parla, anche se molto meno, anche di “femminile tossico”, per indicare le donne che ricalcano gli stereotipi femminili, il ruolo sociale femminile stereotipato e socialmente accettato, perseguitando chi non incarna questa espressione: madri che perseguitano le figlia, diventando infine una “voce interiore” disapprovante, anche quando le figlie sono adulte, ma anche la collega di lavoro che guarda con sufficienza o dà consigli non richiesti alla collega poco “femminile” per scelta.
Si tratta di donne che diffondono una cultura binaria ed eteronormativa secondo cui la donna, “ovviamente” eterosessuale, per essere valida, debba puntare tutto sull’estetica, la femminilità, e le capacità seduttive sul maschio, perché quello è l’unico modo per avere potere e prestigio, e se insegue la realizzazione in altro modo, scavalcando l’approvazione sessuale del maschio, o la sua accondiscendenza, aderendo totalemente al ruolo femminile imposto dalla società, di seduttrice prima, di madre e moglie dopo, non è una “vera donna”.
Anche il “femminile tossico” è legato alla mentalità patriarcale e binaria.


Ma cerchiamo di riflettere: esiste una “viriltà” positiva?


Nella lingua italiana, virilità assume diversi significati, sia dal punto di vista fisico, che dal punto di vista psicologico/sociale. Dall’encliclopedia Treccani, leggiamo che uno dei significati di Virile è “La qualità propria dell’uomo forte, sicuro di sé e risoluto, coraggioso, che si manifesta nelle sue azioni”, qualità che potremmo associare all’eroe, al “vir” Greco-Romano.
Si può parlare di qualità “negative”? Possiamo dire che queste caratteristiche sono “proprie” solo della persona di sesso, o di genere maschile?
Una donna non può essere “sicura di sé, risoluta, coraggiosa”? E’ forse obsoleto associare queste qualità ad una parola la cui radice è la parola latina “vir”, che significa uomo?
Sono un attivista antibinario da sempre, ma ho sempre chiarito che l’espressione individuale delle persone può anche essere aderente al binarismo, sia estetico che comportamentale, se quelle persone stanno bene, e se non opprimono gli altri.
In pratica, sto dicendo che non c’è nulla di male ad essere Marilyn Monroe o Arnold Schwarzenegger, se poi si fa parte di quel meccanismo che afferma che queste sono le uniche manifestazioni estetiche e comportamentali legittime.


Riguardo agli uomini LGBT, come si relazionano col maschile, tossico e non?

Velatismo e maschile tossico


Pensiamo ai tanti uomini gay e bisessuali che scelgono il velatismo sociale (gli stessi che si arroccano in una performance stereotipata maschile e che si iscrivono sulle app gay definendosi “insospettabili”), e, come tanti uomini “beta” eterosessuali, decidono di assecondare le pressioni sociali che li vogliono “uomini” a tutti i costi. Se passa una bella ragazza, questi uomini si sentiranno obbligati a fare un complimento, magari pecoreccio, se è presente un “presunto maschio alpha”, che osserva e giudica. E, forse, sarà più il gay/bisessuale velato che avrà voglia di aderire a questo spettacolino, che magari l’uomo “beta” eterosessuale, che porta avanti valori progressisti, e si opporrà a questa pantomima.
Lo stesso vale per quegli uomini transgender che hanno ormai cambiato i documenti ed acquisito un passing che li rende indistinguibili, esteticamente, da un maschio “nativo”.
Nel film “Romeos”, il protagonista, uomo ftm, perde il suo “packer” (protesi genitale) e i maschi, ad una festa, lo lanciano allegramente chiedendosi di chi è. La sua amica donna, sapendo che è suo, ammonisce gli amici di tanto sessismo stupido, ma il ragazzo, per non essere sospettato, si unisce al clima pecoreccio, deludendo l’amica femminista.
Allo stesso modo, alcuni uomini ftm, soprattutto eterosessuali (attratti da donne), performano un maschile tossico, prendendo le distanze, ad esempio, dall’omosessualità (anche dagli stessi “fratelli” ftm gay), ebbri dell’euforia di genere dovuta al passing.

E l’uomo LGBT “dichiarato e risolto”? Ha il “dovere” di essere migliore?


Parlando invece di chi è un uomo LGBT (uomini gay, bisessuali, pansessuali, persone transgender di identità maschile o non binary), ma è interiormente risolto, come può fare tesoro della sua diversità per “costruire” un maschile sano?
Un uomo LGBT può essere virile quanto un uomo “cishet” (cisgender ed eterosessuale). L’orientamento sessuale o l’essere nati in un corpo non maschile non comportano una maggiore sensibilità, o predisposizione a comportamenti che vengono considerati “femminili” da stereotipo. Ed è per questo che un anno fa ho “ammonito” la Bignardi, che considerava “migliore” l’attivista ftm Gianmarco Negri “a causa della sua origine femminile”, chiarendo poi che tali elogi di mascolinità sana vengono rivolti anche agli uomini “gay”, considerati “sensibili e profondi” in automatico, solo perché attratti dagli uomini.
E’ importante, quindi, dire, che un percorso di vita “diverso”, che comporta un’accettazione di una diversità dalla norma eterosessista, e un processo di rivendicazione di cittadinanza, in un mondo che “prevede” e “include” altri tipi di maschile, può rendere l’uomo LGBT un uomo migliore. Tuttavia, è importante chiarire che questo non sempre accade, e non va preteso dagli uomini LGBT, e che pretenderlo, o aspettarselo, è comunque una forma di discriminazione “al contrario”. L’uomo lgbt non è per sua natura “migliore”.
E’ poi il ruolo dell’attivismo che combatte binarismo ed eteronormatività “ispirare” gli uomini LGBT, fornire spazi di confronto, laboratori (come quello che ho organizzato con l’allora Milk Milano, Ripensare il Maschile – mascolinità xx e non binary, ma anche altri, aperti a uomini cis, gay, bisessuali, o eterosessuali che si stanno mettendo in discussione), in modo che possano, tramite il confronto e l’autocoscienza, elaborare modelli più evoluti di mascolinità sana.

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