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Le memorie di un presidente Milk a fine mandato

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A tutte le persone che leggono il blog e che mi hanno seguito in questi anni, anche come Presidente del Circolo Culturale TBGL Harvey Milk Milano.

Oggi scade il mio terzo mandato come Presidente e, ormai da mesi, ho preso la decisione di non ricandidarmi. Ho individuato un ottimo successore in Leonardo Meda, che si è affiancato a me nel lavoro di far crescere il Milk già pochi mesi dopo dall’inizio della mia presidenza, e che ne incarna lo spirito inclusivo, e la vicinanza ai temi B e T.

La mia avventura nell’attivismo LGBT è iniziata nel 2008. Prima di allora avevo avuto molta difficoltà a comprendere la mia condizione, per via della poca informazione che circolava in rete, e per via del fatto che per le persone T di genetica xx è più difficile auto-individuarsi come tali, per via della confusione sociale tra identità di genere e ruolo di genere, che fa si che una persona XX “maschile” sia tollerata e inclusa dalla società, soprattutto se molto giovane, e non “pensata” come persona LGBT (o addirittura T).

Quando iniziai ad individuarmi come persona T, sapendo che era possibile esserlo anche per noi XX (avevo visto un ftm in un talk show dell’anno 2000, e parlarne a scuola non mi aveva illuminato, poi nulla per molti anni), e per noi XX attratti da uomini (avevo sentito parlare di Deborah Lambillotte, storica attivista translesbica, e avevo visto i film di Almodovar), mi chiesi quali erano gli spazi che avrebbero incluso una persona LGBT come me, in una condizione così particolare.

 

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Nonostante ai tempi, vista la giovane età, e la corporatura non formosa, non avessi problemi di passing, era comunque difficile spiegare nelle associazioni la mia condizione, e le uniche aperture le trovai dall’allora Circolo di Cultura Omosessuale Milk Milano, con presidente Stefano Aresi, ma con dentro molti attivisti eterosessuali che lui aveva saputo portare al Circolo.
Fu il primo posto in cui mi sentii accolto, anche se, probabilmente senza cattiva fede, mi sentii “spinto” ad espormi in un momento in cui non ero ancora pronto, non tanto perché non sapessi chi ero, ma perché non sapevo quanto, essendo allora neolaureato e uno dei tanti “galoppini” a prestazione occasionale negli studi tecnici, volevo espormi come attivista transgender, in un momento un cui già il mio aspetto generava interrogativi in cui interagiva con me per lavoro.

Trovai un lavoro da dipendente, e dedicai tutto il mio tempo libero all’attivismo. Poco dopo Stefano partì per il Nord Europa, per far crescere la sua professione. Ricordo le sue parole, il giorno delle sue improvvise dimissioni da presidente. Era il 2010 e io ero consigliere nel direttivo. “Ho 33 anni e sono stato presidente finché ne ho avute le energie“. Stefano scelse di nutrire la sua vita e la sua carriera, come me, dimissionario, guardacaso anch’io a 33 anni.

Mi cadde sulla testa questa presidenza. Il direttivo di allora scelse me, ma io in curriculum, nel 2010, avevo solo due anni di attivismo tramite questo blog (Progetto Genderqueer), tramite twitter, tramite una grande fiaccolata contro l’omotransfobia organizzata in settembre, e l’esperienza di responsabile Blog del Milk.
Mi sentivo come il protagonista della recente serie “Designated Survivor“, presidente per caso, e dovevo “imparare” a a farlo, aiutato dall’efficiente e giovanissimo segretario Giacomo D’Agnolo, in un periodo in cui mi stavo integrando nel mio nuovo posto di lavoro da dipendente, tra mille difficoltà dovute al mio aspetto.

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Negli anni, la mia figura, e il mio blog personale, fecero avvicinare al Milk tutte quelle persone che nelle altre associazioni, inclusive da statuto, non venivano incluse. Persone omosessuali che si stavano interrogando sulla possibilità di essere bisessuali, ad esempio, come Leonardo Meda, ma anche persone, come Alessandro Rizzo Lari, che sentivano stretto un attivismo gay chiuso e autoreferenziale, “urlato”, come lo chiamava lui, e cercavano uno spazio dove poter portare, ad esempio, il tema della Laicità. In quegli anni iniziarono i mercoledì miei e di Alessandro in Consulta Milano Laica, e i rapporti con UAAR Milano, ancora molto legata al Milk, e che sta facendo di tutto per aiutarci a completare il calendario di Alessandro.

Ogni persona che si avvicinava al milk portava delle idee, e queste idee diventavano progetti: Damiano Contin col progetto Counseling, che poi divenne Tiascolto con l’arrivo degli psicologi volontari, Antonio Dognini col progetto Meditazione, Dante Fusi col laboratorio di Teatro, Lanfranco Brambilla e Cinzia Favini col gruppo AMA relazioni affettive, Roberta Ribali, nel mettermi in contatto con Monica Romano e Daniele Brattoli per dare vita al progetto identità di genere, Enrico Proserpio per il suo laboratorio di giardinaggio e così via.
Il Milk, che ci aveva visto tutti impegnati, in passato, in un attivismo più “street”, che aveva visto me, Ivano Cipollaro ed altri, in fiaccolate, nel Treviglio Pride, nelle uscite di strada per aiutare le persone Sex Workers, con Antonia Monopoli, era diventato, nel tempo, un “posto sicuro”, un luogo protetto per tutte quelle persone che, non per ideologia (il milk non si interessava e non si interessa di Teoria Queer), ma per condizione personale, non rispondevano ai parametri comunemente “accettati” dal movimento, ovvero essere gay, lesbica e transessuale.

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Sono stati anni di grandi esperienze, da Palazzo Chigi a Unar, da Coordinamento Arcobaleno a Tavoli col Comune, passando dalla fondazione della rivista Il Simposio, insieme ad Alessandro, Enrico Proserpio e Danilo Ruocco, ma, come Stefano una decina di anni fa, ora sono io a “non avere più energie” per l’attivismo, a voler riprendere in mano la mia vita privata e professionale.
Il dividermi tra lavoro e attivismo mi dava l’opportunità di vedere la realtà da due lenti molto diverse: quella dell’attivismo, sovente simile alla mia, e quella delle persone comuni, spesso molto meno aperte, spesso così lontane dalle parole chiave di noi attivisti, che dovevo scegliere parole totalmente diverse per raccontarmi ad esse.

In dieci anni di attivismo, la condizione delle persone non medicalizzate, da un punto di vista legale, non era migliorata. Di certo avevamo fatto cultura, avevamo dato una “casa” a tante persone questioning, ma fuori dalla “bolla” milk regnava il misgendering, la difficoltà ad essere riconosciuti sul lavoro e tutto il resto, e questo “sogno” di cambiare le cose, quasi da solo (negli anni ho conosciuto pochissime persone transgender non med pronte a dichiararsi sul lavoro e ad usare il proprio cognome sui social), e in relativamente pochi anni, mi aveva “tolto” la possibilità di costruire un linguaggio, un approccio, atto a migliorare la mia vita anche al di fuori dalla bolla.

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Negli anni ero già riuscito ad essere Nathan nei miei interessi personali, culturali, in famiglia e coi partners quasi da subito, ma rimaneva la difficoltà di propormi al mondo professionalmente col mio nome d’elezione, senza che questa mia caratteristica, l’essere transgender, diventasse l’unico oggetto di attenzione.

Così ho studiato, ho escogitato, un modo in cui un libero professionista, transgender non medicalizzato, che si propone al mercato possa risultare vincente non oscurando il proprio nome d’elezione o la propria condizione, ma allo stesso tempo mettendo in risalto il suo ruolo di professionista e non rimanendo intrappolato nell’identità di attivista.

Questo tipo di lavoro, di esperimento, l’ho iniziato nel 2016, quando ho fatto il passaggio al part time nella mia azienda, che mi aveva già cambiato la mail anni prima (niente nome anagrafico su mail, buoni pasto, badge), proprio per costruire un mio percorso parallelo da freelance che facesse in modo che la disforia fosse ridotta al minimo (giusto il tempo di fare una ricevuta di pagamento, ma spiegando che quel nome deve rimanere solo su quella ricevuta). Il progetto ha, incredibilemente, funzionato quasi da subito. Forse questo è dovuto alla mia capacità di “slalom” tra le peripezie della vita allo scopo di scavalcare la disforia (ad esempio fare la “carta magazzino” al posto del bancomat col nome anagrafico marchiato), esperienza che, ad esempio, mi ha dato tanti spunti quando ho parlato alle aziende tramite Parks e Diversità Lavoro, ma mi ha reso sveglio nel trovare soluzioni alle mie personali situazioni, sia aziendali che freelance, in modo da farle trovare già pronte e collaudate a capi, clienti, colleghi.

 

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Ed è proprio quanto questo esperimento è iniziato, e mi preparavo a lasciare la presidenza al mio caro amico e simbolo del milk, Alessandro Rizzo Lari, che lui ci ha lasciati improvvisamente, per una bronchite mal curata, all’età di 39 anni.
L’ultimo anno ho combattuto con me stesso per mandare avanti il mio progetto lavorativo, ma nel frattempo mandare avanti il Milk, soprattutto nel portare avanti il calendario di Alessandro, quello concordato insieme, tra mille “cc” nelle mail, in cui, con la sua solita dolcezza, mi presentava ai relatori come il suo “amatissimo presidente”.

E ora che questo calendario è finito, che manca solo l’evento Transgender Non Med, che mi vede come relatore insieme a Laura Caruso, finisco il mio mandato con due propositi, con due cose da fare prima di andar via: dedicare il nome dell’associazione ad Alessandro, come lui avrebbe fatto se fosse successo a me, per lasciare eterna memoria del suo importante contributo all’interno del movimento, in primis per la sua volontà di inserire TBGL nel nome, per la sua attenzione verso “gli ultimi”, e inserire una dedica, nello statuto, alla cara amica e ispiratrice Deborah Lambillotte.
Ricordo quando, al mio compleanno, mi scriveva “auguri fratellino” sulla bacheca. Ricordo quando insieme curavamo una pagina chiamata “Sodalizio Laico“, e ricordo il proposito di incontrarci a Milano, più volte rimandato.

Il Milk che lascio è un Milk molto cambiato da quando, giovanissimo, fui accolto, ma è un Milk che, nonostante il turn over, non penso perderà lo spirito inclusivo che per così tanti anni lo ha caratterizzato.

Mi immagino come un vecchio ex attivista, in pensione, che potrà tornarci, libero da oneri come scattare foto per poi caricarle sulla pagina, raccogliere contatti mail da inserire nel database, aprire la sede, chiuderla, montare cavalletiti e diffondere eventi facebook. Voglio immaginarmi in una delle traballanti sedie di plastica, a seguire un evento, immaginando che accanto a me ci sia Alessandro, e tutte le persone, così tanto diverse tra loro, che in questo decennio hanno fatto la storia del Milk.


Il Milk di Milano dedica il suo nome all’attivista storico Alessandro Rizzo Lari

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Il Circolo Milk di Milano dedica il nome dell’associazione all’attivista Alessandro Rizzo Lari. Lo statuto ricorda anche Deborah Lambillotte. Nathan viene nominato presidente onorario, e Monica consigliera onoraria

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Il Circolo Culturale TBGL Harvey Milk di Milano ha rinnovato le sue cariche e approvato delle modifiche statutarie durante l’assemblea del 28 gennaio 2018.
L’assemblea è iniziata con il discorso di fine mandato del presidente, Nathan, il quale ha rievocato i momenti cardine della storia del Circolo, e di come, grazie all’impegno di attivisti come Alessandro Rizzo Lari, e di altri volontari del passato e del presente, il Circolo si sia sempre più rivolto a creare servizi e cultura in ambiente protetto per persone LGBTI+, con una particolare sensibilità verso le persone Bisessuali e Transgender, oltre a tutte quelle istanze spesso poco valorizzate dal movimento LGBT (Intersessuali, Pansessuali, Asessuali, Transgender non Medicalizzati, Genderqueer, Non Binary).

Nathan ricorda quanto sia stata importante la figura di Alessandro all’interno del Circolo, del Movimento LGBT e per la politica milanese.
Alessandro era Rizzo all’anagrafe, ma era affezionato al cognome della madre, Lari, e così i suoi amici del circolo, molto attenti all’autodeterminazione, lo hanno sempre chiamato.

L’assemblea si conclude con il cambio del nome del circolo:
Circolo Culturale TBIGL+ Alessandro Rizzo Lari (ex Harvey Milk).
Il nome “TBIGL+” introduce sia la “I” (le persone intersessuali), sia il “+”, che rappresenta tutte quelle persone in percorsi “non canonici” relativi all’orientamento affettivo/sessuale e/o all’identità di genere.
Esse vengono anche incluse, adesso, nel testo dello statuto, con votazione all’unanimità, anche se di fatto l’associazione è stata da sempre inclusiva, e aveva già cambiato il nome in TBGL nel 2014, per sottolineare l’inclusione e l’attenzione alle battaglie meno “blasonate” all’interno del movimento.

Vengono introdotti anche alcuni valori dell’associazione, come l’attenzione ad evitare il “misgendering” verso le persone T, e l’invito a rispettare il genere dichiarato dalla persona, ma anche il rispetto di tutte le condizioni personali (ad esempio, quella bisessuale).
Anche se, di fatto, ciò è sempre accaduto, il fatto che i soci abbiano chiesto che fosse scritto nello statuto indica una precisa volontà di sottolineare l’attenzione che questo Circolo, in particolare, ha e ha avuto nel creare un ambiente protetto e rispettoso di ogni autodefinizione (o desiderio di non definizione, in alcuni casi).

Infine, viene ricordata una persona importante per il Movimento: Deborah Lambillotte, attivista translesbica, di origine Belga, determinante per l’attivismo LGBT a Milano e in Italia, scomparsa improvvisamente nel 2016 e grande amica di alcuni/e attivisti/e del Milk, in particolare di Nathan e Monica.

Ed è a Nathan e Monica, infine, che il Circolo dedica delle cariche onorarie:
Nathan viene nominato Presidente Onorario e Monica Consigliera Onoraria, come riconoscimento del loro impegno negli anni per il Circolo e per la comunità LGBT milanese e Italiana

Viene infine nominato il nuovo presidente: Leonardo Davide Meda, storico volontario del Milk.

Non Med: percorsi transgender non medicalizzati, 8 aprile 2018 a Milano

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Domenica 8 aprile 2018, ore 18, al Circolo TBIGL+ Alessandro Rizzo Lari Milano (ex Harvey Milk), ci sarà un evento culturale, appartenente al calendario di Alessandro Rizzo Lari, dedicato alle persone transgender in percorsi non medicalizzati, ovvero le persone T che non apportano modifiche farmacologiche al proprio corpo, e chiedono il rispetto sociale della propria identità di genere.

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Interverranno Laura Caruso, attivista transgender non medicalizzata, e Nathan, ftm non med, autore di Progetto Genderqueer e presidente onorario del Circolo.

Saranno trattati temi legati al riconoscimento legale, alle possibilità (o non possibilità) di cambio “nome” o di cambio “nome e genere”, tematiche legate al passing, e al misgendering, alla sanità e alla professione.

La grafica del progetto “Non Med” è stata ideata, dopo un brainstorming con Laura e Nathan, dal grafico Sam Mera.
Interverranno anche Monica Romano come conduttrice, e Marco D’Aloi come avvocato.

Clicca per vedere lo slideshow.

Le realtà aderenti sono:
Circolo Culturale TBIGL+ Alessandro Rizzo Lari Milano (ex Harvey Milk)
UAAR Milano
Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia
Progetto GenderQueer
Un altro genere di rispetto

Evento su facebook

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Percorsi non medicalizzati: coming out, velatismo, esposizione sociale

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Perché quasi tutte le persone non medicalizzate sono velate? Perché è così difficile esporsi? Quanto conta il passing? Quanto conta non avere una legge che tutela questa condizione? Quanto conta il binarismo e le aspettative sull’aspetto fisico?

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Il mio ritiro dall’attivismo associativo ha posto in me diversi interrogativi sul mio esistere, come persona, come professionista, e come uomo, al di fuori di quei contesti.
Non ho molti transgender non medicalizzati con cui confrontarmi, nel senso che quasi nessun transgender “non medicalizzato” rivendica questa identità (spesso usano, per definirsi, concetti che non mettono al centro questa diversità, ovvero la non medicalizzazione, ma mettono al centro la visione antibinaria o altro), ma con quei pochi che conosco, quasi sempre virtualmente, il piano del confronto non è mai lo stesso, perché, di solito, hanno scelto una visibilità e un’esposizione sociale diversa (minore) della mia.

Sarebbe facile fare una crociata contro i “cattivoni” velati, ma se invece avessi sbagliato io? Non voglio essere “elogiato” come coraggioso monaco guerriero: sono estremamente infastidio da questa componente “cattocomunista” dell’attivismo, che ci vuole guerrieri senza macchia, senza vita privata, devoti alla causa e all’aiuto dell’altro, di quello un pelo più fragile di te, a cui “dovresti” sacrificare quel poco di solidità che hai ottenuto.
No, non sono qui per questo, per chiedere “la beatitudine” alla chiesa LGBT. Io sono qui per capire “perché” gli altri non medicalizzati spesso decidono di non esporsi.

Una persona che ho molto aiutato, che si autodefinisce genderfluid, ma rivendica l’appartenenza all’ombrello transgender, e parla della sua disforia, ha scelto di fare attivismo, ma di farlo con un altro cognome. Ha un cognome molto comune, e credo che avrebbe potuto presidiare il web col cognome vero senza rischiare, ma la “paura” dell’essere identificato/a come “transgender” anche da chi lo/la conosce col nome anagrafico, magari tramite canali professionali, era altissima.

Questa persona è una di quelle che, senza fare una terapia ormonale, si espone di più, maggiormente rispetto agli altri. Mediamente le persone non med che conoscono sfidano ogni giorno la “censura” di facebook, provando ad aprire account (che spesso poi vengono chiusi, a volte per “vendetta” legata a segnalazioni a facebook, da parte di persone, spesso anch’esse LGBT,  con cui litigano per argomenti di attivismo) con cognomi esotici.
A volte, queste persone, in società, vivono con aspetti androgini (questo avviene più per persone di provenienza biologica XX), a volte no (vi è un on/off nel look), ma spesso il dato allarmante è che, spento il portatile, queste persone vengono “socializzate” come appartenenti al sesso biologico.

Partiamo da quelle persone che scelgono (magari sono spinte dalla disforia), di presentarsi al mondo con una aspetto “gender non conforming”. Il caso tipico è quello della persona di biologia xx che sceglie un aspetto maschile, ma che, a causa dei “limiti biologici”, riesce ad avere un aspetto al massimo androgino, dove “androgino” non deve essere pensato come qualcosa di erotico e intrigante, perché, se si supera l’asticella del consentito, l’ambiguità viene vista come brutta, anomala, e genera sospetto.

Però, questa persona xx, se la sua androginia è “ridotta” e “controllata”, e se è molto giovane, riesce a farne un punto di forza, ad integrarsi come ragazza lesbica, bisessuale o etero alternativa.
Se invece la sua androginia sarà “eccessiva”, oltre al limite “consentito”, ottenuto dalle battaglie femministe, se il suo cranio sarà troppo tosato, se le sue gambe saranno troppo pelose, questa persona potrà sì vivere, uscire di casa senza rischiare le percosse, ma non potrà mai “integrarsi” davvero nella società, inseguire le sue aspirazioni professionali, essere percepita come “altro” rispetto allo stigma di persona “poco raccomandabile”, “strana”, “ambigua”.
Lo stesso accade, se non di peggio, alle persone non medicalizzate di provenienza xy. Esse a volte limitano la medicalizzazione, se di questo si può parlare, alla rimozione della barba tramite la terapia laser, ma, se non portatrici di un buon “passing”, esse continuano ad essere viste come uomini “strani”, magari omosessuali, magari che hanno una “vita notturna” in non si sa bene quale nightclub.

E’ facile giudicare le persone “non medicalizzate”, dimenticando quanto è difficile per loro non solo fare coming out, ma che questo coming out venga preso sul serio.
E’ quasi come se la persona cis “perdonasse” la persona trans solo alla luce di un “sacrificio fisico”. E’ chiaro che le persone medicalizzate facciano determinati cambiamenti per il proprio desiderio di vedere la propria immagine più coerente a quella interiore, ma ciò non toglie che da fuori questo sarà visto come un sacrificio “necessario” per essere presi sul serio, come un “rituale tribale”, richiesto, affinchè il “capriccio” di essere rispettati possa essere ascoltato e accolto.

Senza il passing, senza un corpo che cambia velocemente nelle sue caratteristiche biologiche legate alla percezione del sesso di appartenenza, senza un certificato di una persona cisgender che “attesta” che la persona T non stia mentendo, i coming out delle persone T non vengono presi sul serio. Deve essere sempre attesa una particolare apertura mentale: nulla è dovuto, ed è sempre un mix tra una committenza illuminata (che accoglie l’istanza), e l’intelligenza, la cultura, la sfrontatezza della persona T non medicalizzata che fa questo coming out, un uso sapiente, ponderato e scelto delle parole, di ogni singola parola.

Molte persone non med preferiscono coming out soft che alludono a questioni di antibinarismo dei ruoli, o alla compresenza di entrambi i generi, o al non avere un genere, anche quando queste persone, osservando la loro disforia rispetto al nome, o alla grammatica, sono, di fatto, persone che si identificano chiaramente nel genere opposto al loro sesso, e non in “vie di mezzo”: a darmi ragione è aver osservato per 11 anni la comunità T, virtuale e non, e avere visto che, arrivata la medicalizzazione, spesso le definizioni “non binary” venivano accantonate, proprio perché spesso usate, comunicativamente, per farsi accettare in modo meno traumatico.
Del resto anche io spesso ho preso in considerazione, in casi abbastanza complessi, un coming out “genderqueer” piuttosto che uno da uomo trans. Poteva essere un modo veloce e semplice per eliminare i comportamenti fonte di disforia (l’uso del nome anagrafico, del genere grammaticale sbagliato, di alcune aspettative da stereotipo), senza generare aspettative di genere (ovvero che, accettato il fatto di considerare quella persona del genere opposto a quello di cui la consideravano prima, si generino aspettative sulla lunghezza dei suoi capelli, sui comportamenti, sulle reazioni, spesso dovute alla poca evoluzione mentale sui ruoli che ha la persona con cui dobbiamo fare coming out).

Questa parte del mio articolo potrebbe sembrare offensiva verso genderqueer e non binary. Eppure io credo che tante persone siano genderqueer e non binary, anche tante persone medicalizzate (magari hanno scelto una medicalizzazione parziale, per esaltare un non binarismo estetico che corrisponde alla loro identità di genere non binaria), ma anche che molte persone di identità definita pensino di essere “non binary” (definizione che riguarda l’identità e non i ruoli), solo perché sono uomini o donne contro il binarismo dei ruoli di genere o non aderenti agli stereotipi del genere d’elezione (caratteristica assai diffusa tra transgender non medicalizzati).

Inoltre, è come se la definizione “non binary” o “genderqueer” desse meno fastidio nell’attivismo trans. E’ come se dire di essere “non medicalizzati” in qualche modo mettesse in discussione o “offendesse” i percorsi canonici, e i vari litigi assurdi e irrispettosi che si possono osservare nei gruppi trans di facebook, quelli in cui da anni non scrivo più, ne sono la prova.

Insomma: definirsi “transgender non medicalizzato” porterebbe problemi in tutte le comunità, sia interne che esterne al mondo LGBT, mentre definirsi queer o non binary (non essendolo), darebbe un passaporto per una grande comunità, guidata dagli Stati Uniti, che veicola parole chiave più “rassicuranti”.

Passo al tema del cambio documenti.
In Italia, se sei non medicalizzato, non puoi cambiare i documenti. In altri stati basta una semplice pratica amministrativa.
Lotterò fino alla morte affinché una persona senza passing possa cambiare legamente i documenti.
Penso, però, a me, domani, con un bel nome marcatamente maschile, e questo aspetto. Per quanto alcune persone non med, spesso molto giovani, abbiano un discreto passing (magari fasciando il petto a vita, cosa che non è che faccia poi così “bene” a lungo andare), quasi tutte non arrivano a confondersi tra i cis, me compreso, e penso che, per come la società la pensa oggi, quel bellissimo nome potrebbe creare verso di me ancora più stigma. Sarebbe un “coming out” continuo, come persona trans, ovunque io andassi, o volessi lavorare. Qualcuno, per ignoranza, mi immaginerebbe “trans al contrario”, un uomo che vuole sembrare donna e ci riesce (visto lo scarso passing), ma “chissà cosa fa di notte al nightclub“).

Poi ci sono quelle persone non med a cui basterebbe optare per un cambio nome, con la scelta di un nome ambiguo, neutro, esotico, che tolga loro la disforia, e che permetta alla persona in questione di presentarsi, in un modo molto transfobico, come appartenenti al genere d’elezione solo quando le condizioni al contorno lo permettono. Qualcuno potrebbe chiamare questa “piccola soluzione”, e io potrei anche essere d’accordo a questa opzione, se possa essere “scelta” in alternativa al “cambio di genere” come tradizionalmente concepito.
Potrebbe essere una soluzione al problema sanitario: una persona non med ha bisogno dell’assistenza medica relativa al suo sesso biologico, ed è bene che la sanità lo preveda, visto che esistono già situazioni imbarazzanti per i trans “med”, che in alcuni casi, anche loro, hanno bisogno di visite mediche relative al loro corpo di nascita.

D’altro lato, ciò che è sostenuto dalla legge, diventa automaticamente autorevole. Se da domani io fossi Arturo (nome a caso), per la legge, forse con maggiore libertà potrei vivere il mio maschile estetico, senza preoccuparmi di impelagarmi in tutti quei casi in cui la gente, leggendo il mio documento al femminile, mi guardava male per la mia sfumatura alta, o per i peli sulle gambe (anche se qui andrebbe aperta una parentesi sul perché una donna non possa scegliere un’immagine di questo tipo se lo vuole, presentandosi come donna, dopo tutti questi anni di femminismo).
Probabilmente la legittimazione legale nel genere maschile mi spingerebbe a vivere liberamente un’immagine maschile senza mille compromessi, giri di waltzer, e compagnia cantante.
In varie occasioni, in cui ero “burocratizzato” al maschile (anche solo da una tessera ad un’associazione o ad una biblioteca), molte persone mi hanno trattato al maschile perché “se c’era scritto così doveva essere così”. Non poteva essere altrimenti (magari dipende anche dalla scarsa informazione sugli ftm), non era per loro concepibile che se in quella tessera c’era scritto Nathan, io in realtà mi chiamassi in altro modo, e fossi “altro” rispetto a “uomo”.
Per questo credo fermamente che, seppur dovrebbe essere importante dare alternative “soft”, che permettano di integrarsi a persone che preferiscono un’esposizione minore, ma vogliono limitare la disforia, sia importante anche dare la possibilità di cambiare nome e genere a chi si sente pronto, senza preoccuparsi in modo paternalistico di “come faranno, poverini, ad integrarsi senza il passing”.

Tutti questi ragionamenti richiedono una sensibilità ed un’esperienza che chi ha avuto la possibilità di confrontarsi a lungo con altri transgender, anche medicalizzati (e rivendico il ruolo dei gruppi di confronto dal vivo, dove nascono spesso soluzioni inedite per i problemi di noi trans afflitti dal binarismo sociale), ha, ma non si deve pretendere che la persona “non med” sia sempre sgamata, maliziosa, portata a compromessi “funambolici” come posso esserlo io, con grande dispendio di energia.
E a dirla tutta, avrei preferito di gran lunga destinare ad altro le mie energie, magari alla mia promozione come professionista, senza dovermi preoccupare di creare un “brand” diverso dal mio nome, proprio per non dover dare spiegazioni sul perché esso differisce dal mio nome anagrafico, che spunta ogni volta che devo fare una ricevuta.
Quanto, questo stress di dover escogitare strategie sul nome anagrafico e sull’aspetto, di dover comunque fare i conti continuamente con sesso biologico, nome anagrafico, anche quando volevo pensare alla mia immagine di professionista, o, non so, di musicista semiprofessionista che fa parte di una band, mi ha scoraggiato?
Quante persone non rettificate non vanno a votare? Quanto il misgendering, l’incomprensione, la difficoltà a dare spiegazioni convincenti quando non hai il passing, azzoppa le nostre vite, la nostra autorevolezza, la nostra felicità?

E diventiamo, intendo come comunità non med, dei nomi farlocchi su facebook, continuamente funestati da chiusure dell’account, osservati dai nostri amici facebook, anche semplicemente gay, come cangianti, instabili, inaffidabili, e così anche dal mondo che ci vede fuori, quello a cui facciamo fatica a dare un nome disambiguo, italiano, semplice, che finisce con A od O, quello che non sa se ci vuole come vicini di casa, compagni di banco, o di materassino in palestra.

E così sono qui, mosso dai miei sentimenti contrastanti verso gli altri non med. Forse mi sono esposto troppo io, 10 anni fa, spinto dall’allora dirigenza dell’unica associazione che sembrava inclusiva per persone come me. Forse loro stessi si aspettavano, da parte mia, una transizione canonica che sarebbe arrivata a breve, e volevano che mi “sperimentassi” da persona esposta, ma dopo 10 anni posso dirvi che vivere da non med esposto, in uno stato che non ha delle leggi che mi tutelano per la mia diversità (soprattutto nel mio caso, per il quale, se mi si considera da sesso biologico, sono pure visto come unA eterosessuale, quindi neanche appartenente al mondo LGBT),  che non si è “abituato” alla visibilità delle persone non med (proprio perchè tutti sono velati, è un cane che si morde la coda), quindi ride ad ogni nostro coming out, lo ignora, lo “posticipa”.

Pensavo che espormi per tutti questi anni avrebbe aiutato altri non med a trovare il coraggio di esporsi, ma ne sono passati tanti. Mi hanno contattato, tempestato di domande, spesso morbose, su come riesco a vivere la mia vita, si sono fatti due conti, e hanno deciso di tornare alle loro vite in tacco dodici, da attraenti ragazze cisgender, oppure hanno fatto transizioni canoniche, mandandomi foto del petto operato mai richieste, condividendo con me la loro felicità, paternalisticamente proponendomela, per poi sparire per sempre dalla mia vita a causa di una loro scelta di vita “stealth”, e anche per il fatto che non ero mai stato loro amico, ma solo un infopoint per scegliere la strada migliore per loro.

Da un lato sono arrabbiato con tutti i vari Noah, Etienne, Pierangelo, Matthias, Dieghino e chi più ne ha più ne metta. Dall’altro, effettivamente, i non med hanno altre possibilità?
Se si presentano socialmente per il loro genere d’elezione, al netto di un interlocutore particolarmente illuminato, succede quanto ho scritto, e se si limitano ad una semplice androginia estetica, devono comunque “limitarla” (deve essere sexy e ammiccante, come quella di alcuni cantanti rock eterosessuali o di alcune donne provocanti in cravatta e con taglio sbarazzino) per non venir visti come scherzi della natura, ed esclusi da occasioni professionali e di inclusione sociale.

A questo punto cosa dire a questi ragazzi?
Se nessuno di noi è visibile, l’opinione pubblica non si abituerà mai al fatto che esistiamo. L’immaginario del mondo trans sarà sempre legato al passing, e le persone penseranno che sia una conditio sine qua non per essere rispettati nel proprio genere.
Se però le persone non med uscissero dai loro account con meravigliosi cognomi esotici, e cominciassero a vivere apertamente come transgender, allora forse negli anni, nei decenni, le cose cambierebbero.
E’ avendo un viso gentile, una voce sottile, ma dicendo “sono uomo”, avendo una voce profonda e un viso spigoloso e dicendo “sono donna”, che nelle coscienze cambierà qualcosa. I primi ci sbatteranno il muso, come forse è in parte successo a me, ma col tempo non sarà più così strano.
Siete abbastanza altruisti per fare un sacrificio che forse non avrà effetto nelle vostre vite, ma in quelle di chi verrà dopo di voi?
Molti di noi non riusciranno ad essere genitori, ma forse anche noi possiamo vivere questo “passaggio di consegne” coi nostri figli putativi.

E ora lasciate andare in pensione un vecchio, largo a voi, giovani. Riprendete le fila dove io le ho lasciate, esponetevi, fate “transizionare” la società insieme a voi.

Misgendering e “non binary”

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Le vignette, come tutte le vignette, “perculano” chi ne è protagonista.
Qualcuno penserà che io abbia voluto prendere in giro il “possibilismo” con cui spesso, le persone non binary” non riescono ad essere risolute nel chiedere il genere che preferiscono. Qualcun altro penserà che abbia voluto “perculare” i/le veteromosessuali, pronti ad accomodarsi, se un minimo spiraglio lo suggerisce, ad usare il genere grammaticale che il corpo suggerisce.
Qualunque sia l’intento di questa vignetta, eccola per voi 😀

esportazione finale per simposio

 

La vignetta appartiene alla mia collezione di vignette per la rivista “Il Simposio”.

Passing & Misgendering

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Un rivisitazione di una vignetta americana sul misgendering

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Vignetta pensata e inchiostrata per la rivista “Il Simposio”

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Discorso dal palco del Milano Pride 2018 (percorsi transgender non med)

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Discorso dal palco del #MilanoPride
#civilimanonabbastanza

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Qui il video

come fai ad essere coerente con te stesso quando il tuo corpo dice il contrario di quello che sei?
questa frase è tratta da un noto monologo di un un famoso pioniere del percorso ftm: Davide Tolu.

Ci sono uomini e donne che sono uomini e che sono donne, senza che il loro aspetto li faccia apparire tali.
Molti di questi vorrebbero dichiarare al mondo di esserlo, ma come trovare il coraggio di farlo in un mondo che basa la definizione sociale di un uomo e di una donna sull’aspetto fisico?

Parlo a tutte le persone sotto a questo palco, che fossero portatrici di un’identità di genere divergente dalle aspettative generate dal proprio corpo.
Quante volte abbiamo provato vergogna a dichiararci uomini, donne, o “altro”, solo perché avremmo dovuto usare una voce acuta per dire “sono un uomo”, o una voce profonda per dire “sono una donna”?

Quante volte i primi a provare imbarazzo in un’affermazione così forte siamo stati noi? Quante volte abbiamo considerato ragionevole il ricevere un “no” ad una richiesta di rispetto della nostra identità di genere?

transgender

Io chiedo a voi tutte e tutti di fare questo atto di coraggio, di autodeterminazione, di riuscire a dichiarare al mondo ciò che siete, ciò che siamo.

So benissimo che, differentemente rispetto al percorso tracciato all’estero, di cui l’Argentina e Malta sono solo due dei tanti esempi, dove il cambio del genere e del nome anagrafico è permesso con una semplice richiesta amministrativa, in Italia viene richiesta ancora una medicalizzazione ormonale obbligatoria, e spesso, un aspetto rassicurante rispetto alle aspettative di genere, quando non anche l’adesione a stereotipi di genere.

Ma se è vero che la società non cambia senza la spinta delle leggi, le leggi non cambiano mai senza la spinta della società: c’è un’interdipendenza, e la nostra visibilità può fare da volano a questo cambiamento.

Chiediamo una legge che ci tuteli dalle discriminazioni per la nostra identità ed espressione di genere, e chiediamo una legge che ci permetta di avere un documento che riconosca la nostra esistenza, e lo chiediamo a voce alta, prendendo la parola per i diritti che ci riguardano e ci spettano, perché la presa di parola transgender, in questo momento, è fondamentale.
Se non io per me, chi per me?

Ed è per questo che dobbiamo fare uno sforzo, andare a votare anche se qualcuno ci costringe a fare la fila dal lato sbagliato, ma soprattutto, dobbiamo far sentire la nostra voce, in senso simbolico, ma non solo, ricordando che l’autorevolezza di una voce non si misura dalla corrispondenza al timbro che ci si attende.

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Concludo nel ricordare tre persone che negli ultimi anni ci hanno lasciato.
Il primo è il giornalista Alessandro Rizzo Lari, che è stato vicepresidente negli anni in cui sono stato presidente del Circolo Culturale tbigl+ Harvey Milk Milano, e che ne era la vera anima e il vero motore e a cui adesso abbiamo dedicato il nome del Circolo.
La seconda è Deborah Lambillotte, la più importante attivista transgender in Lombardia, e, se mi permettete, in Italia, che ha per la prima volta presentato la possibilità che una donna transgender possa anche amare altre donne.
Infine, voglio ricordare Corry Scifo, una persona che frequentava il Circolo Rizzo Lari, forse non un attivista nel senso classico del termine, ma sicuramente una persona che, nonostante la giovane età, ha lottato col sorriso con la sua malattia, portando questo sorriso e questa speranza in ogni nostra serata al circolo.

Infine, ringrazio il Circolo Rizzo Lari, ex Harvey Milk, e tutto quello che ho imparato negli 8 anni che ne sono stato presidente, e a Gianni Geraci, che, dandoci una sede, lo ha reso possibile e i colleghi attivisti del Progetto Identità di Genere, Monica RomanoLaura Caruso e Daniele Brattoli, ma anche ad altri attivisti transgender di Milano, con cui c’è stato sempre un aperto confronto, Gabriele Dario BelliAntonia Monopoli e Gianmarco Negri, per tutto quello che potranno darmi in futuro. Un grazie anche allo staff diProgetto GenderQueer e della rivista LGBT Il Simposio.

Il diario di un ragazzo ftm ma gay, di un ragazzo gay ma ftm.

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Cari lettori,

non so se sto per farvi leggere un saggio o una pagina di diario.
Sono un attivista di tradizione fortemente transgender: il vissuto prima di tutto, e dal vissuto, sempre dal vissuto, le riflessioni sociologiche.
Forse sarete abituati a saggisti, sociologi, antropologi di professione, ma quando questo blog è nato, alcuni temi non erano ancora arrivati in Italia, o forse non erano ancora stati “metabolizzati” in generale, e si è dovuto “inventare” un modo di parlarne.

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I miei primi contatti con la comunità LGBT sono stati, non ha senso negarlo, virtuali.
Vivevo in un paese in provincia, in un’Isola, ma provenivo da una delle prime famiglie “illuminate” che aveva internet, e io ero negli anni più importanti della mia adolescenza.

Non cercai siti transgender, forse non ce n’erano neanche. La mia consapevolezza al maschile non aveva “trans” nel suo bagaglio di parole. Le trans le avevo viste solo nei film di Almodòvar, al cinema (Tutto su mia madre). Mi ero sorpreso di come queste donne trans potessero essere anche “lesbiche”, così come mi ero sorpreso di un ragazzo ftm, assolutamente eterosessuale, che in modo sfuggente aveva partecipato ad un programma di Alda De Usanio, si chiamava Antonio, per poi sparire nell’oscurità senza che internet ne portasse traccia. Ero stato censurato nel tentativo di parlare di questi due spunti dati dai media per leggere me stesso, e così li avevo accantonati, forse immortalati in una pagina del mio diario virtuale di allora, per passare ad altro.

Era l’esperienza gay maschile quella che sentivo più vicina a ciò che provavo io. Ricordo un professore, un omosessuale velato, la cui omosessualità era il segreto di pulcinella, e a cui piacevano (anche se non credo sia andato mai “oltre“) i giovani corpi dei miei compagni del triennio del liceo. Esaltava, nel suo insegnamento di letteratura latina, gli amori fugaci tra uomini senior e ragazzi dai lineamenti gentili, e io fantasticavo immaginando di essere un Antinoo.
In quegli anni forse ho provato un’attrazione più sana che quella, penso del tutto mentale, per questo strano professore in là con gli anni: un mio compagno di scuola, non della mia classe, effeminato. Ci scrivevamo su MSN, inizialmente gli avevo fatto uno “scherzo” con un account al maschile, per cui si era preso una cotta (ai tempi pensavo che fosse uno “scherzo”, ma in realtà quei momenti erano gli unici in cui mi sentivo davvero me stesso). Ci vedevamo di rado, e c’è stato anche qualcosa tra noi. Qualche bacio, lui che mi accarezzava i capelli della nuca mentre “facevo finta di dormire” appoggiando la testa su un tavolo. Eravamo entrambi privi di esperienze sessuali e a volte mi chiedo se quelle esperienze maldestre e mai “genitali” che avevamo fatto fossero state solo un modo di entrare in contatto io con la mia disforia e lui con la sua omosessualità, allora ancora latente.

Nel 2002, a cavallo tra il mio diploma e il mio trasferimento a Milano, nacque Gay.tv. Ero già stato in chat luixlui, quelle instabili chat java di fine anni 90-inizio 2000, e anche in tutte quelle mailing list di yahoo in cui i ragazzi gay si conoscevano e si sfogavano sulle loro vite disastrate e represse.
Tutto questo, però, e dobbiamo essere onesti a rivelarlo, faceva parte della mia vita in modo incostante. Passavano settimane in cui prendevano il sopravvento i problemi di salute, o familiari, oppure la fretta di dare gli esami in tempo, o l’amore per un bel ragazzo androgino dai lunghi capelli, come lo sono tanti, anche eterosessuali, in quell’età, e il cercare un modo per piacergli senza tra dire me stesso.

Poi c’erano le sperimentazioni. Quella volta ad un concerto metal in cui, anche se avevi i capelli fino alle spalle, una maglietta nera con una stampa heavy metal aveva più o meno mascherato il petto, ridotto grazie alla mia magrezza di allora, e per poche ore avevi provato un’inattesa esperienza di “passing”, e ti eri fatto dei film su come sarebbe diverso vivere da ragazzo. Ma quell’esperienza non la chiami “trans“, perché per te quelle cose che senti dire, raramente e sempre in modo grottesco, sui media, sul “cambio di sesso“, non ti appartengono.

E poi la chat, la chat gay, dove puoi essere Juri, o Gabriele, o anche un banalissimo Marco, per qualche ora, sentendo il desiderio del ragazzo che c’è dall’altra parte. Riesci a sedurlo con le tue parole, che percorrono un corpo, quello del giovane uomo, che conosci benissimo, che desideri tantissimo, che desideri avere, ma desideri anche possedere.
E poi c’erano di disegni. Colori a cera, ad olio, matite, pennarelli, rapidograph: tutto per scolpire una spalla, una schiena, anche una semplice mano maschile, e tante foto rubate, in viaggio, sui mezzi, per strada, a quei ragazzi dai lunghi capelli, dai volti timidi, che mi apparivano così dolci, gentili, sensibili, tanto da poter apparire innocui ai miei occhi di giovane persona che voleva sfuggire dai ruoli dicotomici, dall’essere in coppia con un maschile forte, che avrebbe richiesto un femminile prorompente, che non desideravo e di cui non ero capace.

Sono passati anni, anni che ho passato in una relazione con uno di questi ragazzi “gentili“, che aveva avuto già una ragazzaccia tomboy, e per cui il mio aspetto, il mio “piglio“, la mia personalità non era un problema, ma un valore aggiunto, sempre che poi, socialmente, la mia identità, che era stata da me tratteggiata e disegnata sempre meglio e sempre maggiormente, non fosse esplicitata, per non “umiliare” il suo ruolo di parte maschile della coppia, unica parte maschile.

La nostra relazione finì quando l’impulso di fare attivismo, una volta laureato, un pò di fretta e in anticipo (solo l’indipendenza economica mi avrebbe tolto dalla clandestinità identitaria), divenne prepotente. Legavo all’attivismo il desiderio di potermi vivere come ragazzo gay.

Sarà stata la giovane età, che, una volta tagliati i folti capelli castani, che arrivavano oltre le spalle, mi consentiva una discreta androginia, ma trovai un luogo dove come ragazzo gay, in mezzo ad altri ragazzi gay, tra cui Stefano Aresi, allora presidente, potessi esistere.
Non mi addentrai al di fuori: c’erano persone anziane, regine del movimento gay e, soprattutto, lesbico, per cui io dovevo essere solo e soltanto una ragazzina etero, e non dovevo permettermi di invadere il loro mondo.
In quegli anni non c’era un’associazione trans. Ma fu un ragazzo gay, un attivista gay, non lo dimenticherò mai, a dirmi “Tu sei trans, sei un ragazzo, un ragazzo come me”.

Seguirono mesi di euforia di genere, nello sperimentarmi al maschile. La mia iscrizione su gayromeo come ragazzo, i tanti ragazzi che mi contattavano, il mio primo fidanzato gay, un attivista. Non sapeva nulla di trans, e i suoi riferimenti culturali erano proprio quegli attivisti storici che non avrebbero mai capito una situazione come la mia.
Non ero ancora molto maschile, ma lui sapeva vedermi uomo, e mi tenne la mano quando andammo alla mia prima proiezione di un documentario trans, dove vidi per la prima volta delle persone trans (si trattava di Antonia Monopoli, Porpora Marcasciano e Mirella Izzo). Mi tenne la mano, e, mentre si parlava di fidanzate di ftm, fece una domanda sui fidanzati degli ftm. Mi commosse tanto, e anche se la nostra storia durò solo quattro mesi, lo ricordo come il mio primo amore gay.

Poi venne un ragazzo di gayromeo, spregiudicato e libertino. Con lui tante peripezie, mentre io mi vivevo da attivista intransigente, figlio di una visione “in giacca e cravatta”, assorbita in quegli anni da chi mi fu padre in tema d’attivismo, e lui così libertino. Mi sembrava di vivere quella vita, anche se più che altro la vivevo ascoltando le sue narrazioni: una vita fatta di incontri fugaci, poliamore, chat sessuali, fatti davvero assurdi che fa a chi vive alla giornata tra un incontro e l’altro, e di cui rimanevo sopreso, però trattenendomi (perché la sorpresa mi riportava alla mia educazione xx, da cui mi ero faticosamente staccato).

Poi è arrivata la fiaccolata. La grande fiaccolata per una legge contro l’omotransfobia. Eravamo in quattro, inesperti e spiantati. Qualche vecchio attivista ci aiutò guidandoci coi contatti stampa, indicandoci quali permessi chiedere. Fu lì che conobi Deborah Lambillotte, quella donna trans di cui avevo sempre sentito parlare da Alessandro Martini, e grazie alla quale aveva compreso la mia definizione di ftm gay, ma i nostri sguardi si incrociarono per pochi minuti, perché la reincontrai molti anni dopo su facebook, non facendo in tempo a rivederla, vista la sua prematura scomparsa.

Poi gli anni della presidenza, di cui in questo blog ho tanto parlato. Ma anche gli anni dei grandi amori, delle grandi convivenze, della quotidianità gay. Un compagno gay con cui convivere, avere altri amici gay, altre coppie gay con cui parlare di banalità, come la gestione della convivenza. Gli anni in cui il milk si trasformava in un’associazione Transgender e Bisessuale, e in cui la stabilità sentimentale e il cambio politico mi ha allontanato da quel mondo gay di cui sono diventato “figlio” prima di diventarlo del mondo trans, ma di cui mi sono sempre sentito un figlio illegittimo, un figlio indesiderato, un ammesso col permesso di soggiorno, revocabile in qualsiasi momento.

Quando sono diventato attivista, non esisteva una cultura “ftm gay”. Quasi tutti gli ftm gay erano bisessuali. Quasi tutti desideravano il corpo maschile, ma alla fine preferivano il contatto con quello femminile perché quello maschile dava loro disforia.
Ho provato qualcosa di simile con un mio ex fidanzato di Bolzano, molto androgino, piccolo, delicato, le cui mie manone ingombravano la sua intera schiena nell’abbraccio, facendomi sentire (come percezione fisica) molto grosso e molto uomo. Tuttavia, quando lo baciai, mi sembrò quasi di baciare qualcos’altro dall’uomo, e per me che non ho esperienze con le donne, narrare questo è difficoltoso. Per quanto un esile corpo molto femminile mi faccia sentire uomo, molto uomo, grazie alle fantasie accese dagli stereotipi, continuo a provare attrazione verso altri tipi di uomo gay e bisex.

E così, dopo essere stato questioning, aver dovuto trovare strumenti e compromessi per esistere, dopo essere diventato prima un attivista gay, poi un attivista ftm, dopo aver cercato di colmare un vuoto, che mi logorava, in una cultura ftm, politica e saggistica, che mancava, ed averlo fatto coi miei scarsi strumenti (del resto ho studiato altro), ho infine desiderato di porre fine alla mia solitudine come uomo ftm e gay, senza riuscirci.

Molte volte, sempre meno negli anni, gli uomini gay, taluni, non giovani, hanno cercato di marginalizzarmi e colpirmi. Offesi dal fatto che un ftm si possa dire uomo, e anche uomo gay, in quanto attratto dagli uomini, sono scaduti in insulti personali, definendo me, e gli altri ftm gay, come “donne etero“, dicendo che noi “usurpavamo” la definizione gay.
Eppure io avrei voluto degli ftm gay con cui confrontarmi.
Sono diverso sia dai gay cisgender, sia dagli ftm etero.
L’orientamento sessuale non è qualcosa che influisce solo su chi ti porti a letto o chi ami: cambia completamente le tue relazioni e il tuo modo di relazionarti.
Dopo anni in gruppi di autoaiuto, negli anni in cui, tranne poche amicizie, tra cui Alessandro Rizzo, le mie amicizie erano più che altro T, ho capito che il confronto con gli ftm etero non mi completerà mai abbastanza, così come non mi completa quello con le donne trans, che paradossalmente (soprattutto se mtf lesbiche, come Monica Romano e Laura Caruso), sento più vicine a me rispetto agli ftm etero.
Spesso sento in loro un modello, quello del maschio eterosessuale cis, che io sento lontano, da cui da giovane mi sono sentito oppresso. So che un gay può essere misogino a modo suo, forse anche di più, e ne sono stato vittima, bersaglio di chi come uomo T non mi ha mai voluto accettare, ma comunque ho sempre sentito una mia forte appartenenza all’universo maschile, e in particolare a quello maschile gay.

Questa nuova tendenza dell’attivismo LGBT a mettere al centro il femminile, il femminismo, mi genera disforia. Ho sempre sentito un forte bisogno di confronto col maschile, col maschile trans, col maschile gay.
Avrei voluto che si facesse “subcultura” come ftm gay, per l’esperienza che ci accomuna sia di trans (e so bene che è importante, prepotentemente importante), sia di gay (e non si creda che questa identità sia per noi meno influente di quanto lo è per i gay cis).

Penso ad alcune battute sentite in luoghi di lavoro del mio passato, dove il mio essere “veramente” uomo era sotto indagine, o si chiedevano come usassi la protesi con gli uomini, se fossi attivo o passivo, e quanto fossi disposto a pagare per fare provare esperienze passive a questi machi etero da strapazzo. Oppure l’insistenza nel farmi provare sessualmente la donna, per essere messo un po’ meglio nella scala della diversità. Battute simili venivano rivolte ai gay cisgender di quegli studi professionali: non alle donne, non alle trans, non alle lesbiche. Venivo coinvolto nella gara a chi ce l’aveva più grosso, più lungo. Erano luoghi dove avevo deciso di non nascondere nè il mio essere trans ftm, nè il mio essere gay, anche se sarebbe stato comodo presentarmi nella condizione standard di persona che fa un determinato percorso per poter raggiungere l’amore eterosessuale per la donna, un pacchetto semplice da capire e confezionale, ma che avrebbe offeso il mio complesso e profondo modo di identificarmi col maschile senza avere bisogno che la donna completi, con la sua presenza accanto a me, la mia virilità. Non è forse una riflessione che, magari un po’ diversamente, fa un ragazzo gay nell’accettarsi come uomo anche se non etero?
Spacciarmi per etero avrebbe ridotto, ai loro occhi ipovedenti, la mia identità maschile a una performance per attrarre di più la donna, o le donne in generale, lettura ingannevole e offensiva per i tanti ftm eterosessuali che non si identificano certo come uomini per fare manbassa di fanciulle.

Avrei davvero voluto potermi confrontare con altre persone ftm e gay, ma negli anni, a parte account di facebook spariti dopo pochi mesi, non ho avuto presente fisse e durature nella mia vita. Avrei voluto gestire con loro il difficile coming out, fatto da un me giovanissimo, con una famiglia che si è abituata al tuo timido, e innocuo, sguardo sul maschile, limitato a qualche poster degli efebici Take That, avrei voluto gestire col loro supporto i complicati coming out sui luoghi di lavoro, le mie prime relazioni coi ragazzi gay quando ancora non eravamo, noi ftm gay, una categoria “protetta” all’interno di gayromeo, dove chi ha gusti di nicchia può venire a pescarci, eppure sono stato solo, sono stato a mia insaputa “padre” di una cultura dopo averne tanto ricercato uno io, un padre politico che non è mai arrivato, nè gay, nè trans.

Apolide, figlio di nessuno, mi sono dovuto prendere uno spazio che non era mio, spingendo e spintonando, in un mondo dove chi ha il mio corpo viene zittito, silenziato, e deve alzare la voce per prendere la parola, che non ha mai la precedenza per passare.

Ora che mi sono ritirato mi chiedo se ho lasciato un segno, un solco, se la mia voce non molto profonda ha lasciato un’eco nel movimento, e in chi verrà dopo di me.

Vorrei immaginare nuove generazioni di ftm gay, non vagamente pansessuali, ma gay, prendere in mano la possibilità di fare cultura come ftm gay, e non farsi dire da nessuno che non sono abbastanza trans, o abbastanza gay, che non hanno il diritto di parlare come uomini, o come uomini che amano gli uomini.
Avrei voglia di vedere nuove generazioni di ftm liberarsi da quel triste retaggio dell’educazione femminile che ci porta a non poter dire che un corpo ci piace in un certo modo, se ha determinate caratteristiche fisiche, esattamente come è concesso agli uomini biologici, etero o gay che siano, senza doversi nascondere negli inculcati “ma l’amore è cieco, quando ci piace l’anima“.
Vorrei che ci fossero ftm come me, fissati con la politica e poco inclini a saune e “porcilai” (adoro questa parola gergale, che uso assolutamente in modo neutro), ma che ci siano anche ftm con pc pieni di porno di Lucas Kazan e cellulari pieni di foto di manzi nudi. Vorrei che questi ftm gay trovassero un loro modo di scheccare e di fare genderfucking senza chiedere il permesso ai gay cisgender, e senza chiederle permesso agli ftm etero.

Vorrei che gli ftm gay producessero arte, racconti, letteratura, saggistica, e non quei disegni manga in stile terza media che vedo su Deviant Art. Vorrei vedere dei cognomi accanto a quei nomi, ahimè, strani ed esotici, di cui sono il primo portatore. Vorrei vedere fierezza. Vorrei che i ragazzi ftm gay uscissero fuori, e che non si lasciassero spaventare, che tirassero fuori le unghie (laccate?) e che tirassero forcine.
Vorrei che si facessero valere, in un momento in cui io, dopo la morte del mio vero amico gay, Alessandro Rizzo, mi sento stanco, demotivato.

Oggi è il primo San Valentino da single. Curioso che sia finito a scrivere questo papiro sull’amore omosessuale transgender.
Storyteller? Blogger? Saggista? Incapace di mettere una fine? Logorroico? Spero che qualcuno sia in ascolto, e che la mia storia, al di là delle sue valenze narrative e personali, possa aver acceso qualche ricordo in voi lettori, cis e trans.

Stanotte abbraccerò un orsetto di peluche come quando ero alle scuole elementari, e magari una magia lo trasformerà in un Teddy Bear, che potrebbe tenere compagnia ad un ftm gay “divorziato” per la notte.

P.s. Romeos, meraviglioso film del 2011 che narra la vita din un ftm gay


Un “esperanto” linguistico tra attivisti LGBT è possibile?

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Cari lettori,
come al solito mi è impossibile parlare della questione senza parlarvi di me, come giovane ftm e come giovane attivista.
Le due cose sono coincise nel tempo, so che non dovrebbe andare così, che si dovrebbe fare tanta autoanalisi e tanta introspezione prima di prendere in mano una bandiera o un megafono, ma non siamo sempre totalmente padroni degli avvenimenti delle nostre vite.

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Per me non è esistita una fase LGBT feste e locali, e la mia esistenza LGBT è coincisa con l’associazionismo, con l’attivismo, con le quintalate di libri che gli attivisti più adulti mi passavano sperando che mi facessi una coscienza politica, ma in cui cercavo anche risposte su di me.

Non provengo dal femminismo: ai tempi non “si usava“. Ai tempi i giovani trans leggevano gli autori e (prevalentemente, ahimé) autrici trans, ed è su quelle pagine che trovai un linguaggio per me nuovo, ed inedito, per parlare in modo disambiguo e chiaro di ciò che ero fisicamente e di ciò che ero al di là del mio aspetto e della biologia.

Molti autori transgender, Mirella Izzo, Monica Romano, Martine Rothblatt, Diana Nardacchione, ma anche tanti autori ed autrici cis, che parlavano di storie trans, oppure persone che, ahimè, venivano dal mondo della psicologia, mi introdussero ad un linguaggio per cui si usava “sesso” per parlare della realtà genetica e biologica dei corpi (di tutti gli animali, umani e non), e “genere” per parlare invece dell’identità della persona rispetto alla tematica dei generi.

Per una maggiore disambiguità, aggiungo che maschio e femmina riguardavano i sessi biologici (come, appunto, anche nel mondo animale), uomo e donna le identità di genere.

Un altro concetto, soprattutto a me che provengo dal percorso ftm, mi fu di molta utilità per capire me stesso nei miei primi anni di percorso: quello di ruolo di genere.
Molte persone, spesso giovanissime e non molto scolarizzate, che credevano di avere una tematica transgender, spesso persone in direzione ftm, non hanno ben compreso la differenza tra “identità di genere” e “ruolo di genere”, ed hanno confuso una tematica relativa ai ruoli e al desiderare di poter incarnare un ruolo sociale, precluso o quasi alle donne per ragioni di binarismo, con l’avere un’identità di genere maschile.

La differenza tra ruolo di genere e identità di genere è complessa da spiegare a chi non ha preso parte al dibattito che ha messo questi temi al centro della riflessione, anche perché, al di fuori di queste nicchie di attivismo, chi è cisgender (non transgender, termine che uso assolutamente in modo neutro, come ha sempre fatto la letteratura trans, prima della moda intersezionale) ha un’identità di genere, coerente col sesso biologico, che dà per scontata (così come molti etero danno per scontato il loro desiderio eterosessuale), ma forse questa  differenza può essere spiegata con degli esempi:
una donna che desiderasse tanto diventare ufficiale dell’esercito, ma che si identifica come donna, che è arci-stufa delle disparità di genere, ha sicuramente una tematica di ruolo di genere, e non di identità di genere. E’ quindi una donna cisgender, e questo non toglie nulla alle sue ammirevoli battaglie per l’emancipazione dai ruoli: semplicemente non è trans, e non ha disforia di genere.
Il fatto che ad un uomo piaccia il calcio riguarda i ruoli di genere. Il fatto che ad una donna possa piacere truccarsi, che sia meno esplicita nel suo desiderio sessuale, riguarda i ruoli di genere, e sono comportamenti e aspettative che variano nei tempi e nei luoghi, socialmente costruiti, e, si spera, anche in evoluzione.
I ruoli di genere sono quindi una tematica che è “patrimonio dell’umanità” e non riguarda sicuramente le persone transgender e basta, anche se riguarda anche loro.
Un ftm, ad esempio, si è dovuto prima scontrare con le aspettative sociali che lo hanno riguardato per via del suo sesso biologico (le persone che lo ricordavano si aspettavano un ruolo di genere al femminile), poi con le aspettative sociali che lo hanno riguardato per il suo genere d’elezione (quelle persone che, visto il suo coming out e/o transizione medicalizzata e non, si aspettavano da lui un’adesione al modello maschile in tutti i suoi stereotipi).
Le persone cis e quelle trans avrebbero tanto da dire sui ruoli di genere, sui tranelli (noi trans lo chiamiamo “il canto delle sirene“) che entrambi i mondi, cis e trans, subiscono, nel rischio di cadere negli stereotipi, ma anche sulla “legittimità” dei ruoli (l’obiettivo è che ogni espressione di genere possa essere lecita, e non solo le polarità più “rosa” e più “celesti”, e che non ci sia più bullismo ed ostilità verso chi tende a ruoli “diversi”, e non è certo l’obiettivo la cancellazione di ogni espressione “binaria” per diventare tutti “fluid”).

Torniamo però all’identità di genere, al genere d’elezione, e a concetti che noi trans, nella nostra saggistica e letteratura, non priva di riferimenti convenzionali sociologici esterni alla nostra subcultura, abbiamo dato per assodati per anni per generare la nostra cultura e comunicare tra noi con un “file universale d’interscambio”.
Altre correnti di pensiero, ad esempio alcuni filoni di femminismo, soprattutto i “neofemminismi”, non pongono l’accento sulle differenze tra identità di genere e ruolo di genere (una differenza che invece era ben chiara alle pioniere del femminismo, che sono state “maestre”, dirette e indirette, delle prime generazioni di attiviste trans), e ciò riduce, ai loro occhi, il percorso trans a una mera ricerca di un nuovo “ruolo sociale” (o sessuale), ottenuto “rinnegando” la biologia, compiendo una “connivenza” con gli appartenenti al sesso opposto (critica rivolta soprattutto se non esclusivamente agli ftm, argomento di cui ho trattato ampiamente nel blog in passato, vedi transmisandria).
Se però il mondo neofemminista si mettesse in “ascolto” su cosa è l’identità di genere, come concetto indipendente dal ruolo (ruolo che del femminismo è, giustamente, oggetto di studio), forse noi trans sembreremmo meno dei “personaggi in cerca d’autore”, privi di riferimenti culturali, di nostri autori e intellettuali di riferimento, e bisognosi di sentirci dire “Studia!”, dove quella parola invita a studiare gli autori di un’altra subcultura (ad esempio, quella femminista), come se non ce ne avessimo di nostri.

L’identità di genere è un concetto che contiene una parola chiave che sembra essere rimasta inosservata negli ultimi due anni: identità.
Non si tratta semplicemente di essere portatori di un genere d’elezione, magari non corrispondente a quello che si attende da un sesso biologico: si tratta di identità.
Molte persone potrebbero “apparire”, agli occhi di un attivista transgender abituato a scorporare il sesso biologico dal resto, di un “genere” divergente dal sesso biologico. Parlo di persone che conducono felici vite cisgender, e a cui non verrebbe mai in mente di definirsi altro rispetto a donna/femmina e uomo/maschio, persone probabilmente persino eterosessuali (non che questo c’entri, ma giusto per rafforzare il concetto).
E’ l’identità che fa la differenza nell’avere o meno una tematica di “identità” di genere, ovvero l’identificazione non tanto col sesso opposto (e questo sgombra il campo dagli attacchi di chi pensa che una persona transgender neghi la sua origine biologica, il suo sesso biologico di maschio o di femmina), ma col “gruppo” sociale degli uomini o delle donne (termini che, come da disclaimer, questo blog usa per indicare le identità di genere e non i corpi).

Forse qualcuno (e questo dipende, ahimè, dalla recente confusione tra subcultura trans e subcultura queer, dovuta anche a chi è sostenitore/trice della teoria queer essendo nello stesso tempo anche una persona trans) pensa che la disforia di genere possa portare una persona a negare il suo sesso biologico, spinta dal desiderio di non essere trans, di essere semplicemente del sesso corrispondente al proprio genere d’elezione, ma non è così.
Quando ero molto giovane, i miei strumenti culturali di allora mi spinsero a darmi risposte incoraggianti: non ero io ad essere sbagliato, ma la società: erano loro che dovevano “imparare” a vedere in me un uomo, ad assecondarmi dopo la mia dichiarazione di appartenenza al genere maschile, e che non c’era nulla di sbagliato in me. La natura, a mia detta, creava persone di biologia xx che erano donne (come identità di genere), e uomini (persone come me, uomini transgender), e che non c’era nulla di sbagliato negli uomini xx (uomini che geneticamente hanno i cromosomi xx, come le donne cisgender), ma che andava fatto un lavoro culturale affinché gli uomini xx siano sempre più visibili e inclusi nella società, con una corretta socializzazione coerente col genere d’elezione, e nei luoghi di lavoro.
Oggi, forse perché ho imparato a tenere a bada la disforia, e a “sopportare” tutte le narrazioni realistiche che tengono conto del fatto che il mondo fuori dalla nostra nicchia ragiona su parametri estetici e biologici, sono maggiormente portato a considerare ragionevole la posizione di chi ha difficoltà a barcamenarsi in quest’universo di termini e convenzioni e di portare attenzione al non “misgenderare” (rivolgersi declinando coerentemente col sesso biologico e non col genere d’elezione) le persone trans, essendo stato educato per un’intera vita a non “misgenderare” le persone cis (chi non ha mai raccontato, con imbarazzo, di aver dato, per errore il maschile ad una vecchia signora, accorgendosi solo dopo che era una donna, e considerare tale gaffe come il peggiore affronto che si potrebbe fare ad una dolce signora?).
Ecco, se dovessi descrivere oggi la disforia, almeno la mia, non la descriverei come un “delirio genetico” che mi porta a pensarmi come un appartenente al sesso opposto al mio (non mi descriverei mai come un maschio biologico, e se lo fossi credo che questo blog neanche lo avrei mai aperto!), ma come in bilico tra il desiderio di essere percepito come un qualsiasi altro uomo e la consapevolezza, politica e personale, che spesso non sarà così, e che mi è richiesto un “ragionevole” sforzo per fare cultura sul mio tema (se non io per me, chi per me?).

A qualcuno non piacerà che si usi maschio/femmina per indicare i corpi, e uomo/donna per indicare i generi (d’elezione per noi trans, generi e basta per tutti gli altri). Tuttavia, ritengo necessario che si decida un linguaggio comune, non dico tra LGBT e femministe, ma almeno tra persone LGBT.
Onestamente non so se altri percorsi e altre subculture hanno chiamato, magari, uomo e donna i corpi, usando maschio e femmina, magari, per indicare dati più culturali, o di attitudine sessuale. Un mio amico gay di 43 anni (quasi di un’altra generazione rispetto alla mia, non che le cose siano molto cambiate) tiene sempre a precisarmi che la parola “maschio” l’ha sempre urtato, poiché nel suo percorso di gay, bullizzato dai 5 ai 20 anni, si era accettato come uomo E gay, distaccandosi dall’identità di “maschio”, termine che i suoi coetanei usavano per descrivere l’uomo eterosessuale aderente al machismo.
Anche una mia amica femminista ha sempre associato a “femmina” dei concetti negativi, quasi “animali” e di disprezzo, e si è sentita invece valorizzata quando ha cominciato a pensarsi come “donna” (e infatti penso che in questi casi si possa parlare di un percorso di identità di genere in realtà non dissimile a quello che fanno i trans, in cui la persona cis prende consapevolezza del suo genere e del suo valore al di là della semplice appartenenza biologica).

Penso che sia difficile, per chi ha sempre dato a “uomo” e “maschio”, a “donna” e “femmina”, dei significati diversi rispetto a quelli elaborati dalla sociologia in generale, e dalla subcultura trans in particolare, ma con un piccolo sforzo possiamo trovare un linguaggio comune che sgombri il campo da continui equivoci che ci distolgono da ciò che ci unisce facendoci concentrare su ciò che ci divide o, peggio, su ciò checrediamo” ci divida.

L’epoca intersezionale, su cui sapete bene cosa penso (l’intersezionalità doveva essere un’opzione, è invece diventata obbligatoria e adesso viene quasi denigrato chi invece vuole concentrarsi solo sul suo tema o su alcuni temi), ha creato gravi ingerenze, per le quali diverse persone cis hanno ritenuto legittimo e accettabile dire che una donna trans non è una donna e che un uomo trans non è un uomo (cisplanning).
Non voglio entrare nel merito del fatto che questa cosa è stata fatta poiché le loro subculture usano in modo diverso “uomo, donna, maschio e femmina”. Io penso che in alcuni casi ci sia un atteggiamento che sarebbe errato definire “transfobia”, e che sarebbe più corretto definire come un’avversione alla tematica transgender, che tocca tanti nervi scoperti della riflessione sui generi portata avanti da persone cis, omosessuali ed eterosessuali che siano.

Noi transgender reclamiamo la “presa di parola trans”, sul nostro tema, che è quello dell’identità di genere, del genere d’elezione, e rifiutiamo ogni tentativo di sovradeterminazione da parte di altri soggetti politici e non.

Tuttavia, a parte casi estremi, di persone spinte più dall’avversione per la condizione trans in generale, che dalla voglia di argomentare, c’è un’enorme “zona grigia” di intellettuali LGB che portano avanti istanze simili a quelle che portiamo avanti noi, punti di vista simili a quelli che portiamo avanti noi, e con cui sarebbe stupido non dialogare per un banale problema di linguaggio.

La confusione tra sesso, genere, maschio, uomo, femmina, donna, ha creato un cul-de-sac di incomunicabilità che ha fatto sì che si arenassero battaglie importanti, come quella del riconoscimento anagrafico di persone in percorsi transgender non canonici e non medicalizzati.
Se i termini non sono comuni e condivisi, qualcuno potrebbe pensare che un ftm pensi di essere di “sesso” maschile, o che voglia essere riconosciuto, magari al livello sanitario, come appartenente genetico al “sesso” maschile, e questo equivoco di fondo non porterà nulla di buono, se non ad arenare le richieste di quell’ftm, magari portatore di un corpo xx ancora identico a quello delle donne (persone che come corpo sono femmine, esattamente come gli ftm, ma che diversamente dagli ftm sono, come genere d’elezione, donne e non uomini), che però vuole sbarazzarsi di un imbarazzante nome anagrafico che si porta dietro nel mondo del lavoro, alle poste, per ordinare un pacco per corrispondenza, alle riunioni di conominio e così via.

Se il linguaggio non è condiviso, se non riusciamo, solo al fine di comunicare, a chiamare “uomo e donna” i generi d’elezione, “maschio e femmina” i corpi biologici, non riusciremo neanche a comprendere le relative letterature.

Mi rendo conto di risultare presuntuoso a chiedere che lo sforzo venga da fuori, che sia chi ha chiamato sempre maschio/femmina i generi e uomo/donna i corpi a venire incontro ai trans. Non dico che la soluzione sia quella, anche se la troverei semplice e funzionale dal mio punto di vista: potremmo anche trovare termini nuovi, ma prima di perderci in un caleidoscopio di nuovi termini, magari importati da qualche narciso influencer d’oltreoceano, penso che si possa fare uno sforzo per comprenderci a vicenda:
una donna trans non sta dicendo nessuna eresia biologica se si definisce donna, visto che nella subcultura trans “donna” riguarda il genere d’elezione. Non sta togliendo nulla alle donne biologiche e cisgender.
Allo stesso modo, non c’è bisogno di inorridire se un uomo trans ha avuto un figlio nel modo consentito dalla sua biologia, perché non è un “maschio” ad aver partorito.

Insisto a portare esempi per i quali trovare un linguaggio comune porterebbe a smussare ciò che ci divide per tornare a dialogare sui temi comuni.
Sono un testardo, al limite del persecutorio, nel cercare dialogo con chi apparentemente è portatore o portatrice di visioni divergenti da quelle che ho portato io in passato e forse porto adesso, ma se c’è una cosa che mi hanno sempre riconosciuto è che questi enormi sforzi a cui mi sottopongo alla fine un risultato lo portano, che sbattendo la testa su un portone mille volte, prima o poi si apre.

So che qualcuno è in ascolto, ne ho già avuto segnali nelle ultime settimane, e so che c’è qualcuno che leggendo queste mie parole non penserà che siano un “sovranismo” trans, una richiesta di omologazione alle parole che abbiamo fatto nostre e rielaborato. So che qualcuno tenderà la mano, e che capirà che non vuole essere una richiesta di apprendere la nostra lingua, ma del creare insieme un esperanto linguistico che ci porti a trovarci a metà della distanza tra noi, un lavoro lungo, non privo di momenti dolorosi, in cui si apriranno reciproche ferite personali e politiche, ma un lavoro mai più di adesso, con questo oscuro clima politico, necessario.

Magari le mie parole si perderanno nel cyberspazio e io sarò uno dei tanti che si è svegliato presto per il caldo e ha delirato su un blog, ma se non è così, se qualcuno dei miei lettori, magari tra quelli che hanno messo il “follow” per monitorare questo “queer” (queer?) dalla testa calda, trovi queste parole interessanti, e possa pensare che questo folle lavoro che propongo, che durerà inevitabilmente mesi e stagioni politiche, sia utile e possa portare qualcosa di buono.

Buon compleanno, Progetto Genderqueer…storia ed evoluzioni di un progetto, che diventa 2.0

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8 anni di blog, di scelte linguistiche, di evoluzioni, raccontate da colui che ha iniziato quando era ragazzo, e che adesso guarda quegli anni con un sorriso. Le motivazioni della scelta, all’epoca, di un nome di rottura, la marginalizzazione subita come transgender non canonico, e l’approdo al 2.0, come approdo a nuove visioni ed interpretazioni.

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Ricordo l’apertura di questo blog come fosse oggi.
Avviene in un’epoca storica in cui internet è già ben radicato come strumento e agevola contatti e conoscenze, ma viene visto ancora come un mezzo per approdare poi ad una frequentazione o uno scambio di idee dal vivo o “migrato” in strumenti diversi (anche solo chiamate skype, con cui mi sono confrontato, in quei primi anni, con attivisti come Paolo Valerio o Mirella Izzo, che non erano spesso di passaggio a Milano).

L’idea di Progetto Genderqueer non è nata da un giorno all’altro: anni prima, quando Facebook permetteva che gli account fossero dedicato a un progetto e non “nominali” (nome+cognome), ho mosso i miei primi passi nel mondo dell’attivismo tramite quell’account facebook, l’account twitter (Alessandro Martini mi aveva convinto che il futuro sarebbe stato twitter) e la mail ad esso collegata, con cui ero iscritto su Yahoo Answers, e in una serie di mailing list (strumento importante di condivisione di pensiero, in quegli anni) a tematica squisitamente trans (disforia, androidi generici, ftm italia) o LGBT (spazio queer, e via dicendo).

I miei contatti col mondo dell’attivismo erano stati molto precedenti all’apertura del blog: escludendo il virtuale, direi il Milano Pride 2008, il Genova Pride Nazionale 2009, la militanza al Milk come responsabile del progetto blog e Ufficio Stampa del Treviglio Pride.

Non sapevo cosa sarebbe arrivato di lì a poco: l’entrata nel direttivo del Milk e poi la presidenza, la grande Fiaccolata contro l’Omotransfobia organizzata proprio sotto il cappello di questo blog, e così via.

Era il 5 agosto, il mio secondo giorno di ferie, “ferie” non pagate, del mio lavoro precario di allora, come modellatore e renderista di un architetto anziano che si è “sorbito” la mia metamorfosi estetica e a cui non dissi mai di me esplicitamente, ma spesso usava il maschile per parlarmi, poi… correggendosi. Non sarei mai più tornato a lavorare da lui, perché dopo quelle ferie avrei trovato un posto di lavoro stabile nell’azienda in cui lavoro tuttora.
Era il 5 agosto, in una Milano vuota e accaldata, e volevo fare qualcosa per ritagliarmi uno spazio dove potermi esprimere in modo “slow”, discorsivo, e non negli status e nei tweet, che, oltre a richiedere sintesi (che non è il mio miglior pregio), si perdono ben presto in un mare magno di informazioni più recenti che il social mette a disposizione.

Così, aprii il blog. Penso meriti uno spazio una discussione sulla scelta del nome. Io ero già militante Milk noto come Nathan, anche grazie agli incoraggiamenti di Stefano Aresi, allora presidente, e parlavo di me come ftm e non come di “altro”. La mia identità di genere percepita e dichiarata era maschile. Mi identificavo anche come ftm gay, o meglio “omoflessibile” o kinsey5, anche se l’eventuale attrazione da “altro” rispetto all’uomo era del tutto astratta e, diciamo “politica”.
Perché quindi usare “Genderqueer” nel nome?

Ai tempi, “genderqueer” era la parola che indicava tutti i percorsi “non cisgender” che non fossero di “transessualità medicalizzata e canonica”.
Erano periodi oscuri, in cui chi non era nel percorso standard, al di fuori di nicchie protette, come appunto il Milk di allora, non poteva così agevolmente dirsi trans o “ftm” (o “mtf”), perché le persone trans dei social di quegli anni ci tenevano a chiarire che chi era in un percorso come il mio non doveva assolutamente definirsi trans, o usare acronimi, come mtf ed ftm, che indicassero una “direzione” (che non essendoci una medicalizzazione a loro detta non esisteva), e quindi dovevano ripiegare sul ventaglio di termini, di sapore queer, che potevano alludere al fatto che la persona in questione avesse una disforia di genere, oppure un’identificazione da un genere non “previsto” per il suo sesso, ma non dovevano assolutamente “impadronirsi” dei termini trans, di “proprietà” di chi era in percorsi canonici e medicalizzati.
Era stato dimenticato, insomma, che le persone transgender esistevano anche prima dei percorsi ormonali, e che le prime attiviste trans erano quasi tutte non medicalizzate.

Ero giovane, erano tempi diversi, e ho pensato che GenderQueer (scritto con la Q anch’essa maiuscola) poteva essere un buon termine ombrello per indicare tutto l’universo di percorsi che non avevano cittadinanza nel mondo LGBT, e in quello T.

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Negli anni seguenti è successa una cosa che non attendevo e che mi ha reso onorato e sorpreso: il mio era l’unico blog italiano che usava certi termini (crossdresser, tranny chaser, transomosessualità, translesbismo, misgendering, cisplanning, cis-sessismo, transmisandria, ftm gay) e, forse grazie alla sua presenza costante sul web, con aggiornamenti più o meno regolari, google ha cominciato a considerarlo un sito autorevole, e a farlo apparire nelle prime posizioni quando qualcuno cercava termini, come transgender, minori transgender, crossdresser, bisessuale, per cui prima, ahimè, non usciva nulla in lingua italiana, oppure, e questo è ancora peggiore, uscivano solo ricerche morbose, legate a siti con finalità sessuali o di escortaggio.

E’ stato grazie a questa inaspettata indicizzazione su google, in anni in cui ero meno esperto con la SEO, e l’indicizzazione era tutta “naturale”, organica, che molte persone mi hanno raggiunto digitando su google delle “queery” che esprimevano “domande latenti” (sulla propria identità, o orientamento) a cui il blog rispondeva.

Ho ricevuto centinaia, migliaia, di mail, negli anni, di persone che mi ringraziavano per aver dato “dignità” ai percorsi alternativi, altre che mi ringraziavano per aver dato loro un termine per definirsi ed iniziare, tramite questo primo passo, un percorso di consapevolezza. Molte di queste persone sono poi sparite, forse perché dopo la consapevolezza e il coming out non avevano più bisogno del blog, forse non hanno mai fatto coming out, forse non ne ho mai conosciuto i dati veri, non ho mai visto delle foto vere dei loro volti, ma sono stato, fortuitamente, un tassello della loro ricerca: settimane fa una donna trans di Taranto è venuta a Milano con moglie e figlio (il figlio adorabile: correggeva la madre nei misgendering che rivolgeva a me e alla mia amica trans, di cui è moglie!) perché ci teneva a farle conoscere una delle persone che aveva dato avvio al suo percorso.

Qualcuno di voi, a questo punto del post, dirà “ecco Nathan in campagna elettorale, che si vanta di quanto è stato utile con questo blog“. In realtà oggi il blog fa il compleanno, perché non riconoscergli il suo ruolo?
Non è stato di certo questo blog il mio strumento principale di attivismo: io sono stato presidente del Circolo Culturale TBIGL Harvey Milk per anni, e questo mi ha consentito confronti sia interni all’associazione (con altri attivisti, o con volontari, o con semplici soci ed utenti), sia esterni, con altri attivisti e pensatori, per fare insieme attivismo territoriale, ma questo blog, un progetto autonomo su cui l’associazione mai mi ha posto censure, ha “contenuto” tutte le riflessioni scaturite da ciò che mi accadeva nella vita da attivista e non (incontri nell’attivismo, flame war sul web, bullismo lavorativo, e tanto altro).

Non sono un umanista, quindi non ho mai avuto un taglio totalmente saggistico, nè mi sono mai liberato della modalità “scuola trans“, che mette al centro il vissuto, la condivisione di fatti anche personali affinché possano trasmettere o condividere dei messaggi, ma, di conseguenza, questo blog non è mai stato totalmente un diario personale.

Poi, è arrivata una fase totalmente disorientante per me. Mi sono aperto ad avere un co-autore, un giovane allievo, ma in un momento in cui l’attivismo e le sue dinamiche stavano cambiando, appena dopo l’approvazione della Legge Cirinnà.
Giorno dopo giorno ho capito che la nuova veste dell’attivismo, la nuova dicotomia tra intersezionali e non, mi stesse stretta, io che “intersezionale” lo ero stato da sempre, ma quel termine stava cambiando significato, e descrivendo sempre di più un tipo di attivismo che non sentivo mio. Ho desiderato di essere di nuovo autore unico del mio blog, di potermi sentire libero di dire cose impopolari, e di scrivere se e quando volevo.
Erano anni in cui stavo rivoluzionando la mia vita lavorativa, aprendo una serie di social paralleli per curare un progetto culturale e lavorativo in cui riprendevo i temi delle discipline che come Architetto ho studiato. Era l’anno in cui volevo lasciare la presidenza Milk ad Alessandro Rizzo, caro amico e compagno di mille avventure, tra cui la fondazione della rivista LGBT Il Simposio, ma quando la sua morte improvvisa mi ha colpito, ho dovuto tenere il timone, tra mille burrasche, almeno fino a quando non ho terminato il suo calendario culturale, come lui avrebbe voluto.
In quell’anno questo blog è esistito, ma ero stanco di parlare e di ripetere sempre le stesse idee: mi sono messo in ascolto, intervistando personaggi che avevano, sotto il profilo LGBT, qualcosa da dire.

Poi, finalmente, ho potuto ritirarmi, quando, dopo un periodo di un anno, il calendario di Alessandro è finito, con l’evento sui “transgender non medicalizzati“, a cui tanto tenevo e che ha creato un vortice di attenzione su questo tema.
Finalmente le parole “inventate” da questo blog, proposte, inserite in un dibattito, sono state usate e sono diventate parte del linguaggio della comunità LGBT: finalmente le persone transgender non med potevano essere considerate trans, e non “altro”.
Penso che abbia influito, in questa concessione di un “passaporto” di trans, che mi è stato rilasciato finalmente nella Comunità LGBT, la mia costanza: agli inizi era facile (non dico legittimo) pensarmi come una persona confusa e in cerca d’autore, priva di “coraggio” nell’affrontare un percorso medicalizzato e standard.
Ho cercato per anni un padre politico, poi dei fratelli di percorso, e alla fine, ahimè, sono diventato io, mio malgrado, una specie “padre” delle persone non med.
Oggi, però, esistono altre persone non med visibili: basti pensare a Laura Caruso e Sam Meraviglia.

Credevo di volermi ritirare dall’attivismo, e invece ho scoperto che volevo ritirarmi dall’associazionismo. Ho lasciato con piacere la presidenza al mio figlio putativo politico, il bisessuale Leonardo Meda (se si vedesse descritto così, mi ucciderebbe), ma dopo mesi di successi professionali inaspettati, di recensioni lusinghiere, ho capito che senza il confronto con le altre persone LGBT mi sentivo incompleto, ed è per questo che ho ricominciato a frequentare il Milk come utente, senza obblighi, potendo frequentare i progetti che preferivo, da Presidente Onorario, come ero stato nominato.
Ho detto si ad una proposta, arrivata altre volte, di parlare sul palco del Pride. Ho deciso di non salirci da ex presidente, da padre di famiglia di una comunità di LGBT “non conforming“, di cui per anni, almeno sul web e a Milano, sono stato “padre”. Ho deciso di salirci da trans Ftm Non medicalizzato, da persona che deve portare una complessità: fare un coming out quando il tuo aspetto dice il contrario di quello che sei, parlare di un coming out che probabilmente dovrà essere ribadito millemilavolte affinché passi nella coscienza comune.

E oggi questo blog cosa è? Forse è lo strumento con cui un “vecchio” attivista, ritiratosi dall’associazionismo, può parlare. Cambiare nome? Non più GenderQueer? La q è diventata minuscola, visto che almeno dal 2012 sono critico verso la teoria queer, e soprattutto perché Genderqueer aveva tutto un altro significato nella mia scelta del nome. Però ho aggiunto 2.0. Non avrebbe senso aprire un altro blog con un nome diverso, creare simbolicamente una dis-continuità col vecchio me, quando questo cambiamento è stato così graduale.
E’ necessario, tuttavia, un segnale anche visivo e simbolico di un mio cambiamento, in continuità col passato ma comunque forte: il 2.0.
Non entro, invece, nel merito dei motivi per cui scelgo di rimanere in una piattaforma free, e del perché comunque rimango legato a un “brand” indicizzato e autorevole su google (che perderei in grossa parte, se cambiassi nome, o meglio dovrei investire del tempo e aspettare pazientemente, cose che non intendo fare in questa fase della mia vita così impegnata dagli impegni extra-attivismo, in cui voglio semplicemente dare, nel mondo LGBT, un contributo di pensiero, quando richiesto).

Riusciamo però a rafforzare simbolicamente la rivendicazione della scelta di mantenere il nome?
E’ vero: il tempo, la costanza, e i cambiamenti politici hanno fatto si che oggi una persona come me non debba più “ripiegare su genderqueer”, e che possa addirittura essere presa in considerazione se propone nuovi termini e linguaggi.
Tuttavia, mi rifaccio al significato originario di Queer. Ricordo, al liceo, quando, studiando Oscar Wilde, un personaggio con cui mi identificavo molto, venne chiamato “queer” dai suoi oppositori. Era la prima volta che sentivo quel termine, queer (non sapevo neanche cosa fosse la teoria queer, anche se in quegli anni, fine anni 90, già esisteva ed era diffusa tra gli attivisti), ma iniziai spontaneamente a farlo mio.
Quando anni dopo conobbi “genderqueer”, mi sembrò di poter rivendicare quel termine, che indicava qualcosa di bizzarro, negativo, strano, riportandolo all’ambito in cui io ero, agli occhi di tutti e anche degli altri trans, “strano”, ovvero l’ambito “gender”.
Volevo rivendicare la mia genderstranezza, come i gay avevano rivendicato la loro stranezza e i loro “stili di vita felicemente alternativi”.

I gay, ad un certo punto, hanno rivendicato la parola queer che tanto li aveva offesi, come io 10 anni fa ho rivendicato gender-queer, termine in cui gli altri trans volevano confinarmi, non considerando degno il mio percorso.
E oggi, oggi che sono un uomo trans per tutto il panorama di attivismo, o quasi, a quel gender-queer sono un po’ affezionato. Sono sicuramente una persona di identità di genere maschile, ma bizzarro lo sono sempre stato, a prescindere dal mio essere trans, quindi, che dire, buon compleanno, Progetto Genderqueer.

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Noi attivisti di una volta…

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Vignetta sulle vecchie regine dell’attivismo e i consigli rivolti ai giovani attivisti rivoluzionari….

Vecchi gay

Replica di Giovanni Dall’Orto al mio appello sul “linguaggio comune LGBT”

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Le divergenze con l’attivista gay e storico del movimento Giovanni Dall’Orto, negli ultimi dieci anni, sono state tante. Chi conosce bene questo blog sa che a volte l’ho citato anche su idee che condividevamo, ma principalmente è comparso su queste pagine tramite le vignette con cui l’ho punzecchiato, a causa delle nostre forti divergenze sui temi transgender, che fondamentalmente erano causate dal fatto che usavamo le stesse parole per indicare cose diverse.

Non so se su alcune divergenze potremmo mai vederla in modo simile. Non so se potremmo avere obiettivi comuni (ma la sua posizione su una legge che riconosca anagraficamente le persone transgender non medicalizzate sempra piuttosto interessante), ma sicuramente ho molto apprezzato il fatto che si sia “messo in ascolto” e che si sia aperto al confronto, dote rara tra i “decani” dell’attivismo.

A questo punto, vi lascio alla lettura della replica al mio appello, che contiene delle chicche imperdibili, dalla firma come “nemico fedele“, alla descrizione metaforica dei nostri 10 anni di conflitti, facendo tuonare il cielo di Milano.

Invito a leggere, quindi, la sua replica a questo link:  Giocare a capirci, fra LGBT

Speriamo che altri coraggiosi/e pionieri/e rispondano al mio appello. Come inizio, però, non c’è male…

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E oggi che “c…” mi metto? :D

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Vignetta nata per gioco, mentre mi preparavo a scegliere i vestiti per salire sul palco del Pride…


che cacchio mi metto

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Massoneria e inclusione delle persone Transgender

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La massoneria inglese, da sempre quella più tradizionalista e binaria, si apre alle persone transgender mtf ed ftm.

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In questi giorni molti siti stanno riportando una notizia riguardo all’apertura della massoneria Inglese (tradizionalista, conservatrice, solo maschile) alle persone transgender.
Riporterò alcune dichiarazioni riportate da siti e blog italiani, di cui non mi fido a pieno, poichè non sono blog LGBT e non so quanta cura abbiano messo a riportare correttamente le definizioni relative ai temi e sul dizionario transgender, riguardo alle due direzioni.

Parto dall’articolo migliore, quello che cita Edward Lord, massone inglese, attivista del partito LiberalDemocratico, bisessuale e antibinario (un uomo da sposare, insomma!), e la sua lotta per l’inclusività in massoneria.
Leggete l’articolo, è interessante, perché dà anche alcune nozioni sulla massoneria a chi dovesse avere dei pregiudizi.

E’ importante precisare che non c’è una sola “massoneria” ma tante”massonerie”, alcune di influenza inglese, altre di influenza francese, che accettano, ad esempio, atei ed agnostici. Anche il Grande Oriente di Francia, la più autorevole obbedienza francese, una delle poche, di tradizione “francese”, ad essere rimasta solamente maschile a lungo, da molti anni è diventata un Ordine Misto.
Per non parlare del Droit Humain, storico Ordine Misto, il primo al mondo.
Molte logge sovrane ed obbedienze/ordini sono miste da sempre, altre obbedienze hanno al loro interno logge solo maschili e logge solo femminili, che lavorano insieme in momenti straordinari, altre obbedienze sono invece solo maschili, o solo femminili.
Diverse realtà includono già persone transgender, rettificate e non, rispettando il loro genere d’elezione.
E’ chiaro, però, che la notizia sia importante perché arriva dall’Obbedienza ancora considerata, da alcuni, l’unica “vera” Massoneria.

Da questo sito (che però usa una terminologia discutibile, nel parlare di trans) arriva questa notizia:

Massoneria di nuovo all’attacco sotto il vessillo Lgbt: la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, fondata nel 1717 e – aspetto non secondario –  aperta esclusivamente agli uomini, ha deciso di pubblicare appositamente un comunicato, per precisare: «Un massone, che, dopo la propria iniziazione, cessi d’essere uomo, non cessa tuttavia d’essere un massone».

Si aggiunge anche lo stesso vale per gli uomini ftm, che saranno ammessi.
L’unico dubbio rimane sugli ftm “non medicalizzati”, ma la riforma della Gender Recognition Act del 2004, che dovrebbe riconoscere anche i transgender non med, potrebbe cambiare le cose.

Anche questa fonte, sempre con un linguaggio abbastanza primitivo e “biologista”, conferma la stessa posizione:

Una donna che “è diventata un uomo” deve essere trattata “allo stesso modo di qualsiasi altro candidato maschile”. Un transgender dalle parvenze femminili potrà continuare a frequentare la loggia.
Così ha stabilito la United Grand Lodge of England (Ugle), che ha giurisdizione su Inghilterra, Galles e sui distretti d’oltreoceano, una Gran Loggia, fondata nel 1717, che conta circa 200 mila membri.

Anche questa fonte, meno autorevole delle precedenti, e sempre con un linguaggio barbarico, conferma quanto detto.

Il fatto che non è chiaro se il linguaggio deriva da errate traduzioni o meno, l’unica paura rimane il biologismo: le persone transgender saranno rispettate nel loro genere d’elezione? Sarà usato il nome d’elezione? Le trans saranno chiamate “sorelle” o no? Gli ftm saranno considerati “fratelli”?
Tante domande, e solo il tempo darà delle risposte.

Nel frattempo, allego le interviste che furono fatte da Alessandro Rizzo Lari in occasione dell’evento al Milk denominato Massoneria Rainbow.
Molto interessanti e pertinenti.

Intervista a Diego Sardone

Intervista ad Enrico Proserpio

Intervista a Denise Farinato

 

 

 

 

Bimbi/adolescenti con tematiche di identità di genere: come agire?

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Questo blog ha già trattato il tema dei giovanissimi transgender, o sarebbe meglio dire degli e delle adolescenti con una tematica di identità di genere, in preparazione dell’evento Milk che aveva come relatrice la Dott.ssa Roberta Ribali, a cui avevo rivolto questa intervista.
Nelle domande mi ero volutamente concentrato sulla socializzazione dell’adolescente “gender variant“, e sulla libertà di espressione che famiglia, scuola e società dovrebbero dare a queste giovanissime persone bisognose di sperimentarsi.

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Di due settimane fa, questa notizia:

La Commissione consultiva Tecnico-scientifica dell’AIFA ha ritenuto didare parere favorevole alla richiesta sottoscritta da SIE, SIAMS, SIEDP e ONIG di inserimento della Triptorelina nell’elenco istituito ai sensi della Legge n 648/96 per l’impiego in casi selezionati in cuila pubertà sia incongruente con l’identità di genere (Disforia di Genere).Successivamente, in seguito a richiesta di AIFA, il Comitato Nazionale per la Bioetica ha espresso una posizionefavorevole sulla eticità di tale intervento medico, purché venga proposto da una equipemultidisciplinare e specialistica in casi attentamente selezionati.

Molti articoli a tema chiariscono che la somministrazione sarà valutata con prudenza e caso per caso.

Il mondo dell’attivismo omosessuale “cis” sta riprendendo un dibattito d’oltreoceano che porta statistiche sul fatto che la maggior parte dei bimbi/e “genderfluid” in realtà crescendo manifesta un’identità omosessuale cis: ragazze butch e ragazzi gay “effeminati“, e che quindi se si fosse intervenuti con gli ormoni inibitori in questi casi sarebbe stato un errore (nel caso che questi farmaci avessero effetti collaterali, ma premetto che sul tema non sono preparato, visto che la mia esperienza “non med” non mi ha sensibilizzato o dato uno slancio a informarmi sulla parte medicalizzata della transizione).
Aggiungo anche una mia personale perplessità: non so se questi farmaci possano alterare la futura fertilità, ma faccio presente che a quell’età si sottovaluta molto l’eventuale desiderio di genitorialità.

Quello che rivendicano alcuni di questi pensatoti d’oltreoceano (ma anche alcuni pensatori, uomini e donne omosessuali italiani/e, come i relatori della conferenza “4 elementi di critica LGBT“, in particolare Massimo D’Aquino, Giovanni Dall’Orto e Daniela Danna) è che la società possa iniziare a spingere verso una “normalizzazione eteronormativa” dei giovanissimi e delle giovanissime, portatori e portatrici di ruoli di genere difformi, e di orientamenti sessuali non etero, che, non potendo essere “normalizzati” coerentemente col sesso (come la buona vecchia scuola Niccolosi suggeriva), sarebbero più accettabili come ragazzi e ragazze trans etero rispetto all’essere giovani butch e checche.
Sarebbe quindi, quella della transizione giovanile, una “teoria riparativa 2.0“.

A tenermi lontano da questa riflessione è anche il mio essere si ftm, ma ftm gay, quindi nella mia riflessione identitaria il tranello eterosessista è stato assente: non dovevo scegliere tra il lesbismo e una “comoda” eterosessualità maschile.
Non amo sovradeterminare i percorsi altrui, ma è vero che diverse persone, spesso poco scolarizzate o molto giovani (spesso persone di genetica xx), si approcciano al percorso psicologico credendosi trangender per poi capire che si trattava di una tematica di ruoli di genere e/o di orientamento sessuale.

Ciò non toglie che per quei ragazzini/e che portatori/trici di una tematica di identità di genere lo sono davvero, queste paure degli adulti, o degli attivisti, non devono diventare un cappio. Se è legittimo riflettere sul pericolo di trattamenti sanitari superflui, o somministrati per un’errata analisi della situazione e delle esigenze del o della giovane, non riesco a capire perché, invece, non si dovrebbe dare piena libertà di espressione e sperimentazione a queste giovanissime persone.
Perché si dovrebbe vietare loro di presentarsi, in famiglia o a scuola, col nome scelto? Perché non permettere loro di provare la “socializzazione” nel loro genere (presunto) d’elezione? Di indossare i vestiti che desiderano, giocare coi giocattoli che preferiscono, ridisegnare la loro adolescenza o preadolescenza rispetto ai loro desideri?

Cosa impedirebbe poi a queste giovani persone, ad un certo punto della loro adolescenza, di fare un passo indietro, far ricrescere (o tagliare) i capelli, e ripensarsi come cis (omo o etero non importa)?
Castrare questa sperimentazione è controproducente in tutti i casi, anche dal punto di vista del genitore preoccupato che spera che la questione rientri, e non capisce che mettere dei limiti non fa altro che rendere il ragazzino/a ancora più frustrato/a.

Se quindi posso pensare che non ci sia transfobia, ma solo una seria preoccupazione, in chi sollecita alla prudenza in tema di ormoni inibitori, penso che possa essercene in chi chiede di “impedire” a questi ragazzini/e di sperimentare.

E’ vero, soprattutto per le bambine nate xx potrebbe esserci un desiderio di esprimersi al maschile dovuto alla “castrante” e “sessista” educazione secondo stereotipi femminili, che le giovanissime ricevono, paradossalmente, in dosi ben peggiori di quella “somministrata“, ai tempi a noi, che oggi siamo trentenni. Il binarismo dei ruoli è tornato alla grande a cominciare dai giocattoli, e concludendo coi modelli televisivi. Eppure delle tante giovanissime persone che si reputavano “maschiaccio” e volevano “essere ragazzi“, molte adesso sono madri, mogli, o attiviste lesbiche, molte ma non tutte. Quindi, da attivista trans, vi chiedo di non dimenticare i giovanissimi ftm, e di permettere loro, tramite un percorso psicologico ben fatto, e affidato ai (purtrippo pochi) professionisti competenti, e non ideologizzati in nessuna direzione, di capire se si tratta di una tematica di ruoli di genere oppure vi è qualcosa di più profondo e identitario.

Se è giusto che gli attivisti omosessuali e lesbiche difendano i loro piccoli, anche noi transgender difendiamo i nostri, e la loro libertà di esprimersi e sperimentarsi.


Robot sessuali: emancipazione o catalizzatori di sessimo?

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La serie TV “WestWorld – dove tutto è concesso” ha creato uno scenario fantascientifico in cui viziati (e viziate) altoborghesi possono vivere vacanze all’insegna della violenza e del sesso in un parco “Western”, avendo piena libertà, di vita o di morte, di abusi sessuali, sui robot “residenti”, di fatto intelligenti quanto gli umani.
Sembrava una metafora distante, e invece …

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Da tempo mi interrogo sul sessismo della robotica.
Il film di qualche anno fa Ex Machina rappresenta bene questa problematica, dovuta forse al fatto che i principali autori di narrativa e filmografia fantascientifica sono uomini eterosessuali.

Già di qualche mese fa la notizia della creazione di Robot (uomini e donne) estremamente realistici pensati per la sessualità di persone (uomini, donne, etero e non) con disabilità mentale, argomento controverso e non privo di spunti di riflessione.

Di pochi giorni fa, invece, la notizia dell’apertura della prima “casa chiusa” con robot sessuali a Torino. Inizialmente ho postato con solerzia la notizia sulla mia pagina facebook, sperando di potermi velocemente confrontare con altri attivisti LGBT e sul tema dell’antibinarismo dei ruoli di genere.

La prima ad intervenire è stata Marina Terragni, che ha poi repostato la notizia e ha scritto un articolo che, seppur io non condivida la mistica della maternità, nè creda che i comportamenti sessuali dei peggiori uomini eterosessuali siano “nella loro natura” (virgolette che comunque mette la stessa Terragni), contiene interessanti punti di vista (premetto che io e Marina abbiamo visioni molto diverse sul tema transgender, ma non ho problemi a trovare convergenze su temi come questo, e ho visto varie persone LGBT scrivere che questa volta erano d’accordo con lei).

Sia l’uomo, sia la donna, sembrano stati scolpiti e pensati in base al desiderio maschile. La donna ha misure dei seni e delle forme estremamente stereotipate, e anche l’uomo ha un’espressione del viso che ricorda la classica giovane marchetta omosessuale.

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Premetto che il “bordello” dovrebbe essere aperto a uomini e donne, etero e non etero, ma sappiamo benissimo che di fatto il cliente standard dovrebbe essere, tanto per cambiare, un certo tipo di uomo eterosessuale.

Dunque, vi sono due scuole di pensiero, nell’attivismo, riguardo alle sexy robot:
la prima, che considera innato e inevitabile un certo tipo di desiderio maschile etero, incontenibile, violento, senza freni, senza la ricerca del consenso, e quindi considera conveniente che ci sia un modo di sfogarlo su pezzi di plastica, con cui il cliente può fare anche delle pratiche di sadismo spunto, di fetish, e di “dominazione”, anche, come dice l’autrice, con la bambola incinta.

L’altra scuola di pensiero, invece, si concentra sull’immaginario che queste robot, disegnate sui desideri più stereotipati e degradanti, stimolano e incoraggiano, risultando degradanti per la donna, creando un ambiente “circoscritto” in cui le più atroci violenze misogine sono lecite, seppur sulla plastica.
Mi viene in mente la serie di film di fantapolitica denominata “La notte del giudizio (The Purge)” e i suoi vari sequel e prequel, in cui, per una sola notte all’anno sono concessi tutti i crimini, permettendo di tornare, alle luci dell’alba, ad una realtà a bassissimo tasso di criminalità.
Possono essere quindi, le sexy dolls, uno “sfogo“?

La domanda rimane aperta e il confronto coi voi readers è fondamentale.
Come avete accolto la notizia e cosa ne pensate?

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Chi può essere portavoce delle istanze transgender?

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Dopo gli attacchi al comunicato stampa del Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia, mi chiedo se sia stato compreso il contenuto (e le intenzioni) del comunicato.

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Il 22 giugno, come “Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia“, abbiamo pubblicato un comunicato stampa, che riprendeva i temi che alcuni di noi avevano discusso, qualche giorno prima, all’interno del laboratorio del Circolo Culturale TBIGL Rizzo Lari (ex Harvey Milk), chiamato “La presa di parola transgender“.

I temi del laboratorio erano stati principalmente tre:

chi dovrebbe “prendere parola”, politicamente, come rappresentante della comunità, e quali requisiti di visibilità questa persona dovrebbe avere
– se esistono davvero istanze comuni tra persone transgender medicalizzate e non medicalizzate, e persone di identità di genere canonica e “non binary”, tra persone che vogliono rendere socialmente visibile il loro essere transgender e persone che desiderano proseguire in una condizione di velatismo
– come arginare il fenomeno dei “cybertrans”, ovvero il fatto che ormai influencer e presunti interlocutori sono persone che fanno un attivismo “web” spesso non mostrando il volto e usando cognomi “d’arte“.

Dopo un importante confronto, iniziato in quella sede, e continuato anche dopo, il Coordinamento ha prodotto il comunicato, scritto da una delle penne più acute del team, e condiviso e firmato da tutti i componenti (me, Laura Caruso, l’avvocato Gianmarco Negri, Antonia Monopoli, Monica Romano, Gabriele Belli).

Il comunicato aveva avuto inizialmente un notevole successo, condivisione dei concetti espressi, complimenti per il coraggio, ma, a causa di uno status facebook di un esponente del pensiero queer, la pagina del Comunicato è stata infestata da alcuni personaggi, prevalentemente con account fake, che hanno insultato i contenuti del comunicato, e le persone che lo avevano sottoscritto, spesso anche con attacchi personali e body shaming.

Non voglio soffermarmi sull’attivismo 2.0, che spinge a metodi così poco ortodossi e che violano le regole basilari dell’educazione: la cosa che è saltata maggiormente all’occhio è che la “furia queer“, atta a mettere il bavaglio al Coordinamento, contestava pensieri che in quel comunicato non erano mai stati scritti.
Tra un “fate schifo” e un “vomito a spruzzo“, chi contestava il comunicato, attribuiva concetti che noi stessi, avendolo riletto più e più volte, non abbiamo trovato, come la presunta esclusione delle persone non med e non binary, esclusione che sarebbe stata assurda, visto che due esponenti del coordinamento, io e Laura Caruso, siamo transgender non med.

Il comunicato partiva dal fatto che è stato prodotto dopo un percorso in cui ci siamo interrogati, come volontari ed attivisti, sul “se” fosse possibile una battaglia comune tra persone che condividono di certo un percorso “non cisgender, ma che hanno condizioni personali diverse, da vari punti di vista: non tutte le persone “non cisgender” dichiarano, ad esempio, di convivere con una “disforia di genere“, che riguardi il corpo o il riconoscimento sociale.
Non tutte, inoltre desiderano un cambio anagrafico: alcune di queste, ad esempio (penso alle persone che si definiscono “non binary” o “genderfluid”) , hanno come principale istanza il riconoscimento del “terzo genere” sui documenti.
Altri ancora non hanno e non desiderano avere “in agenda” dei disegni di legge per rendere più vivibile l’esistenza delle persone T, perché, essendo velati e convinti a rimanerlo, non hanno bisogno di un riconoscimento anagrafico, che nel loro caso sarebbe addirittura indesiderato.

E’ un periodo storico in cui una certa “barricata queer“, composta da persone cis e trans, e da persone che a tratti si definiscono trans e a tratti no (sfruttando una moderna definizione “ad ombrello“, che permette di star sotto a chiunque abbia una semplice tematica di ruoli di genere), sta proponendo delle precise visioni sul tema delle donne (pro sex working, pro GPA), spacciandole per una “visione trans”, e facendo questo incattivisce sia le femministe radicali/della differenza, e sia quelle persone trans che da questa conventicola queer vogliono predere le distanze e, nel tentativo di fissare un rigido spartiacque tra trans e queer, lo fissano sulla medicalizzazione o addirittura sull’intervento ai genitali.

Alla luce di questo, il Coordinamento ha proposto qualcosa che il confine provava ad ampliarlo: non il binarismo, nè la medicalizzazione a rendere valido/a un interlocutore/trice politico/a sui temi transgender, bensì la visibilità offline come persona T.
Quest’affermazione, che sembra quasi ovvia, che è stata sempre ovvia nell’attivismo 1.0, ovvero che gli attivisti devono essere visibili per poter rappresentare anche chi non lo è, ha causato, nell’epoca 2.0, sgomento e un frullato di insulti.

Non è solo una questione di principio, che da sola basterebbe a giustificare questa posizione (visto che non si sta parlando di “chi è trans e chi no“, ma di chi “dovrebbe rappresentare le istanze trans con le istituzioni“), ma anche una questione di “comprensione” delle problematiche e delle esigenze che si devono rappresentare, comprensione che, purtroppo, può essere possibile solo se certe situazioni le si vive in prima persona.
E’ stato, a mio parere, proprio il fenomeno dei “cybertrans“, ovvero persone che, chiuso il portatile, tornano a vivere vite da cis, usando il nome anagrafico ed avendo un aspetto ben conforme alle aspettative legate al proprio sesso di nascita, a far abbandonare battaglie importanti come una legge che estenda il cambio anagrafico anche ai non med e una legge contro la transfobia che tuteli le persone T nella professione e nella vita quotidiana.
Per chi, pur essendo intimamente davvero una persona trans, le problematiche della vita trans “offline” sono solo un racconto estrapolato da meme e blog “anglofoni”, le istanze non possono che essere nebulose e annacquate in un “senso di giustizia” generale, in un calderone di altri temi per cui si richiede, vagamente, una maggiore sensibilizzazione sociale, ma senza nessun progetto concreto.

Si può apprendere un sublinguaggio, costruirci sopra un’impalcatura di termini, per comunicare con altri che, quando accediamo ai social tramite il nostro account “trans”, ci sembrano simili a noi, e possiamo anche capirci tra noi, ma se poi “da persone transgender” non abbiamo un vero e proprio contatto con la realtà offline, ci sembrerà superfluo rendere quel linguaggio comprensibile per chi LGBT non lo è, e vive in un mondo fatto di persone XX che sono femmine e di persone XY che sono maschi.

Il fenomeno “cybertrans”, inoltre, fa si che le persone e la loro presenza sul web non sia collocata nel tempo e nello spazio, e sia poco comprensibile, da fuori, se si tratta di un attivista formato oppure di una persona bisognosa d’aiuto che ha aperto un account l’altroieri, ma nonostante tutto pensa di essere nella posizione di giudicare come “inefficaci” gli attivisti e le associazioni sul territorio.
Sarà comunque riempito di una pioggia di like da chi è troppo pigro per andare al di là di un link che ha postato o di una foto, o di un meme, che ha pubblicato.
E, ovviamente, visto l’andazzo dell’attivismo queer 2.0, saranno proposti bavagli per chi ha idee diverse dalle loro, ci sarà un serpeggiare di contatti privati di oscuri personaggi che “consiglieranno” di non invitare tizio o caio al prossimo evento, o a parlare nelle scuole, o sul palco del Pride.

Concludo: non sarà facile da digerire per le matricole del cyberattivismo, ma tutti i lavori, anche quelli non retribuiti come l’attivismo, richiedono una gavetta, un periodo in cui stare in silenzio può essere l’occasione di ascoltare senza impegnare tempo e pensieri a elaborare la risposta da dare, prima ancora di aver capito cosa si è appena ascoltato, e giusto per “esserci”.
Nel mondo del web 2.0, invece, come dice un antico proverbio calabrese, “ogni testa è tribunale“.

Psiche e sessualità nelle persone transgender giovani e giovanissime: un approccio medico

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Riporto con piacere i contenuti della Dott.ssa Ribali, Neuropsichiatra e Psicoterapeuta oltre che CTU del Tribunale di Milano per le tematiche di Identità di Genere, già intervistata da questo blog su tematiche “Teen Gender“.

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Psiche e sessualità nelle persone transgender giovani e giovanissime: un approccio medico.

Nella nostra cultura scientifica, allo stato dell’arte di oggi, il binarismo di genere maschio-femmina appare concettualmente da accantonare, per lasciare posto a un approccio gender-fluid più corrispondente alla realtà che tutti noi , che ci confrontiamo da anni con queste tematiche, ritroviamo nella fenomenologia complessa dei nostri Pazienti e forse anche di noi stessi. I termini trans gender e transessuale rispecchiano ancora un certo binarismo, che sarebbe meglio accantonare per essere pronti ad accogliere adeguatamente tutte le infinite sfumature, e le sfide epistemologiche che la realtà di fatto ci presenta oggi.

Per quanto riguarda l’identità di genere, attualmente possiamo usare i termini “disforia di genere “ e “varianza di genere” per denominare due situazioni che hanno in comune una discrepanza fra il genere cui il Soggetto sente di appartenere e il genere cui “dovrebbe” appartenere, secondo i criteri dettati dalle nostre regole sociali, strutturate e stratificate storicamente e culturalmente .
Diverso è il vissuto individuale: disforia indica un malfunzionamento, una sofferenza di cui il Soggetto è portatore, a causa del suo sentire, mentre Gender Variant è il caso in cui tale discrepanza è vissuta individualmente -e sopratutto socialmente– senza evidenti disagi, come una varianza statistica.

Il sesso biologico non è neanch’esso binario. Esistono infinite sindromi complicate, con realtà cromosomiche eterogenee che danno luogo a realtà di vita individuali polimorfe e fluide, che vanno sotto la denominazione generica di Intersessualità: è recente il caso di quella bimba nata xy , con vagina e sindrome di Morris , che all’età di due anni è stata operata da solerti chirurghi che l’hano mutilata dei suoi organi sessuali femminili per ricreare, non so come, un maschietto che avrà sicuramente vita molto, molto difficile…. ma non è questo il nostro tema, anche se i criteri che noi medici siamo chiamati a proporre e seguire sono sostanzialmentente simili. Rispettare lo sviluppo della personalità del bambino, senza costringerlo, con interventi autoritari o peggio con pasticci medico-chirurgici, a osservare le norme che noi adulti gli imponiamo, scegliendo per lui/lei, al suo posto, per soddisfare nostre esigenze, che non sono necessariamente quelle volute dal soggetto che deve crescere nel rispetto di quello che si sente realmente..

Se diamo voce, legittimamente, agli interessati, le persone transgender si definiscono in molti modi, in relazione alle sfumature del loro essere- che spesso è un dinamico divenire. Ciò è molto sentito, specie dai giovani, che non amano- comprensibilmente- essere identificati dalla rigida tassonomia del DSM 4 e anche 5, malgrado i cambiamenti inseriti.Si auto definiscono GENDER FLUID, GENDER PRIUSES, PROTOGAY, PROTOTRANSGENDER, GENDER QUEER, GENDER OREOS e rivendicano l’autodeterminazione, senza il controllo medico o giuridico.

Alcuni nuovi progetti di leggi europee, in parte riconoscono questa realtà, rinunciando a usare i termini binari di uomo e donna, maschi o e femmina, consentendo a ciascuno di vivere secondo il genere che sente proprio, senza specificare. Viene riconosciuta così la realtà. Il genere è uno spettro, una linea con, agli estremi, il maschile e il femminile: nei vari punti ci collochiamo tutti noi. Molti si ritroveranno più vicini a uno degli estremi, altri si collocheranno a metà strada, o in posizioni comunque intermedie. E’ un giochetto che possiamo fare tutti, con i nostri famigliari e amici: i risultati sono molto interessanti e sorprendenti… In Italia invece le proposte di legge restano binarie, c’è tanta strada da fare.

Questa premessa, e questo invito alla fluidità e all’accettazione fenomenologia dell’altro , penso sia necessaria quando ci avviciniamo alle situazioni di adolescenti e di bambini che presentano segnali e comportamenti che vengono vissuti dai caregivers come non corrispondenti a quanto la società si aspetta , per quanto riguarda l’identità di genere. In questi casi, il rischio e l’errore è quello di voler fare una diagnosi, di etichettare il bimbo, di avere fretta di agire. Questi casi ci mettono ansia, perchè i genitori ci trasmettono la loro ansia, ci incalzano, chiedono “soluzioni”
D’altra parte, dobbiamo essere preparati, anzi, preparatissimi nel nostro paradossale non-agire: in questi anni vedremo sempre più casi di giovani e giovanissimi. Tutte le persone transgender che noi trattiamo sono stati bambini. E quasi tutti ci portano anamnesi infantili terribili, di grande sofferenza, costellate di scherni, divieti, percosse, violenze, oppure di repressione, isolamento e solitudine.
Aiutare questi bambini è un dovere sociale, dei medici, della scuola , delle famiglie, della società tutta

Molti bambini possono avere comportamenti particolari, anche molto marcati, che saltano agli occhi di chi si occupa di loro: indossare gli abiti della madre o di una sorella, se sono maschi biologici, o rifiutare le gonne se femmine, dichiarando più o meno esplicitamente di sentirsi a proprio agio in attività o giochi culturalmente impropri, che variano secondo le regole del gruppo sociale di appartenenza.
In alcuni casi, questi comportamenti possono essere molto marcati, e i bimbi stessi possono dichiarare di “essere” di un genere diverso da quello genotipico. Un bimbo da me interrogato ha risposto ”sono un maschiofemmina”. I genitori si allarmano, dapprima cercano di intervenire, spesso di reprimere, specie quando si tratta di un maschietto biologico che si comporta da “femminuccia”. Ma il bimbo continua a volersi vestire e comportare come le sorelline, e il pediatra, il medico curante viene interpellato…poi i bimbi vanno dallo psicologo accompagnati da genitori ansiosi e preoccupati.
Rispetto a un caso che ho visto io di recente, in cui un maschietto è stato portato da un prete esorcista per scacciare da lui il demonio dell’effeminatezza e dell’omosessualità, è comunque un bel passo avanti… bypassare l’esorcista e approdare pertempo dal medico o dallo psicologo.

Ma solo il 10- 15% circa di questi bimbi (Kohen-Kettenis, 2001-2008) proseguirà su questo percorso nell’adolescenza: la grande maggioranza spontaneamente ritroverà la corrispondenza dei comportamenti con il sesso biologico, senza coercizioni evidenti . Al più, potrà manifestare con maggiore frequenza orientamenti bisessuali o omosessuali nella scelta dei partners. Persisters e desisters.

La statistica , quindi, è nostra alleata, quando dovremo raccomandare ai genitori un atteggiamento di comprensione, massimo supporto ed attesa. Alcuni genitori faranno richieste forti: ma non c’è una cura ormonale o una psicoterapia per “raddrizzare” questo bambino? In questi casi, tutti gli orientamenti attuali suggeriscono una presa in carico dei genitori: starà al medico, e spesso all’endocrinologo, rassicurare la famiglia, tenendo d’occhio però il bambino e monitorandolo perché non finisca fra le grinfie di ciarlatani o di incompetenti… Costruire un ambiente sereno ed accettante è possibile, a volte, con risultati di grande armonia fra figli e genitori. I ragazzi transgender , che persistono nel loro orientamento fino all’età adulta, in questi casi possono non manifestare sintomatologie disforiche, sono Gender variant sereni e senza tratti di sofferenza e di mismatching sociale, Ci vogliono però genitori forti abbastanza da plasmare la società intorno ai loro figli, con l’aiuto di scuola ed istituzioni preparate.
Non sta a noi cambiare la società , ma possiamo dare il nostro contributo, informando autorevolmente.

Man mano che ci si avvicina all’adolescenza, se avremo monitorato il bambino saremo già più in grado di valutare se il suo sentirsi genderfluid si arresterà o se procederà su un percorso di varianza o disforia di genere. Non ne potremo avere la certezza, e pertanto si potrà fare una riflessione sull’opportunità di guadagnare tempo, trattandolo con una terapia ormonale di sospensione della pubertà.
Ci sono i pro e i contro: una dilazione delle decisioni maggiori può essere utile, per aspettare cosa succederà nella psiche del ragazzino/a dopo i 12-13 anni, consentendogli nel frattempo la massima libertà di esprimersi, di proseguire ma anche di tornare indietro. In questo periodo il supporto medico-psicologico va effettuato con cura e regolarità. Secondo alcuni ricercatori, però, il sottoporre un ragazzino a tale trattamento di blocco puberale potrebbe in qualche modo condizionarlo a proseguire anche un trattamento ormonale femminilizzante o mascolinizzante, come se ci fosse un binario già tracciato.
C’è da proseguire caso per caso, in stretta collaborazione con i genitori, che cercheranno anche loro di rispettare quanto più possibile lo sviluppo psicologico profondo e sincero del figlio/a.
( L’eccesso di medicalizzazione e di ricorso alla chirurgia potrebbe essere ridotto, come sostiene Zucker, da un lavoro psicologico preparatorio che consiste nel favorire la consapevolezza che vi sono molti modi di essere donna o uomo.)

Nell’adolescenza, psicologicamente, c’è il rischio di alimentare l’insorgenza di un falso sé, compiacente ai dettami sociali e alle aspettative famigliari, e repressivo delle istanze profonde della persona. (Diane Ehrensaft, California, da Winnicott). Per un ragazzo FtoM il menarca può essere un trauma grave, così come per una MtoF lo sviluppo erezione-eiaculazione. Possono provocare angoscia, crisi di panico, depressione, idee suicide e magari innescare formazioni reattive….anche gravi. Adolescenti con forti istanze femminili che si arruolano nell’esercito come paracadutisti, o che si fanno crescere la barba, mimando comportamenti da macho fascista per ingannare famigliari, società e sé stessi…. ragazzine biologiche che si sentono ragazzi, e che si forzano ad avere esperienze di sesso con amici maschi, chiudendo gli occhi, facendosi quasi stuprare immaginandosi di essere lei stessa l’uomo che le penetra…
Il soggetto potrà trovare nella scuola nuove sfide, e dovrà affrontare, se non protetto, episodi di scherno o bullismo, quando non di aggressioni vere e proprie, anche gravi a sfondo sessuale.
Una transizione potrebbe essere decisa e attuata precocemente: anche qui, con pro e contro.
Il rispetto della persona e delle sue istanze è fondamentale. Un adolescente transgender che si presenta nel gruppo già transizionato avrà ovviamente meno difficoltà . Di primo acchito, sembrerebbe l’opzione migliore. Ma in questo caso la terapia ormonale diventa una scelta totalizzante, che non dà spazio a quei casi di rientro nel genere coincidente col sesso biologico durante l’adolescenza. Invece, spesso l’inizio del trattamento coincide con un miglioramento dell’umore … e con migliori risultati a scuola! La Disforia può anche non verificarsi.
In altre parole: il trattamento ormonale nell’adolescente è auspicabile sul piano biologico, perché permette modificazioni somatiche coerenti con il sesso prescelto, ma deve essere instaurato con tutte le garanzie e gli approfondimenti del caso, e anche con dei feedbacks continui nella vita reale. Il tema del Consenso Informato va approfondito
L’adolescenza è un periodo molto delicato, in cui ,ad esempio, il rischio suicidario è alto, e così i percorsi di iniziazione alla droga e all’alcool. Possono comparire disturbi alimentari, anoressie e bulimie per cercare di modificare una corporeità che si vive come nemica ed estranea. Se un adolescente non è seguito adeguatamente, può essere a forte rischio: droga e alcool permettono di alterare la propria realtà, liberando i propri lati repressi e procurando poi ulteriori complicazioni, di carattere medico ed esistenziale, a volte senza uscita.
L’altro gravissimo rischio è l’abbandono scolastico, grave , secondo me, quanto e più di una psicopatologia…ha conseguenze devastanti per le scelte di vita di un giovane, che può trovarsi precluso un dignitoso inserimento nella vita e costretto a percorrere strade anche irregolari.
A questo proposito, citerei quei casi che tutti conosciamo, di prostitute nate in favelas indotte fin da piccole a seguire trattamenti ormonali femminilizzanti ad opera di sfruttatori senza scrupoli, che femminilizzano maschietti graziosi, rapiti o venduti dalle famiglie, e che poi ci troviamo davanti gonfiate di silicone e protesi di ogni genere, senza mai essere state viste da un medico, senza un titolo di studio, che non sanno fare altro che le escort. Storie drammatiche, senza un’infanzia, bambine vittime di una violenza subdola ed efferata che dobbiamo comunque ,da adulte, trattare e controllare medicamente al meglio…. indagare più di tanto non avrebbe senso, per queste ragazzine è andata così.

Le leggi europee tutelano i minorenni, stabilendo che per i percorsi di transizione sostenuti da trattamento ormonale occorre il consenso di entrambi i genitori, e così pure per i trattamenti di ritardo della pubertà. I protocolli (De Vries, Univ.Amsterdam, Dutch protocol 2007 fino ad oggi, wpath 2011) prevedono la presa in carico dei genitori, e supporti pratici nelle scuole, con la possibilità di interpellare bambini e adolescenti con nomi adeguati alla loro scelta di genere e riconoscendoli come tali nel gruppo dei pari. Con grande rispetto e cautela: molti bambini rientrano spontaneamente all’interno del percorso proprio del loro sesso biologico, e quindi è necessario un atteggiamento altrettanto “fluido”, lieve e accettante nel loro ambiente.

E’ la società che dovrebbe adeguarsi, e non i bambini e i ragazzi, che hanno tutti i diritti di svilupparsi e di fare le loro scelte libere, e al momento opportuno.
Quindi, nell’infanzia attendere e monitorare famiglia e scuola; per chi appare istradato su un percorso transgender, si prenderà in considerazione un trattamento di ritardo della pubertà, per poi , una volta ben chiarita la serietà della scelta del Soggetto, instaurare solo allora un supporto ormonale ed eventualmente chirurgico, per rendere il corpo armonico ed accettabile.

Oggi diversi Soggetti rifiutano la medicalizzazione del loro percorso: ragazzi transgender che mantengono il loro corpo femminile ma cambiano identità anagrafica, magari accontentandosi di una plastica al seno, o neanche. Ragazze transgender che affrontano la vita conservando il loro corpo e i loro organi genitali mascolini, ma che si sentono e vivono come donne, e non vogliono essere operate né trattate con ormoni . Noi medici siamo loro alleati, in un percorso di ragionevole e ragionata libertà, di un nuovo modo di vivere il proprio genere: e discutendo insieme, come stiamo facendo qui, questi diversi e nuovi punti di vista ci prepariamo a queste nuove sfide che il domani ci propone.

Dr. Roberta Ribali- Neuropsichiatra e Psicoterapeuta-
CTU del Tribunale di Milano per le tematiche di Identità di Genere

Colonizzati dall’attivismo d’oltreoceano: le pericolose conseguenze dell’aver smesso di ragionare

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Flags of Gay Pride and the US Divided Diagonally - 3D Render of the Gay Pride Rainbow Flag and the United States of America Flag with Silky Texture

L’attivismo T “made in Italy” e il suo valore aggiunto

Nei miei 10 anni di attivismo ho avuto due riferimenti politico/culturali: quello nazionale, rispetto alla mia attività di blogger, e scrittore/vignettista satirico per Simposio e quello territoriale, come presidente del Circolo Culturale TBIGL Harvey Milk, oggi Rizzo Lari, e come attivista del Coordinamento Attivisti Transgender Lombardia.

Gli Stati Uniti, l’Inghilterra, erano solo riferimenti lontani. Alcuni termini che arrivavano dall’America li ho trovati già negli scritti di autrici T italiane, come Monica Romano, Diana Nardacchione e altre saggiste.

Poi, questo linguaggio fatto di alcune parole assorbite dai pensatori precedenti, è stato arricchito e rivisitato dalla mia generazione. Alcuni pensatori T italiani, contemporanei, hanno scritto, su blog e carta stampata, e si sono influenzati tra loro, si sono citati nei reciproci scritti (ad esempio io sono davvero onorato di essere citato su Gender Revolution della cara Monica Romano), hanno riflettuto sulla terminologia, hanno rivisto termini e significati, e ne hanno introdotti di nuovi per concetti prima non messi a fuoco.

Potrei sembrare un pallone gonfiato nel dire che l’Italia, forse l’Europa, o il Mediterraneo, ha un’antica tradizione di “pensiero“: siamo un popolo storicamente abituato a ragionare.

E’ per questo che mi permetto di dire che su alcune cose siamo, come profondità di pensiero, più evoluti degli e delle influencer anglosassoni, divenuti santi laici negli ultimi due anni, a causa della battaglia tra femminismi transincludenti e transescludentitrapiantata in Italia visto che, nel “post-Cirinnà“, non avevamo più giocattolini ideologici a cui dedicarci ed è venuta l’idea di abbattere tutto ciò che era stato fatto in precedenza. Ed è stato quello il momento in cui il mondo dell’attivismo T italiano ha abbassato la guardia, dando alcuni concetti come ormai assodati (ad esempio il fatto che l’identità di genere esista, che cis significa “non trans”, che uomo/donna indichino i generi e maschio/femmina i sessi, ect etc).

L’importanzione obbligatoria di nuovi termini e metodi

E’ stato così che sono stati importati concetti nuovi, prima presentati come “opportunità”, infine diventati “obbligatori” se vuoi definirti attivista in Italia.
Ad esempio l’approccio “intersezionale” doveva essere un’opzione, ma oggi chi dichiara di non volersi occupare di migranti sex workers diventa automaticamente un insensibile stronzo.
Penso anche alla terminologia che fa riferimento alla genetica, xx ed xy, ripresa da Monica Romano nell’autobiografia “Storie di ragazze xy” e da me nella collana di vignette per la rivista il Simposio, “Storie di ragazzi xx“: adesso il delirio “intersezionale”, che vuole mettere in relazione per forza “trans” e “intersex” ha deciso che i termini AFAB e AMAB (Assigned Female/Male At Birth) che hanno sicuramente senso se usati su persone intersessuali (l’assegnazione effetivamente avviene, visto che vi è la compresenza di elementi fisici maschili e femminili), vengono estesi anche alle persone transgender. Se per anni si è fatto un gran lavoro per rendere universalmente condivisi nell’attivismo LGBT termini come maschio/femmina/xx/xy per parlare del sesso, e genere/uomo/donna per parlare del genere, ora una nuova generazione di transgender stranieri, spinti dall’ideologia o dalla disforia, vuole impedire ad altri transgender più risolti di dire “sono biologicamente maschio/femmina” o “sono xy/xx”.
Viene preferito un fumoso AFAB o AMAB, che mette in dubbio la possibilità che la persona sia cromosomicamente davvero xx o xy, “a meno che non faccia l’esame del cariotipo“. Sappiamo benissimo, però, che tra non intersessuali, e persino per una parte di intersessuali, il “binarismo” genetico xx/xy esiste ed è anche un modo poco invasivo per parlare dei corpi senza concentrarsi sulla genitalità, “depotenziandone” il valore sociale, riducendo tutto a una differenza genetica.
Tutto questo mi ricorda i tanti giovani (e non giovani) che arrivavano ai gruppi di autoaiuto e, per non prendersi la “responsabilità” di essere transgender, entravano i percolosi deliri biologici, sospettando intersessualità totalmente millantate che avrebbero “spiegato” il loro sentire, ipotizzando rilasci ormonali durante la gravidanza, o altro, per non ammettere, semplicemente, di essere transgender: uomini xx e donne xy.

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Giovani persone XX “questioning”: rischi e strumentalizzazioni

A delirare, però, nella “letteratura” (direi blogging) anglosassone, però, non sono solo queer e intersezionali: abbiamo anche tutta la barricata di femminismo del determinismo biologico, che se un tempo aveva un certo scetticismo ad accogliere persino le “sorelle” lesbiche, oggi si schiera in modo compatto contro il mondo transgender.
L’attacco è duplice: se le donne trans vengono attaccate per la loro richiesta di inclusione negli spazi politici riservati alle donne (ho scritto molto sul tema, evito di affrontare qui la questione), gli uomini trans vengono attaccati come “traditrici della causa” e considerati uno spauracchio, un triste e pericoloso destino destino da cui salvare giovinette biologicamente xx, che per loro sono “indubbiamente” butch (lesbiche) o tomboy (etero) che “potrebbero essere convinte, dalla società maschilista e dal culto trans, di essere ftm“.

C’è verità in questa paura, ed è vero che in alcune famiglie o contesti sociali una persona xx in età evolutiva comprende che è meglio definirsi qualsiasi cosa (e da qui i numerosi coming out “non binari” che vengono argomentati con riferimenti ai ruoli e non all’identità di genere, e sono quindi ovviamente dei “falsi positivi”) piuttosto che definirsi “donna”, per via dell’immagine svalutante e delle aspettative deprimenti trasmesse persino dagli altri componenti di sesso femminile di famiglia, scuole e società, ed è anche vero che il mondo trans italiano, da sempre impegnato contro il binarismo dei ruoli, oggi fa fatica a porre l’accento su questo problema, per via della strumentalizzazione che il mondo lesbico anglosassone (e recentemente anche italiano) sta facendo del problema, per attaccare, con la scusa della medicalizzazione dei minori (su cui non tutte le persone T hanno la stessa posizione), le persone transgender.

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Dal sito della mamma di una persona questioning, che oggi vive da butch lesbian

Non binary: liberi dalle identità o liberi dai ruoli?

In Italia, in cui per anni sono stati presenti, nella letteratura trans, termini come ftm, mtf e genderqueer (comprendeva tutte le persone T, xx ed xy, in percorsi non canonici), e in cui per anni si è parlato di “antibinarismo” come battaglia sociale contro i ruoli di genere tradizionali e obbligatori, si affaccia questo nuovo termine, “non binary”, applicato all’identità di genere e non al ruolo, ma che, vista l’ambiguità semantica, attrae una serie di persone che lo usano su se stesse per manifestare una presa di distanza dai generi come socialmente concepiti. Qualcuno dice che queste persone, un tempo, si sarebbero definite “checche” o “butch“, ma “non binary” è un termine universale, che può includere maschi e femmine, omo, etero o bi, ed è per questo che alla mia generazione piace.

Non sono qui a dire che non si può essere “non binary”, o che si dovrebbe tornare ai vecchi termini, perché sono Millennial quanto loro, e l’idea di un termine “unico” per parlare di persone portatrici di ruoli non conformi non mi dispiace. L’unica obiezione che faccio a chi si fa portatore di questa definizione è di fare chiarezza e capire se ciò che la spinge a definirsi “non binary” sia una tematica di ruoli o di identità, perché questo chiarimento li aiuterà nel percorso verso la scoperta ed accettazione di se stessi per ciò che sono realmente.

Desister? Disaster! Sovrapposizione tra piani diversi e poche idee, ma confuse.

Se in una società anglosassone, dove la sanità è privata, i giovanissimi “questioning” sull’identità di genere non vengono tanto interrogate sul “se” la loro tematica sia di ruoli o di identità (ammettiamolo, è un problema che riguarda soprattutto persone “native” del sesso femminile), in Italia ciò viene preso molto sul serio da attivisti T e operatori della transizione e infatti i casi di “desister” sono rarissimi e limitati ad alcune persone che avevano preso ormoni col “fai da te ed ad alcune persone adolescenti di biologia xx che si sperimentano come genderfluid sui social per periodi limitati. Questa differenza dovrebbe portare le femministe biologiste italiane a cercare di fare politica e cultura tenendo conto di questeimportanti differenze politiche, sociali, culturali, e di dialogare di più con gli attivisti T italiani, cosa che non avviene, secondo me, anche un po’ per cattiva fede.
Mi fa paura la lettura che le femministe anglosassoni, i genitori dei cosiddetti desister, e i desister stessi fanno del loro percorso di “rivisitazione” della definizione del sè rispetto all’identità di genere.
Il mantra è sempre questo: “Volevo fare cose che la società considera da maschio, e credevo che questo mi rendesse un uomo trans, invece ci vuole molto più coraggio a fare queste cose presentandosi come donna tomboy“. Vignette, meme, e status portano avanti questo concetto, con mamme felici che la loro figlia sia “solo” lesbica (il male minore, ai loro occhi), e che possono fare colazione con la figlia adolescente e la sua amata fidanzatina avendo “scampato” il terribile rischio di avere un figlio trans (e le lesbiche, quasi incapaci di capire di essere considerate “un male minore”, esaltano queste madri).
Quello che si capisce benissimo (se vieni dalla “scuola italiana” di attivismo transgender), dalla narrazione di questi percorsi “desister” che riguardano persone di biologia xx, è che queste persone non erano in grado di capire la differenza tra identità di genere e ruoli di generenè sono state sollecitate, dall’attivismo e dalla sanità, a riflettere su questo (come invece avviene in Italia). Inoltre, in queste persone, vi era spesso una grande lesbofobia (oltre alla misoginia) interiorizzata, che faceva rendere ai loro occhi più accettabile l’essere un ftm etero o una persona non binary attratta dalle donne piuttosto che essere semplicemente una donna lesbica e butch.

In altri casi, però, altre persone xx desister raccontano il loro percorso di vita dicendo che hanno “desistito” per ragioni che riguardano il percorso medicalizzato: temevano effetti collaterali, non volevano perdere i capelli, non desideravano la peluria, o dipendere da un farmaco a vita, o si sono arrese all’idea che “non è possibile ricostruire un pene funzionante”.

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L’autocoscienza trans in Italia: identità di genere, esposizione sociale, desiderio di cambiamento fisico

Io provengo da una scuola d’attivismo che ha sempre affrontato le varie tematiche pertinenti alla vita di una persona T separatamente, anche nella lunga esperienza “clinica” nei gruppi di auto mutuo aiuto con le tante persone questioning che da essi sono passate: prima si parlava dell’intimo sentire della persona, quindi della sua reale identità di genere, poi dell’esposizione sociale che questa persona desiderava dare in quel momento a quest’identità, e infine delle modifiche “medicalizzate” che desiderava o meno, o dell’importanza che dava al passing (non sempre legato alla medicalizzazione, soprattutto in direzione mtf). Ad esempio, su un riconoscimento sociale che non passasse necessariamente dal “passing”abbiamo sempre lavorato molto. Quando la tua identità di genere è dichiarata, puoi costruire con altri strumenti, e non solo con il passing, una rispettabilità sociale, che ti permette di essere riconosciuto/a socialmente come appartenente al gruppo di coloro che hanno il tuo genere d’elezione: lo abbiamo imparato dalla generazione di trans precedente alla nostra, come Deborah Lambillotte, talmente autorevole che chiunque la considerava donna nonostante il suo corpo non proprio esile.

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Desister: siamo sicuri che nessuno di loro è transgender?

Queste “desister” fanno politica confondendo i piani, e vengono riempite di like di donne femministe, lesbiche e mamme palpitanti. Se interrogate sulla loro “autentica” identità di genere, spostano il tema sul “coraggio” che si ha a vivere socialmente come donna tomboy o come uomo ftm medicalizzato, oppure ti parlano di presunti effetti collaterali della tos e scelte “non invasive“.
Inoltre parlano delle persone trans come stereotipi viventi, donne oche aderenti ai più beceri stereotipi femminili ed ftm bulletti insensibili ai drammi del vivere al femminile in una società misogina: immaginare il mondo trans così, ovviamente, conferma la loro “coraggiosa” scelta di vivere da tomboy, e la “fortuna” di essersi salvate da un mondo che “sposta le persone da una gabbia all’altra“.
Quello che sto “insinuando”, dopo due chiacchiere con alcuni di loro, è che queste persone non sempre sono persone “cis che credevano di essere trans. Tante di loro sono persone T a cui il “vestito” della transizione canonica non stava a pennello.
Del resto, però, l’opzione “transgender non med” sembra esista ed abbia identità politica, anche se faticosamente, solo in Italia. All’estero, anche quando si parla di minori, sembra che le alternative siano sempre “accettarsi come giovane donna femminista” o “medicalizzarsi in fretta e furia per vivere un’adolescenza al maschile“. Non si parla mai di identità di genere, del come esprimerla, sperimentarla, anche da giovanissimi, ma tutto viene ricondotto ai corpi.
Del resto, questo tipo di attivismo femminista radicale, “critico verso i trans”, l’esistenza dell’identità di genere la nega e riconduce tutto ai corpi e ai ruoli, ed è per questo che diventa irrilevante “cosa” sia il desister (se la sua identità di genere sia maschile o femminile), ma lui/lei è semplicemente come si sta vivendo, quindi se vive da donna in un corpo da donna (non importa se per motivi sociali o di salute), “è” una donna.

Sgombrare il campo dall’esistenza dell’identità di genere permette di non farsi domande: chi torna a vivere al femminile è donna, lo era prima, lo è sempre stata, ed era stata semplicemente “plagiata” dal culto trans.

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Conclusione: quanto l’attivismo T italiano deve orientare un occhio all’Oltreoceano?

Concludo dicendo che per anni, finchè ho potuto, ho ignorato i blogger anglosassoni anche se lo sguardo delle femministe biologiste italiane e dei queer era rivolto lì (ma in quegli anni il dialogo era chiuso, sia coi queer che con le “biologiste”). Rivendicavo il lavoro che io, e i miei contemporanei “colleghi” attivisti T italiani, ma anche i nostri “padri” (o meglio: madri) italiani avevamo fatto con le loro opere saggistiche. Oggi, però i pochi dibattiti pubblici tra esponenti del mondo gaylesbico e del mondo trans dimostrano che i primi/le prime arrivano iper-informati/e sul dibattito d’oltreoceano, i secondi cadono dalle nuvole (giustamente: noi ci occupiamo di vissuti e di supporto ai giovani T, per sopperire alla carenza delle Istituzioni) e si radicalizzano sull’idea che si debba parlare dell’attivismo transgender di casa nostra. E’ questo, a parer mio, che non ha funzionato nel dibattito tenutosi un anno fa al Guado, con come relatori Enzo Cucco, Cristina Gramolini e Monica Romano.
Se in parte gli attivisti trans (non queer) italiani hanno ragione a pretendere che gli attivisti omosessuali/lesbiche evitino di ignorarli preferendo come “antagonisti” i queer italiani oppure i trans d’oltreoceano, forse l’unico modo per salvare capre e cavoli è sforzarci di seguire questo “twitterdibattito” e far si che il nostro background culturale, quello faticosamente costruito e che rischia di andare perduto, sia una solida baseper contestare le idee deliranti dell’una e dell’altra barricata, nessuna delle due realmente “amica” dei diritti trans, e in particolare dei diritti “trans non med”. Quindi, armiamoci di vocabolario, di corsi intensivi di inglese, e del traduttore di google, e cerchiamo di capirci qualcosa di questo assurdo ginepraio, prima che queste idee malsane arrivino qui e minaccino la roccaforte del nostro pensiero.

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Lettera a Daniela Danna, cosa ho apprezzato e non apprezzato della “Piccola Principe”

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Sono stato uno dei primi a leggere il libro di Daniela Danna (La Piccola Principe), dopo la sua uscita nelle librerie. Ho fatto molta fatica a reperirlo, essendo piena estate, e alla fine ho dovuto usare Amazon.
Ho pensato che la cosa più sensata da fare, prima di scrivere una recensione, fosse mandare le mie impressioni a Daniela stessa, perché sono totalmente disinteressato al clima di contrapposizione e di opposizione creatosi negli ultimi due anni tra mondo lesbico/femminista e mondo trans, e che secondo me deriva, in buona parte, dal non riuscire ad avere un linguaggio condiviso.

Premetto che il mio è un punto di vista particolare, essendo io un uomo transgender ftm, ma anche un uomo gay e anche un sostenitore del percorso non medicalizzato come una delle opzioni possibili. Le mie impressioni, leggendo il libro, sono fortemente influenzate dal mio percorso personale e politico.

Vorrei mantenere la forma del testo che ho scritto “di getto”, dopo la lettura a caldo, direttamente a Daniela.

Daniela Danna

 

Cara Daniela,
come promesso, ti scrivo cosa mi è piaciuto, non mi è piaciuto, o mi risulta poco chiaro del tuo testo. Vado in ordine cronologico, e appunto considerazioni pagina per pagina.

 

Inizio dalle persone a cui ti rivolgi, ragazzine che pensano di avere una tematica di identità di genere (identificandosi come “altro da donna”) al femminile, immagino perché finora sono state “socializzate” come tali: dal tuo punto di vista ciò ha senso, ma se fossi io il giovane ftm in questione, preferirei che mi si rivolgesse il più possibile al neutro, proprio in quanto persona “questioning”, ma temo vada contro le intenzioni filosofiche del libro. Non dico questo in quanto sostenitore ideologico del linguaggio genderless, ma penso sia meglio lasciare la persona questioning “in campo neutro”, per venire incontro alla sua sensibilità.
So che non è la tua politica, ma volevo condividere il mio approccio con te.

 

Voglio pensare che questo libro non sia rivolto ai giovani transgender ftm, ad esempio a quel “me giovane”, che, in anni in cui non si parlava di t (figuriamoci di ftm, e figuriamoci di ftm gay) si è sentito “cancellato e frainteso”, ma che si rivolga piuttosto a chi “pensa a torto” di essere ftm, a chi, per i pochi strumenti che ha, a causa anche dell’età, confonde identità di genere, ruolo di genere, e orientamento sessuale, e quindi non si rende conto di avere una tematica di “lesbismo” o di “ruoli”, e di non essere, quindi, transgender.

 

Il problema che sollevi esiste, e io in dieci anni di “sedicenti ftm” ne ho conosciuti diversi, soprattutto sui social, ma non solo: era evidente, in alcuni di questi casi, che la tematica fosse chiaramente di “ruolo” di genere, e che la persona avesse un’insofferenza al binarismo sociale dei ruoli.
Queste persone, però, che hanno fatto il percorso in Italia, sono state bloccate alle prime sedute del percorso psicologico. I pochi casi italiani di de-transizionati riguardano persone che hanno fatto il “fai da te”, spesso senza approdare alle associazioni transgender.
Segnali, comunque, un tema che sto cercando di portare all’interno dell’attivismo transgender, e su cui il gruppo di attivisti trans con cui mi confronto (il Progetto Identità di Genere dei Circolo Rizzo Lari, ex Milk), ovvero l’esistenza dei “de-trans, e il pericoloso rischio, nel caso di persone di nascita xx, che la tematica sia squisitamente di ruoli di genere o di omosessualità non accettata.

 

Quando parli di esperienze relative alla scoperta di sè come ragazzina lesbica, non posso dare molti elementi di critica: non è la mia storia. Tuttavia penso che non sia diverso per chi, con un passato da “ragazzina maschile”, guardava i ragazzi (a me interessavano quelli delicati, quelli bullizzati perché effeminati, o perché rifiutavano di aggregarsi al gruppo dei bulletti): ci si sentiva, comunque, “satelliti” in un mondo in cui tutto ruota attorno al maschile virile ed eterosessuale. Qui colpisci nel segno, e ti faccio i miei complimenti.

Devo farti un appunto, probabilmente sgradevole: l’uso di uomo e maschio. Sicuramente conosci, forse la rifiuti, la convenzione che usa maschio e femmina per parlare di corpi e uomo e donna per parlare di “menti”. In tal logica, credo sia un errore dire che i transgender vogliano “diventare maschi”. I transgender (ftm) vogliono essere inclusi nel gruppo sociale degli altri uomini, ed alcuni di questi, se hanno una disforia fisica, vogliono anche adattare il loro corpo in modo che “somigli” a quello dei nati maschi. Questo lo spieghi anche tu, ma non avrei usato “diventare”. Sono termini che, come comunità di attivisti transgender, abbiamo “deprecato”: suonano riduttivi riguardo al nostro percorso, alla nostra capacità di analisi, introspezione e “contatto con la realtà”.

 

Sulla parte dei casi storici di “passing women” non dico nulla: nessuno sa i motivi che hanno spinto queste persone a vivere al maschile. Scrissi un saggio dieci anni fa, inoltre c’è una digressione interessante in questo testo, che ti consiglio. Sicuramente a volte era una questione di ruolo, altre di orientamento, altre di entrambe, e altre ancora di transgenderismo.

 

Poi parli di una sorta di “disforia giovanile”, che non ho ben chiaro se riguardi il genere (sentire di appartenere al gruppo sociale dei ragazzi) o il sesso (avere un fastidio per alcune parti del corpo, magari appunto per ciò che rappresentano), nelle ragazze lesbiche. Questo, come sai, non mi appartiene, e non ne ho esperienza. Penso che possa essere indotto da una svalutazione sia del femminile (e riguarda ragazzine con qualsivoglia orientamento), sia della messa in discussione della stessa possibilità che si possa essere donne attratte da donne (in una coppia deve esserci sempre un uomo tra i piedi, e se non c’è, allora…sei tu), in un mondo eteronormato ed eterosessista.
Credo fortemente che l’unica “disforia” non sia quella delle persone trans, ed è interessante che il mondo lesbico indaghi le “disforie giovanili” delle giovani questioning, che poi si scopriranno lesbiche, ma attenzione a non farne un discorso generale: una disforia che potrebbe sembrare simile, osservandone gli effetti, ha radici completamente diverse in una giovane persona Ftm (non riguarda il ruolo di genere, e non riguarda l’orientamento sessuale). Avrei sottolineato maggiormente questo punto.

 

Una delle parti che disapprovo maggiormente del saggio è quella in cui parli delle persone transgender. Usi “transessuale”, forse è una scelta, ma la comunità ha deprecato da tempo questa parola per passare a “transgender” (o, semplicemente, trans), proprio perché, come dici tu stessa, il sesso non si cambia.
Ad un certo punto, vuoi spiegare qual è il vero spartiacque tra le “tomboy questioning” e i “veri trans ftm”, e per farlo accenni all’ “odio/non accettazione per il/del corpo”.

Nei gruppi di autocoscienza ho conosciuto centinaia di persone, e nessuna, neanche i transgender medicalizzati, descriverebbero la loro esperienza usando questo come punto focale. E’ una lettura pericolosa, che porta a una visione “dismorfofobica” del percorso transgender, non mettendo al centro il vero punto focale: l’identità di genere e la richiesta che essa venga rispettata.

Anche quando parli del percorso medicalizzato, ribadisco il fatto che sarebbe meglio evitare il “vogliono diventare” (uomini/donne), perché una persona transgender ftm, come identità di genere, è già (a prescindere dalla medicalizzazione) uomo, e la medicalizzazione, semmai, avvicina la sua immagine fisica a quella dell’uomo nato maschio biologico, per favorire il suo benessere psicofisico e anche il riconoscimento sociale come appartenente al genere d’elezione.

Mi soffermo adesso sul punto in cui parli di persone che, prima dell’adolescenza, non hanno dato segnali dell’essere transgender. Forse questo dato può generare sorpresa in chi non fa parte della subcultura trans, ma da decenni noi T, per distinguere i nostri percorsi e le loro peculiarità, abbiamo rispolverato “transgenerità primaria” e “transgenerità secondaria” (termini ormai deprecati, e che suonavano sgradevoli quando qualcuno li usava per decidere le nostre sorti), per poter confrontare i vissuti diversi di chi si è scoperto o dichiarato transgender molto giovane e di chi, magari, ha portato fuori questa parte di sé in tarda età. Nessuno dei due percorsi, naturalmente, è più “autentico”, ma spesso l’aver sperimentato socializzazioni di genere diverse in età diverse porta utili elementi al confronto, così come avviene tra omosessuali o lesbiche che si scoprono o si accettano da giovani oppure, magari, dopo una vita tra matrimonio e figli.

Vengo al punto in cui citi l’autismo. Legare autismo e transgenerità è una nuova moda teorica che noi, che ci siamo battuti un’intera vita per la depsichiatrizzazione della condizione trans, non vediamo di buon occhio e non consideriamo scientificamente autorevole.
La ragazzina del tuo caso studio, che legava la sua apparente “freddezza” caratteriale, a quanto pare tipica del cervello neurodiverso, alla “virilità”, e quindi si identificava come ftm, commetteva il solito errore di confusione tra identità di genere e stereotipi di genere (in questo caso, uno dei peggiori). Mi chiedo come queste persone, in sistemi dove prevale la sanità privata, siano seguite dal punto di vista psicologico. I falsi positivi trans, che tu denunci, non fanno bene nè alle persone che ci incappano, né alla comunità trans.

 

Nel passo in cui si parla delle trans degli anni settanta/ottanta, ho colto, e spero di sbagliarmi, una maggiore “simpatia” verso chi, facendo il percorso mtf, non può cadere nel tranello dei ruoli: mentre è facile pensare che una ragazzina si possa “immaginare ragazzo” per liberarsi di una serie di catene dell’educazione riservata alle femmine, di una giovane persona in direzione mtf, quindi “verso il peggioramento sociale”, si immagina che il percorso sia maggiormente autentico (se vuoi vivere da donna, o sei masochista, o lo sei per davvero). Forse è per questa ragione che gli Ftm, storicamente, sono stati maggiormente nel mirino delle pensatrici lesbiche. Su questo mi piacerebbe confrontarci, amichevolmente.

Arriviamo al vero punto di incomunicabilità tra mondo femminista e mondo trans: il fatto che il femminismo usa “genere” come termine omnicomprensivo di “identità di genere” e “ruolo di genere”, termini che, per narrare l’esperienza trans, è necessario scorporare.
A pagina 24 usi “genere” non facendo questa distinzione, e fai considerazioni molto vere, con tutte le conseguenze drammatiche e sessiste che indichi, ma se attribuite a “ruolo di genere”. Questa parte mi ha molto colpito e invitato a riflettere, perché noi trans non ci interroghiamo e confrontiamo solo sul nostro tema specifico (l’identità di genere), ma anche su ruoli e stereotipi di genere (tema esteso anche a chi non è trans e su cui, storicamente, ci siamo sempre confrontati, ad esempio, con omosessuali e lesbiche).
Ogni persona trans deve confrontarsi sia con i ruoli relativi al sesso biologico, sia a quelli del genere d’elezione, e l’esperienza di passaggio, di “cambiamento di socializzazione di genere”, ci mette in un osservatorio privilegiato, rispetto alle diseguaglianze sia di sesso, che di genere.

 

Un’altra obiezione che sento di fare è sul fatto che la trattazione non tiene conto dei percorsi non medicalizzati.
Vi è una contrapposizione dicotomica tra il percorso butch/tomboy, o quello di “Big Pharma”.
E’ vero che gli attivisti transgender non med, in Italia, sono pochi, poiché il grave stigma riservato ai trans “senza passing” causa un elevato tasso di “velatismo”, però all’estero è una condizione sdoganata, e mi stupisco che, dove questo dibattito è nato, la condizione “non med” sia stata volutamente ignorata, forse perché pone ennesimi interrogativi e spunti che minerebbero i corollari delle due barricate.
Visto che contrasto il “vassallaggio” rispetto ad un dibattito nato in un luogo che vanta profonde differenze socio-culturali, perché non introdurre questi nuovi temi e punti di vista nel dibattito italiano? Il dibattito, qui, non ha ancora raggiunto i livelli di tossicità delle bacheche twitter anglosassoni, perché non provare?

In alcuni punti del tuo testo vedo una svalutazione del percorso medicalizzato, che non è il mio ma quello di tanti amici ed amiche. Si sottolineano gli “effetti collaterali”, come la calvizie, e, anche se la trattazione allude al fatto di fare questi trattamenti su minori (anche se in alcuni punti è poco chiaro se si stia parlando di testosterone o inibitori), la svalutazione poi colpisce i trans medicalizzati adulti, e secondo me si poteva evitare, perché “collaterale” al tuo messaggio principale. Immedesimandomi nei miei amici trans medicalizzati (adulti), mi sentirei svalutato se si parlasse così del mio corpo, e dei cambiamenti da me tanto attesi, che mi hanno così tanto reso felice (magari anche quello della stempiatura, se la persona la includeva nell’immagine di sé). Penso che la parte peggiore di questo pezzo sia quella dove si parla dei trans, mi perdonerai la parafrasi, come “esperimenti della teoria queer”. I ragazzi trans medicalizzati sono semplicemente transgender che, oltre alla disforia sociale, avevano anche una disforia fisica, e mi fa male sentirne parlare così. Spero che un giorno si possa fare un confronto aperto tra donne e uomini ftm portatori di percorsi diversi (med o non med) in modo da narrare le nostre storie in prima persona.

Sempre rimanendo sul tema della medicalizzazione, io posso comprendere lo scetticismo e la paura per la medicalizzazione dei minori, soprattutto se “questioning”, ma non condivido invece la critica alla sperimentazione sociale in quello che si crede sia il proprio genere d’elezione. Al netto delle posizioni ideologiche (che tutti noi abbiamo, sia femministe che trans, ed è inutile negarlo), cosa c’è di male nel far sperimentare nella socializzazione di genere un giovane questioning, salvo poi tornare indietro se il “vestito indossato” risultasse troppo largo o stretto?

Altro punto debole a mio avviso è l’aver trattato solo i casi “desister” la cui ragione era il “non essere trans”. Eppure vi sono casi in cui il dietrofront sociale è causato da paure sociali o dal fatto che il percorso medicalizzato non era quello più indicato o portava risultati modesti rispetto alle aspettative (soprattutto, ad esempio, riguardo alla ricostruzione dei genitali maschili).
Alcuni tuoi casi studio si descrivono al passato come “ragazze che odiavano se stesse”: se questa narrazione può essere reale per loro, ci sono “de-trans” che continuano a identificarsi come ragazzi, magari solo in una ristretta cerchia di persone fidate, ma hanno rinunciato al percorso med o a dare visibilità sociale alla loro identità di genere.

 

Condivido molto il tuo pensiero che  la pubertà la si debba sperimentare senza interferenze medicalizzate, ma voglio capire cosa intendi quando dici che i “bambini trans” non esistono. Penso che noi persone LGBT adulte lo siamo stati anche da piccoli. Un ragazzino è gay anche se in quegli anni non prova attrazione erotica, o non pratica del sesso omosessuale, e anche un ragazzino trans lo è anche senza medicalizzazione e coming out. Che poi i ragazzini sedicenti T (ma forse in generale LGBT) siano molti di più di coloro che useranno questa descrizione di sé una volta diventati adulti, è un fatto (un fatto su cui dovremo interrogarci, anche io stesso entrai nel panico negli anni dell’ingresso nel mondo del lavoro e “degli adulti”, e valutai di mettere nel cassetto me stesso).
Tuttavia, penso sia un po’ violento dire che “i bambini trans non esistano”, per chi di noi, lettore del tuo libro, bambino trans lo è stato. E io, guardando indietro, non penso a me come un bambino “non trans”, ma come una persona che, nell’epoca dei dinosauri, provava a raccontare cosa sentiva, ma senza ascolto, o con reindirizzamenti indesiderati verso “altro” (appunto il femminismo, o addirittura il lesbismo, nonostante io abbia sempre affermato il mio interesse verso partner ragazzi).

 

Vengo al termine “cis/cisgender”, che nella subcultura transgender usiamo da decenni per descrivere “l’altro da noi”, come i gay e le lesbiche usano “etero”. In un’ottica in cui la differenza tra ruolo e identità è assodata, cis è un termine innocuo e riguarda chi non ha una disforia di genere. Da quando è nata questa nuova visione che ingloba i due concetti, cis è stato letto come “persona supina ai ruoli” e in questo caso come “donna conforme ai ruoli”, ma ci sono donne cis estremamente emancipate e libere, come ci sono donne trans “oche”, ma esistono ad esempio anche donne trans emancipate e persino “mascoline”, perché, come dici tu, in ogni uomo o donna (trans o cis che sia) esistono sfumature di ruolo maschili e femminili, perché i ruoli non sono naturali, ma decisi a tavolino per “fare ordine”, e farlo dal punto di vista della convenienza maschile cis, ma poi ognuno di noi ha le sue predisposizioni ed evoluzioni riguardo ai ruoli. Cis non riguarda l’emancipazione dai ruoli. Se però nelle guerre femministe (intersezionali VS tradizionaliste), “cis” ha cambiato significato, questo è un grosso problema comunicativo per tutti noi che, prima  di queste guerre, abbiamo costruito un linguaggio e ora lo dobbiamo cambiare.

 

Andando avanti nella lettura, arrivo alle testimonianze delle ragazze intervistate, e leggo nelle loro parole tanta confusione e disagio. Mi dispiace che queste storie siano diventate l’emblema di una condizione. Io stesso quando mi contattano persone così a chiedere aiuto, le “provoco” e le stimolo a capire se la T è davvero la loro strada, anche se io posso solo dare un contributo di pensiero, e mai sovradeterminare gli altri.

 

Vedo che ad un certo punto viene introdotto il tema “nati nel corpo sbagliato”: io non mi sono mai sentito “nato nel corpo sbagliato”, e combatto questa retorica.
Esistono gli uomini xx, anche se sono pochi rispetto alle donne xx.
Esistono nella variabilità della “natura”, non è un’anomalia, un disturbo, ma una variante, e gli uomini xx hanno un corpo diverso dagli uomini xy.
Sono uomini diversi, per storia e per fisiologia/fisionomia, ma sono diversi anche dalle nate xx che hanno un’identità di genere femminile. Sono altro.
Politicamente chiederemo che il nostro nome e genere sia riconosciuto allo stesso modo di quello degli uomini xy, ovviamente, ma questo non significa negare di essere uomini xx.
Concludo sul tema “butch/tomboy VS ftm”. Se esiste un “sé misogino” che può portare una butch/tomboy a pensarsi come un ftm, esiste anche un “sè transfobico” che fa pensare il contrario a chi magari preferisce una vita da butch/tomboy ad una da trans ftm, cosa che, almeno in Italia (e qui sottolineo il bisogno di riportare il dibattito alla nostra realtà locale), è ancora uno stigma. Non credere sia facile dire, oggigiorno, “io sono trans”.

 

Tutti quelli che ho scritto vogliono essere spunti per un confronto. Forse possono fare chiarezza sul perché alcuni contenuti siano arrivati come uno schiaffo alle persone trans. Non è il mio obiettivo correggere con una penna rossa. Probabilmente alcune delle mie prospettive sui tuoi contenuti sono per te nuove.
Se, da un lato, il mondo lesbico non ha cercato interlocutori ftm, io stesso come ftm gay mi sono tenuto alla larga dalle lesbiche, sia per i precedenti “riparativi” risalenti a vecchi contatti, sia perché ovviamente preferisco la compagnia maschile e maschile gay, per ovvie ragioni identitarie. Oggi, visti questi strappi, penso sia stato un errore, quindi ci provo, provo a dire la mia.

Spero di non essere apparso supponente o sgradevole e che io possa pensare ad un dialogo con te e con la tua subcultura.

Con Stima
Nathan

 

www.mondadoristore.it

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