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Variazioni sul tema dell’identità di genere, con Nathan Bonnì e Sabrina Bianchetti (27 gennaio)

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PARLIAMONE. Variazioni sul tema dell’identità di genere, con Nathan Bonnì e Sabrina Bianchetti (serata del 27 gennaio)
https://www.facebook.com/events/1067435383329695/

PETER PAN GUARDA SOTTO LE GONNE
dal 26 al 31 gennaio 2016
Campo Teatrale
da mart a ven ore 21 – domenica ore 18:30
via Cambiasi 10, Milano
Metro MM2 Udine-Lambrate
Linee di superficie 55-62

di Livia Ferracchiati
con Linda Caridi, Luciano Ariel Lanza, Chiara Leoncini, Alice Raffaelli
regia Livia Ferracchiati
drammaturgia Greta Cappelletti e Livia Ferracchiati
movimenti scenici Laura Dondi
scene Lucia Menegazzo
costumi Laura Dondi
luci di Giacomo Marettelli Priorelli
promozione Andrea Campanella
compagnia The Baby Walk

Per i soci milk il biglietto costerà 10 euro e non 20.

Seguirà una chiacchierata post-spettacolo con:
Arch. Nathan Bonnì, Presidente del Circolo Culturale TBGL Harvey Milk Milano, autore di Progetto GenderQueer Autore, autore e fondatore della rivista Il Simposio

Ing. Andrea Sabrina Bianchetti, attivista del Circolo Culturale TBGL Harvey Milk Milano

Roberta Ursino
Promozione Campo Teatrale
via Cambiasi 10, Milano
tel 02 26113133
mob 320 0799908
roberta@campoteatrale.it
www.campoteatrale.it

Evento ufficiale, relativo a tutte le date dello spettacolo
https://www.facebook.com/events/1660371244229080/


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GPA, gestazione per altri: visione di Dall’Orto

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Per una volta devo dire che sono totalmente d’accordo con Giovanni dall’Orto.
Avevo un articolo sul tema in bozza da un po’, ma questo articolo sintetizza bene la mia opinione (so che arriverà la pioggia di insulti delle femministe, ma amen!)citazione di: https://www.facebook.com/notes/virginio-mazzelli/sulla-maternit%C3%A0-surrogata-per-le-coppie-omosessuali/894331067348473
Sulla maternità surrogata per le coppie omosessuali
Ieri a Padova https://www.facebook.com/dallortogi… , nonostante il tema del dibattito fosse la critica della teoria queer, come è tipico di un Paese in cui dibattere è ormai impossibile, fra il pubblico c’è stata chi ha approfittato del fatto che finalmente si stava dibattendo per chiedermi cosa ne pensassi… della maternità surrogata. Pratica su cui Daniela Danna ha appena pubblicato un libro molto critico http://www.danieladanna.it/ e sul quale sinceramente penso che il dibattito sarebbe urgente e necessario (e non c’è!). Siamo di fronte a uno di quei problemi di bioetica in cui la questione non è affatto in bianco e nero, come al solito affermano gli oppositori della pratica, ma anche qualche sostenitore meno avveduto degli altri. La posizione di Daniela Danna, ossia che a suo parere la pratica è ammissibile solo a titolo puramente gratuito e volontario, come dono, tendenzialmente è la mia, in quanto sono contrario, per principio, a qualsiasi commerciabilità di qualsiasi parte del corpo umano: denti, gameti, reni o polmoni: poco importa. (Questo fa parte di un ragionamento più ampio che include anche la contrarietà al concetto di brevettabilità del genoma vivente a qualsiasi titolo, che però vi risparmio). Ciò premesso, trovo impossibile il ricorso ad entrambe le posizioni che oggi si contendono l’arena. La gratuità assoluta, infatti, è impossibile, o se praticata innesca una serie di problemi etici non meno gravi di quello che intende risolvere. Una gravidanza infatti costa, quindi è solo logico garantire il rimborso delle spese sostenute “per conto terzi” (in caso contrario si creerebbe una discriminazione fra donne ricche e donne povere, e nient’altro). Inoltre dei rimborsi fa parte anche la perdita della capacità lavorativa, per la quale non a caso è previsto il congedo di maternità. Nemmeno questo può essere logicamente negato, trattandosi di un preciso diritto della donna. Supponiamo allora di attenerci all’osso di queste spese e di scoprire che il puro e semplice rimborso spese per figlio per conto terzi costerà in questo modo 20.000 dollari invece che 100.000 dollari. Il problema è che per una donna del Bangla Desh che vive lavorando, e guadagnando meno di un dollaro al giorno, 20.000 dollari di “rimborso” sono una fortuna tale da “incentivare” il “dono” della gravidanza per conto terzi…. solo, a retribuzioni molto più basse di quelle attuali. Un risultato, questo, che a livello mondiale finirebbe per incentivare anziché scoraggiare la prassi: diminuendo i prezzi si amplierebbe il mercato, come sempre avviene. A meno di voler pagare 20.000 dollari la donna “ariana” e 500 quella del Bangla Desh, dato che il suo corpo “vale” meno di quello di una donna bianca ed ariana e magari pure ammerrecana: soluzione che oltre ad essere iniqua non risolverebbe neppure lei il problema, dato che ci si ridurrebbe, alla fine, solo ad innescare un feroce dumping sulla quantità di denaro che finisce alle donne, e quindi daccapo a un aumento, non a una diminuzione, dello sfruttamento dei loro corpi. Visto che comunque una donna gravida deve mangiare bene (per il feto, ovviamente, mica per sé!), per chi vive con un dollaro al giorno sarebbe comunque conveniente restare incinta per conto terzi per potere almeno mangiare bene per nove mesi all’anno, senza contare che potrebbe comunque lavorare lo stesso per gran parte del periodo della gravidanza (le donne contadine hanno sempre lavorato fino al giorno del parto, che lo volessero o no. Il dare per scontata la maternità a casa in congedo lavorativo svela l’ottica borghese e benestante da cui è stato condotto fino ad ora il dibattito, quindi il bias di classe contenuto e mai manifestato nel dibattito: quello di una donna o di un uomo borghese e del primo mondo che sfrutta il corpo di una donna sottoproletaria/contadina e del terzo mondo). Il risultato finale, paradossale, sarebbe solo che la gravidanza per conto terzi non costerebbe meno all’utente finale (il prezzo lo fa la domanda, non l’offerta) però alle donne, che perderebbero potere contrattuale, finirebbe una quota nettamente minore della somma, tutto il resto rimarrebbe agli intermediari. Inoltre esploderebbero i contenziosi: che succede se la donna del Bangla Desh anziché mangiare bene usasse il denaro del cibo per pagare le medicine alla madre anziana, e il bimbo nascesse denutrito? Che doveri etici avrebbe il recettore del “dono” nel caso il bimbo nascesse affetto da handicap? O se cambiasse idea, e non pagasse, lasciandolo sul gobbone di una madre già disperata? Dopo tutto, ciascuno di noi è tenuto a onorare un contratto, mentre ognuno di noi è libero di rifiutare un dono. E non sto parlando delle 9999 persone che, entrate in un accordo di dono, lo rispetterebbero meticolosamente (per questi casi, non serve discutere di leggi). Parlo di quell’una persona su diecimila che non lo rispetterebbe, e per la quale le leggi sono pensate ed approvate. Ebbene: cosa deve prevedere una legge in caso di mancato rispetto degli accordi di dono? Deve esserci un contratto? Ma un contratto che preveda un rimborso, non potrebbe essere una banale compravendita mascherata da dono? Ci risiamo, daccapo: cambia il nome, non la sostanza. Questa si chiama ipocrisia, e non giustizia. Per evitare che tutto ciò possa accadere esiste, dal punto di vista logico, una sola soluzione: proibire la gravidanza per conto terzi SEMPRE, ANCHE su base di dono volontario. Cioè la posizione delle destre, che però non è quella di Daniela Danna. Ebbene: neppure la posizione delle destre sarebbe risolutiva. Escludendo la soluzione più semplice (affermare che il bambino è nato col metodo tradizionale durante un po’ di turismo sessuale, e qui si premierebbe l’ipocrisia, non la giustizia) niente impedisce che una organizzazione (che a questo punto sarebbe ovviamente criminale anziché medica) manifatturi un “surplus” di bambini abbandonati nel Terzo Mondo (magari in qualcuno dei troppi campi profughi di cui è costellato il mondo) offerti poi in adozione – [per le signore, figlio abbandonato di madre Tale de’ Tali e di padre ignoto, per i signori invece figlio di padre ben noto (e pagante) che riconosce come suo il minore e di “madre che non vuol essere nominata”] attraverso i canali internazionali attraverso i quali è sempre passata la “tratta dei bambini”. Il risultato sarebbe creare una occasione di mercato per la mafia, e non maggiore giustizia e soprattutto non maggiore “moralità” cattolica. Per fugare tutti questi dubbi esiste un unico modo per impedire lo sfruttamento economico del corpo delle donne: fare in modo che sulla Terra non esistano donne che vivono con meno di un dollaro al giorno. Un problema che però oggi come oggi non sta più a cuore assolutamente a nessuno. A iniziare proprio dai libertariani e dai propugnatori della “libertà delle donne di disporre del loro corpo” “anche” nel farsi pagare per una maternità surrogata. Forse però, chissà, molte di queste donne non sono affatto “libere” di vendere il loro corpo, forse, chissà, forse sono solo “costrette a farlo”, dalla fame. Sì, lo so che alcune no, eccetera, ma dire “alcune no” implica che “alcune sì”. Perché questo aspetto viene fuori se si parla di sesso, altrimenti è irrilevante? La maternità surrogata è insomma solo un sintomo, non la causa delle ingiustizie del mondo. Magari, preoccuparsi un poco più delle ingiustizie economiche non sarebbe una cattiva idea. E questo vale in primis per i cattolici sempre pronti a stracciarsi le vesti per la maternità surrogate, ma non per le madri, e i figli, letteralmente alla fame. Also spracht Giovanni Dall’Orto.

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Note sull’essere transgender non medicalizzato/a

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Gentili lettori,

mi hanno spesso chiesto di parlare di cosa significa essere transgender e “non medicalizzati”. 
Io non sono molto favorevole ad esprimermi se la richiesta arriva sotto questi termini.

Quando si usa un “non”, tacitamente e in modo strisciante, si lascia intendere che quel non faccia divergere da una norma, da una convenzione, e che quindi si debba giustificare un’identità o condizione.

Il fatto che non esista un termine che non contenga un “non” per descrivere i transgender che “non” compiono una transizione medicalizzata, lascia intendere che ci si aspetta che tutti i transgender percorrano quell’iter, e che tutto il resto sia eccezione.

Eppure i transgender sono esistiti da sempre, da molto prima che la scienza desse la possibilità di agire sul proprio sesso in modo da renderlo funzionalmente ed esteticamente simile a quello opposto, ovvero a quello che molti transgender sentirebbero maggiormente appropriato per se stessi.

Parlando dei transgender del passato sarebbe superfluo definirli “non medicalizzati”, ma ora che la possibilità di medicalizzazione esiste, viene data per scontata, e viene considerato bizzarro che una persona non desideri usare questa possibilità.

Vi è anche spesso una forma di delegittimazione delle persone transgender del passato, spesso rivendicate da femministe, gay e lesbiche, a prova che comunque ancora una volta la medicalizzazione (anche nel caso fosse impossibile per il fatto che all’epoca non esistesse) rimane l’unico strumento per rendere credibile una persona T.
Quando non presente, si fa leva sul “ragionevole dubbio” che queste persone non fossero trans ma solo omosessuali (uomini e donne) in cerca di conformismo sociale come etero socializzati nel sesso opposto, o di donne in cerca di un’emancipazione che potevano avere solo in panni maschili (teorie valide per alcuni di questi personaggi, ma non per tutti).

In un mondo non burocratizzato come quello del passato, e il cui binarismo dei ruoli rendeva più facile il “passing” di una persona non medicalizzata (si pensi ad Albert Nobbs), queste persone (a cui spesso bastava cambiare città per cambiare socialmente genere) erano molto più felici delle persone T di oggi, il cui nome anagrafico appare stampato pure sulla tessera della Coop.

L’esigenza della medicalizzazione per dare credibilità a una persona T , chi danneggia?
Apparentemente colpisce solo per persone non medicalizzate, ma ad essere colpita è l’intera comunità transgender.

Cosa significa essere transgender? E’ transgender colui che , nato di un sesso genetico, manifesta un’identità di genere che, secondo la norma statistica, è in “disaccordo” col suo sesso genetico.

Molte persone transgender vivono questo “disaccordo” in modo “disforico“.
Talvolta la disforia ha una natura maggiormente personale (il disagio è col proprio corpo, che la persona T considera non appropriato a rappresentare la propria identità di genere), talvolta è più sociale (la persona T soffre il suo mancato riconoscimento come appartenente al genere d’elezione), talvolta tocca altri aspetti (solo caratteri sessuali secondari, o solo primari, o la sfera sessuale, o il nome anagrafico), talvolta vi è la compresenza di tutti questi aspetti “disforici”.
Inutile e di stampo discriminatorio delineare uno spartiacque tra vissuti disforici riconducibili alla condizione trans e invece casi in cui la persona non va considerata trans.

In base al tipo di disforia che una persona transgender vive, essa “sceglie” che tipo di percorso fare, di cambio di immagine, di eventuale medicalizzazione, di visibilità.
Ho messo “sceglie” tra virgolette perchè la scelta è sempre apparente, ed è dettata dalle pressioni che la disforia della persona fa alla persona stessa, spingendola a muoversi in una direzione o nell’altra.

In alcune persone la disforia spesso varia anche nel tempo: più una persona si sperimenta e verifica come possibile il riconoscimento del proprio genere (magari anche iniziando col presentarsi come appartenente al proprio genere anche solo virtualmente, all’inizio), più aumenta la disforia quando torna a sentirsi percepito come appartenente al sesso genetico (ma questo non succede a tutte le persone T, alcune hanno una disforia perenne e che si manifesta in tenerissima età).

Di solito chi delegittima i transgender non medicalizzati lo fa perché ha una visione del tutto corporea della condizione trans.
La persona trans mft per lui è un maschio che si sente femmina e che diventa femmina.
Per la persona che esprime questa visione, e che di solito non riconosce la differenza tra sesso e genere, e respinge il concetto stesso di identità di genere, la persona trans “si sente” (quindi  un soggettivo percepire) e che “diventa” (quindi a renderla “trans” è il cambiamento del corpo) donna.
Questa visione non delegittima solo i non medicalizzati ma tutte le persone trans, perché se nega ai non medicalizzati di definirsi persone transgender, d’altra parte definisce trans le persone medicalizzate, ma per il motivo sbagliato, quindi si tratta di una visione, in buona o cattiva fede, con un buon contenuto di transfobia.

La cosa strana è che questa visione è condivisa anche da alcune persone transessuali vecchio stampo, le quali vogliono “escludere” dalla T chi ha fatto percorsi diversi dal loro, sminuendo un tipo di disforia diversa (come se lo stendardo dell’essere T non fosse la fierezza ma la cattolicissima gara a chi soffre di più) e pensando che l’istanza principale di chi non prende ormoni non sia tanto il riconoscimento della propria identità, ma quasi il voler stare per forza sotto l’ombrellone T.

Questo fa si che spesso le persone non medicalizzate, che di certo lottano per il riconoscimento della propria identità di genere, e non certo per avere un patentino T, abbiano più successo nel mondo esterno alla comunità LGBT, in cui una persona accetta o non accetta, senza tante speculazioni filosofiche o pretese che una persona faccia una medicalizzazione di cui l’etero medio o media non è neanche a conoscenza.

Il primo passo per le persone non medicalizzate che desiderano fare rivendicazione politica sarebbe quello di trovare un termine che le definisca senza usare un “non“, senza considerarle una “costola” di qualcos’altro.
Un mio collega tamarro mi spiegava che nell’ambiente dei tatuatori esiste un termine gergale che definisce in “non tatuati”, ormai in minoranza…non vorrei che quando nasce qualcosa di nuovo, che poi diventa maggioranza, ad essere definiti con il “non” e a doversi giustificare siano coloro che “non” fanno qualcosa, che questo qualcosa sia tatuarsi o medicalizzarsi non importa.

Credo che le persone T non medicalizzate, e non di certo solo io, che ormai invado i vostri schermi da un decennio, debbano iniziare a raccontarsi, senza porre l’accento sul fastidiosissimo modo in cui vengono discriminate internamente (fatto verissimo, ma che oscurerebbe l’opportunità di farsi conoscere senza porre sfumature buie e polemiche), ma raccontando come è possibile essere socializzati per il proprio genere d’elezione, intessere amicizie, relazioni con persone attratte dal proprio genere e non dal proprio sesso genetico, trovare un compromesso con la propria disforia, essere visibili in quanto persone T nonostante un passing non eccellente (questo però non è sempre detto: conosco persone non medicalizzate, soprattutto MtF, con un passing migliore di persone in ormoni ed operate).

Forse le persone non medicalizzate hanno anche una grande opportunità nell’educazione sociale, e la loro involontaria risorsa è proprio io “non passing“.
Se il non passing, da un certo punto di vista, genera sofferenze a mancanza di riconoscimento per quello che si è, esso pone un dilemma etico: per essere rispettati per il proprio genere dobbiamo “sembrare” di sesso coerente col nostro genere?
Di certo se questa discrepanza genera una sofferenza personale, allora è giusto procedere con un cambio di immagine a volte aiutato da ormoni e chirurgia, ma quando la persona non lo ritiene necessario, utile, strategico, “deve” farlo per forza, se vuole il riconoscimento della sua identità di genere?

Se la persona non medicalizzata, quindi, viene riconosciuta per il suo genere da amici, parenti, familiari, colleghi di lavoro, e chiunque “sappia”, è possibile che sia “travisata” da un occhio estraneo (se non ha un buon passing), ma questa condizione, che puo’ arrecare sofferenza e disagio, puo’ rappresentare un’opportunità, ovvero non dimenticarsi del problema sociale del binarismo dei ruoli, ovvero del fatto che, dal momento in cui si viene percepiti di un certo sesso biologico, ci si aspetti determinati comportamenti.

Una persona non medicalizzata, che non sempre viene riconosciuta per il proprio genere, sarà quindi sempre più sensibile al problema del binarismo sociale rispetto ai ruoli di genere.

Un altro punto interessante del percorso non medicalizzato e del “non passing” è l’essere visibile in quanto persona T.
Ammettiamo che una donna T non medicalizzata sia visibile in quanto donna non biologica e una T medicalizzata no (come detto sopra, non sempre questo è vero).

La donna T che appare come tale sarà sicuramente svantaggiata se il suo obiettivo è integrarsi in un mondo binario, ma potrà rivendicare la sua differenza rispetto alle donne biologiche e la sua particolarità di donna T, rivendicarla personalmente e politicamente.

Il discorso ha più senso se si parla di Ftm, visto che la transizione tramite testosterone cancella ogni traccia di androginia nel corpo della persona, rendendolo, forse a volte a parte la stazza (ma non sempre, ci sono ftm che di base sono alti e “fisicati”), identico ad un corpo maschile da vestito.
Personalmente ho fatto della non medicalizzazione il mio percorso perché, pur definendomi di identità di genere maschile (non fluida, non intermedia, non “altro”), io considero il mio percorso di vita totalmente diverso da quello di un uomo genetico, e non voglio che la mia immagine possa cancellare questo mio vissuto.
In poche parole, io sono di genere maschile, ma non sono, nè voglio sembrare, di sesso maschile. Non mi interessa sembrare nato maschio, costruire un’infanzia da maschio che non ho avuto, perché ciò che sono (compresa la mia lotta antibinaria sul tema dei ruoli di genere) lo devo al mio particolare percorso di vita, diverso da quello di un uomo genetico.
Alcuni di voi direbbero “a questo punto perché non ti vesti da donna e vivi da donna”?
Eh no. Io rivendico la mia diversità dall’uomo genetico (sesso maschile e genere maschile) ma anche dalla donna genetica (sesso femminile e genere femminile), quindi se mi “spacciassi” come femmina e donna, emulandone immagine e comportamenti, farei un torto a me e mistificherei.
E’ importante chiarire che il mio non rinnegare l’essere un uomo T e non Cis non deve lasciar pensare che a me stia bene ricevere il genere grammaticale femminile o essere considerato “altro” dall’essere uomo, perchè un uomo T è un uomo quanto quello cis. Non è quantitativamente meno uomo, ma è qualitativamente un uomo diverso (ma sono diversi anche gli uomini cis tra di loro).

Non mi aspetto che tutti capiscano il mio percorso, e preciso che il motivo per cui IO non sono medicalizzato non è lo stesso che spinge altri a non essere medicalizzati (chi è spinto da motivi spirituali, chi da motivi di salute, chi da motivi di visibilità, chi non ha alcuna disforia col corpo).

Cio’ che è importante e che chi non percorre la via della medicalizzazione ha lo stesso diritto di riconoscimento della propria identità di genere, perché non è l’estetica che ci rende meritevoli del rispetto, e il non “sembrare” non legittima gli altri (soprattutto se attivisti) a non dover rivolgersi a noi in modo corretto, e non per galateo o per farci un piacere, ma perché è loro dovere di attivisti LGBT, se si definiscono tali.


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Damiano Di Lernia: un vescovo eterosessuale per i diritti LGBT

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Oggi intervistiamo Damiano, Vescovo della chiesa Anglo Cattolica, un uomo eterosessuale, con un passato da uomo sposato e con ben quattro figli, che ha scelto la via religiosa, conciliandola con i suoi ideali di laicità delle istituzioni e di rispetto per tutti, comprese le persone omosessuali, bisessuali e transgender.
Dopo la manifestazione del 21 febbraio, in cui Damiano ha manifestato con il Milk di Milano, abbiamo deciso di intervistarlo.

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Ciao Damiano, a che età hai avuto la vocazione?
Sono nato a Milano il 12 Novembre 1957. All’età di 7 anni iniziai a frequentare la “Parrocchia di San Pietro in Sala” dove il Parroco dell’epoca, don Sandro Dell’Era, mi accolse con amore nel gruppo dei “Ministranti”. Il Parroco, sapendo la mia situazione familiare, mi invitava spesso ad andare in parrocchia, per occasioni come funerali e matrimoni. In quegli anni maturava, in me, il desiderio di diventare come il mio parroco, che per me è stato come un padre (ero figlio di una ragazza madre). Vedevo, in quel sacerdote, l’umile servo del Signore, che portava con amore la Parola di Dio a tutti, non solo con la preghiera, ma anche con opere di carità verso i bisognosi. Crescendo, mi rendevo sempre più conto che c’erano dei miei coetanei che stavano peggio di me; il mio servizio in Parrocchia, a quei tempi, mi dava la possibilità, tra matrimoni e funerali, di ricevere tante mance (chi si ricorda le 500 lire d’argento!) con le quali aiutavo le famiglie dei miei coetanei e cercavo di regalare loro qualche giocattolo. A 12 anni per problemi familiari venni mandato in un collegio gestito dai Salesiani, in quanto la mia richiesta all’assistente sociale era stata quella di andare in un collegio gestito da religiosi. L’unico posto libero, era al Centro Salesiano “San Domenico Savio” di Arese. In quel centro chiesi subito al direttore, don Luigi Melesi, di poter continuare a fare il Ministrante nella vicina parrocchia ed esposi anche il mio desiderio di diventare prete. Il Centro di Arese accoglieva ragazzi con gravi situazioni familiari alle spalle, per cui mi resi conto di essere nel posto giusto; organizzavo giochi, tornei di calcio e rappresentazioni teatrali ricevendo le lodi dai sacerdoti salesiani. Purtroppo un colloquio con un loro psicologo, precluse il mio cammino con loro, per cui, fui accolto in una congregazione religiosa dove mi occupavo del doposcuola dei ragazzi delle elementari e sorvegliavo di notte la loro camerata. Un episodio che mi ha molto turbato, mi ha fatto andare via da quella congregazione. Avevo 18 anni, pensai di studiare e poi chiedere di entrare in un convento di frati francescani. Stando fuori dal seminario, conobbi una ragazza, che nel giro di pochi mesi diventò mia moglie in quanto aspettavamo un bambino. Pensai subito che il Signore aveva trovato una strada diversa e l’accettai con molta fatica, ma poi con gli anni, mi resi conto che l’artefice della mia vita, ero proprio io. Purtroppo, il mio è stato un matrimonio “riparatore”. Dopo poco tempo mi resi conto che insieme eravamo incompatibili, ma ormai la “frittata” era fatta e il danno riparato col matrimonio. Nella nostra immaturità, pensammo che un altro figlio ci avrebbe legati, invece il figlio è nato, ma poi ci siamo separati e in seguito abbiamo divorziato. Ormai non pensavo più al sacerdozio. Ero caduto nel “girone dei peccatori”, ed ero un peccatore che aveva tradito un patto davanti a Dio, ma dopo un po’ di mesi dalla mia separazione, conobbi una ragazza con la quale condivisi la mia vita, fino al 2001. Con questa ragazza ebbi due figli, ma un tumore ai polmoni la portò via. Mi ritrovai solo con due figli di 13 e 16 anni, arrabbiato con la vita, e con Dio per aver tolto la persona che amavo e madre dei miei figli. Nel 2002, grazie ad una mia amica, conobbi il gruppo del Rinnovamento Carismatico Cattolico. In quel periodo, ero a pezzi psicologicamente e non pensavo più al sacerdozio. Anzi ero molto arrabbiato con Dio perché aveva permesso che mi accadessero tutte quelle esperienze negative. Iniziai a frequentare questo gruppo, trovandomi bene. In quel gruppo, sperimentai la riconciliazione con il Signore, quel Signore che da ragazzo, mi chiamò con insistenza, ma non ascoltai. Nel frattempo ripresi a fare volontariato negli ospedali psichiatrici e presso un centro di accoglienza per senza fissa dimora. Una sera, mentre pregavo, improvvisamente sentii due mani calde sulla testa e una voce mi disse: “Tu es Sacerdos”. In quell’istante, non ci fece caso, ma nei giorni seguenti pensai molto a quell’esperienza, che si è poi ripetuta dopo circa un mese durante la preghiera comunitaria. Le sorelle e i fratelli che pregavano per me, mi dicevano pur non sapendo nulla di me, che: “il Signore ti chiama al sacerdozio ministeriale”. Mi chiedevo come avrei potuto essere un sacerdote: ero divorziato, padre di quattro figli…. Infatti, mi chiedevo se io e soprattutto quei fratelli “erano pazzi o cosa?”. Quella misteriosa voce dentro di me continuava a tormentarmi, e con il tempo diventò sempre più insistente, tanto che credevo di essere diventato matto.  Nel giugno del 2007, feci uno strano incontro (strano per come si è verificato, c’era la mano di Dio) con l’Arcivescovo Mons. Mapelli, che aveva da poco fondato una diocesi occidentale di tradizione ortodossa. Dopo il colloquio con l’Arcivescovo, capii molto bene che il mio cammino non era nella chiesa ufficiale romana, ma venivo chiamato a svolgere il mio ministero in un’altra realtà ecclesiastica. Fu così che, il 7 dicembre 2007 fui ordinato diacono e il 27 settembre del 2008 presbitero. Sin da subito, mi adoperai per la cura delle anime dei cosiddetti ultimi, dei divorziati, delle persone lgbt, dei carcerati, di persone dipendenti da alcool e sostanze stupefacenti, ed accostavo al mio ministero sacerdotale anche un aiuto di tipo materiale. Organizzavo banchi di beneficenza per raccogliere fondi e facevo la spesa a famiglie bisognose. Purtroppo, tutto questo ad uno dei suoi “superiori” non piaceva, per cui con molta sofferenza lasciai la chiesa di Mons. Mapelli. Il 16 dicembre 2012 entrai ufficialmente nella “Chiesa Vetero Cattolica delle Americhe”. Pur prestando il mio servizio in quella Chiesa, non sentivo “soddisfazione piena”. Dopo un po’, anche questa esperienza andò male, come le successive. In quel periodo, arrivato sul punto di mollare tutto, qualcosa dentro di me, mi ha portato a fondare una comunità, che si ispirasse al vangelo vissuto dalle prime comunità cristiane, libere da dogmi e dottrine di uomini. Fu così che, fondai la Comunità Cristiana Indipendente Gesù Risorto e indegnamente* ricevetti l’Ordinazione Episcopale il 13 settembre 2014 da Sua Ecc.za mons. Antonio Canzano. Dal gennaio 2016 ho trasformato, con il benestare dei miei confratelli che il Signore mi ha mandato, questa Comunità da me fondata in “Chiesa Cristiana Anglo Cattolica” che, grazie alla Bontà Misericordiosa del Nostro Dio, mi permetterà di portare ancora avanti con Grazia di Dio, il mio ministero a servizio degli ultimi.

Hai avuto diffidenza della tua famiglia d’origine in questa tua scelta?
Assolutamente no, i miei figli e mia sorella mi sono stati molto vicino in questo cammino, supportato anche dall’affetto di molti amici/che.

Quindi anche i tuoi figli?
I miei figli hanno sempre rispettato le mie scelte, come io ho sempre rispettato le loro. Avendo perso la mamma in età adolescenziale ancora oggi non riescono a capire che la morte della mamma non è dovuta per un capriccio del padreterno o perche nel suo giardino mancava un bel fiore…….(queste alcune frasi dette dai bigotti al funerale) Comunque quando celebro l’Eucaristia e alle mie ordinazioni sono stati sempre presenti.

Parlaci della tua chiesa, è di tradizione cattolica? ortodossa? protestante?
Sono tante le cose che posso dirvi sulla Chiesa Cristiana Anglo Cattolica. Certo, la nostra chiesa non è di fede “Cattolica” ma Cattolicissima. Noi, vediamo nel termine “cattolico” l’identificazione universale della Chiesa. Non necessariamente il termine CATTOLICO deve essere attribuito alla Chiesa di Roma, ma deve avere un significato molto più largo e profondo. Secondo noi, non esistono cattolici identificati, ortodossi, protestanti, evangelici, luterani e così via, ma tutti insieme siamo membri dell’unica chiesa universale “il Corpo mistico di Cristo Signore”.

La tua chiesa accetta le donne come diaconi, preti, vescovi?
La Chiesa Cristiana Anglo Cattolica proprio con la promulgazione del nuovo Diritto Canonico della nostra Chiesa, scritto dal Vicario Generale e approvato dal Santo Sinodo dei Vescovi della nostra Chiesa, ci permette il Diaconato femminile. Come Chiesa Cristiana Anglo Cattolica, siamo ancora lontani dall’apertura al cosiddetto “prete/vescovo donna”. Però, Dio è grande, può ispirare tutti i nostri Confratelli ad aprire a tale novità. Attualmente abbiamo aperto alle Diaconesse, in futuro se sarà Volontà di Dio, apriremo anche alle Donne Preti e Vescovi.

La tua chiesa impone il celibato ai religiosi?
La Chiesa Cristiana Anglo Cattolica, pensa che tutto debba essere fatto per Amor di Dio. Nessuno deve essere costretto a fare delle cose contro la propria volontà. L’essere umano deve essere libero, anche se prete o religioso, la propria vita nei modi e nelle forme ispirate da Nostro Signore. Non ci piace avere nel Clero delle persone afflitte dal pensiero di un possibile tradimento, se per esempio, dovesse capitargli di amare o di fare l’amore con una donna oppure con un uomo. Tutti, carissimi fratelli, dobbiamo essere liberi di decidere della nostra “sessualità” come meglio si crede. Non imponiamo il celibato, però se qualcuno vuole fare questo voto, permettiamo di farlo. Tutto sia sempre fatto per amor di Dio.

Sei eterosessuale, perché la scelta di una Chiesa a favore delle persone LGBT? Ci spieghi la differenza tra Chiesa LGBT (solo per persone LGBT) e LGBT-Friendly (che tratta tutti alla pari, LGBT e non)?
La nostra chiesa non è LGBT. Noi non vogliamo identificarci in un solo mondo, vogliamo essere l’espressione religiosità di tutti (etero compresi!). Dire “Chiesa Gay” sarebbe come dire “Chiesa dell’Omosessualità”. No, da noi sono tutti accolti e ben accettati. Non vogliamo fare nessuna differenza tra il popolo di Dio, ma amarci nella diversità.

Si parla molto di chiese che sposano gay e lesbiche. Voi lo fate?
Pensiamo che, il diritto al matrimonio sia “un dovere da elargire da parte nostra”. Tutti hanno il diritto di dichiarare liberamente il proprio SI al suo amore, dinanzi al ministro della Chiesa e al buon Dio. Il matrimonio, se così vogliamo chiamarlo, è un legame d’unione della coppia con Dio, niente di più e niente di meno. Gli sposi, dichiarano amore eterno dinanzi a Dio e alla Chiesa. Mi chiedo, come possono due persone omosessuali dichiarare il proprio amore a Dio, se non amassero profondamente Nostro Signore? La risposta è semplice. Perché sono amati dal Divino e Buon Signore. Pertanto, non continuiamo a fare assurde distinzioni oppure giudicare i propri fratelli per il proprio orientamento sessuale, ma come disse Gesù “amatevi gli uni gli altri”.

Per le persone T il problema principale è un altro: la persona T spesso non ha ancora in nome che sente suo sul suo documento. Alcune confessioni (come alcuni buddhismi, ma non solo) accolgono la persona col nome e col genere che sente suo, voi avete pensato a questo problema? Come potete accogliere una persona T senza lo stigma del suo nome anagrafico?
Alla domanda voglio rispondere come quelle precedenti “non vogliamo fare queste assurde distinzioni”. Se una persona desidera, per sé, un nome maschile oppure viceversa, chi sono io per impedire a questo fratello o sorella di essere se stesso/a? No, dobbiamo imparare tutti a rispettare quello che è “diverso” ai nostri occhi, imparando a rispettarci nella diversità. Nessuno deve vivere una vita “infelice” perché così vivrebbe una vita in bianco e nero. Se un giorno si presenterà questo problema nella Chiesa Cristiana Anglo Cattolica, ne discuteremo nel Santo Sinodo dei Vescovi. Però, posso assicurarvi che nella Chiesa Cristiana Anglo Cattolica, non si farà mai questa distinzione, perché è poco rispettosa per tutti.

Nel caso la persona T contraesse matrimonio, sarebbe il caso che la persona fosse sposata col suo nome e genere. Quindi, ad esempio, una donna trans (dal maschile al femminile) che sposa un uomo biologico è in una coppia etero, non omo, perché a contare è la sua identità di genere, non il suo corpo, quindi è un’unione tra una donna e un uomo. In questa unione andrebbe assolutamente rispettato il nome e il genere di questa donna, trascurando il nome anagrafico (maschile) e il genere anagrafico (maschile).
La tua chiesa ha pensato a questo?

In questa unione, prima di tutto deve essere rispettata la volontà delle persone che vanno a contrarre l’unione, poi vengono le regole della Chiesa Cristiana Anglo Cattolica. Posso dirti che la Chiesa, lascerebbe decidere alla coppia come vuole essere chiamato. Ti faccio un esempio. Se la trans X non anagraficamente riconosciuta come donna, si sposa con l’etero Y riconosciuto come uomo anagraficamente, però la trans X possiede ancora il nome maschile che non sente suo, come si può risolvere questa cosa al nostro interno? La nostra chiesa penso bene di fare una cosa con la Trans X, (a cui daremo un nome anagrafico a caso: Mario Rossi), di registrarla nei documenti matrimoniali come “Maria Rossi”. Noi vogliamo rispettare prima la volontà di Nostro Signore, che ci dice d’amare e rispettare, per poi rispettare in toto la volontà della coppia composta dalle persone X e Y.

Oltre ad essere accolte persone LGBT tra i praticanti, ci sono persone LGBT anche nel vostro clero? Accettereste mai come religioso/a una trans (dal maschile al femminile), oppure un trans (dal femminile al maschile)?
La Chiesa Cristiana Anglo Cattolica, se permettete, non intende fare questo assurdo paragone. Per noi, tutti sono fratelli e sorelle, nessuno escluso. Nella Chiesa vengono accettati tutti coloro che dichiarano d’amare Nostro Signore, senza alcuna distinzione di razza, colore, credo, oppure di orientamento sessuale e identità di genere. Se mi parlate di religiose transgender nell’Ordine femminile, perché no. Però la donna transgender Mtf (transizionante dal maschile al femminile), non può diventare sacerdote, ma solo religiosa. La cosa è diversa se un transgender transiziona dal Femminile al Maschile: in quel caso può diventare sacerdote. Però, questi sono assurdi paragoni, che sinceramente non volevo fare, perché non mi va di far distinzioni tra le persone transgender e quelle che non lo sono. Tutti siamo uguali e tutti amati da Dio.

Molti gay e molte lesbiche sono poco aperti nei confronti della B e della T. Tu, essendo eterosessuale e quindi fuori da certe dinamiche interne, come ti poni verso le persone bisessuali? e verso le persone transgender?
Le persone devono rispettarsi a prescindere dal proprio orientamento sessuale. Non vuol dire niente “sono Bisessuale o Transgender” tutti siamo uguali. Immaginate per un solo istante l’Ultima Cena di Nostro Signore Gesù Cristo. Il Signore in quel preciso istante disse una cosa molto importante per le persone che credo, che oggi la chiesa cattolica romana, crea tantissima confusione. Gesù trovandosi nell’ultima cena disse “prendete magiatene tutti” oppure “prendete bevetene tutti”. Gesù non disse mai “aspetta, tu sei gay, non puoi magiarne. Tu sei etero, puoi mangiarne. Tu sei prostituta, non puoi mangiarne. Tu sei casalinga, puoi magiarne”. No, Gesù disse semplicemente la parola “TUTTI” cioè, ogni persona che crede in Lui. Gesù fu il primo a non fare distinzioni, perché dovrebbero farle persone misere come noi? Amiamoci tutti, questo è il vero segreto dell’unione.

Sicuramente in ambiente LGBT avrai sorpreso molto dichiarandoti etero. Il mondo LGBT è abituato a chiese friendly con clero molto gay, e anche la chiesa romana non scherza…
Non esistono chiese per LGBT, esiste la Chiesa, niente di più e niente di meno. Tutti devo essere liberi di seguire i desideri del proprio cuore, anche ispirandosi ad una possibile vocazione. Sulla mia sessualità etero e sulla mia apertura al mondo Gay nella chiesa che indegnamente* presiedo, non significa andare a favore di uno o dell’altro, significa aprire le porte della Casa di Gesù a tutti. Non dobbiamo guardare nel sacerdote la sua sessualità, ma l’amore che può donarci, il conforto, la gioia e la condivisione che può arrivare. Tutti, anche la Chiesa di Roma, deve imparare a non giudicare nessuno. Tutti dobbiamo stare attenti alle esigenze del nostro prossimo, guardare e curare con amore la sua anima, cercando di farlo sentire a casa e tra fratelli. Il mio clero, se possiede un orientamento sessuale gay o bisessuale, rispetto questa loro diversità con me, come loro rispettano la mia diversità con loro. Il rispetto deve sempre prevalere.

Sei anche attivista per la laicità delle istituzioni?
Penso che tutte le istituzioni pubbliche debbano stare fuori dai temi cosiddetti “religiosi”, così le chiese devono stare fuori dai temi di discussione popolare e legislativo. Non possiamo pretendere che uno Stato non si deve immischiare in questione religiose, per poi la chiesa violare così apertamente il diritto alla laicità dello Stato. Se devo dirtela tutta, secondo me i politici presenti nelle istituzioni devono dichiarare la loro “non appartenenza religiosa” se si vuole fare davvero l’interesse dello Stato e della collettività. L’Italia è fondata sul diritto, sull’uguaglianza e sulla libertà individuale, però moltissime volte i politici mettono la loro appartenenza religiosa in primo piano, non mettono il bene della collettività. Noi dobbiamo combattere per uno Stato che sia “Laico e Plurale” dove tutti sono rispettati per quello che sono, non per quello che vorrebbero farmi essere, disegnato in stanze segrete dello Stato e della Chiesa Cattolica ufficiale. Questo non può e non deve accadere.

Molte persone oppresse dalle chiese si allontanano dalle religioni, facendo coincidere il messaggio spirituale con il pensiero del clero. Che messaggio daresti a queste persone?Il messaggio che voglio dare a tutti questi fratelli e sorelle è quello “di amare Gesù” indipendentemente dalle diatribe interne. Se proprio volete essere accolti cosi come siete, la nostra porta è sempre aperta a tutti, ma prima di noi, deve venire l’amore per Colui che ama in eterno, senza distinzioni, Nostro Signore Gesù.

1377953_885742504873403_5236923329403268165_n*
abbiamo rispettato la scelta di Damiano di considerare “indegni” i suoi onori come vescovo, anche se non siamo d’accordo con questa sua umiltà, perché pensiamo che sia degno :-D

Intervista di Nathan Bonnì


Archiviato in:LGBT, SPIRITUALITA', RELIGIONI

Una donna XY veramente speciale

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Il libro della dott.ssa Monica Romano, “Trans – Storie di ragazze XY” , è un manifesto per la libertà di identità di genere, di orientamento sessuale e di modificare e gestire la propria immagine come, quando e quanto lo si desidera.
Monica, tramite il racconto romanzato della sua vita, attraverso il personaggio di Ilenia, ci conduce, tramite il suo romanzo di formazione, attraverso le sue esperienze ed emozioni, guidandoci anche a comprendere i suoi ideali e ciò da cui sono scaturiti.

Il romanzo ha vari piani di lettura. 
Ilenia non si racconta mai al maschile (al massimo sono gli altri che la fraintendono rivolgendosi a lei al maschile), né rivela il suo nome anagrafico, in quanto del tutto irrilevante, e di utilità solo del lettore o della lettrice pruriginosi.
La ragazza parla sempre di se al femminile e in prima persona, in modo che chi legge possa percepirla fin dall’inizio come chi è realmente, indipendentemente dall’immagine esteriore.

Molte sono state le donne, anche eterosessuali, che si sono immedesimate in Ilenia, nella sua apparente fragilità, che cela una prorompente forza d’animo.
Ilenia è una vincente. Nata da una famiglia umile, riesce a migliorare la sua condizione economico/sociale, portando a termine un percorso di studi, laureandosi a pieni voti e accedendo al mondo delle professioni, rivestendo posizioni prestigiose (come una presidenza), trovando l’equilibrio in una relazione stabile con una compagna.
La storia di Ilenia sarebbe quella di una vincente anche fosse stata una cisgender, e sapere che non lo è ci fa capire che persona straordinaria sia Ilenia, e quindi Monica.

E’ un romanzo in cui non solo le donne possono immedesimarsi e da cui non solo il mondo eterosessuale (maschile e femminile) ha da imparare. Ilenia parla a tutti coloro che, in un corpo XY, sono portatori, o portatrici, di una femminilità che il mondo binario non accetta. Molti uomini, non solo omo e bisessuali, ricordando la propria infanzia ed adolescenza, possono riconoscersi in quella giovanissima figura androgina e delicata che diventa oggetto di bullismo solo in quanto non conforme ai canoni binari, quando l’unica “colpa”, se così si puo’ dire, di Ilenia, era quella di essere se stessa.
Il romanzo riflette ,e fa riflettere chi legge, sul fatto che le persone, trans e non, sono semplicemente loro stesse, ed è la società a collocarle, decidendo poi il loro grado di accettabilità sociale, e deve essere la persona stessa a rivendicare il diritto all’autodeterminazione.

Sicuramente molte persone transgender avranno rivisto sè stesse nel bullismo subìto in gioventù, e molto spesso, purtroppo, non solo in gioventù, e non intendo solo persone transgender xy:
questo libro, vero manifesto di libertà dei generi, può dare tanto alle persone transgender xx, che, dopo un’infanzia e un’adolescenza che li ha costretti ad essere socializzati al femminile, in un mondo maschilistae  machista, compiono un viaggio di scoperta e di espressione del proprio maschile.

Tramite il personaggio di Sam, che è un personaggio realmente esistito, ma con assonanze fortissime con la protagonista, questo libro sarà amato da tutte le persone portatrici di un’identità non binaria o di una visione della vita e dei ruoli assolutamente antibinaria e a favore di una massima libertà dagli stereotipi.

Il romanzo di Monica è quindi davvero un libro notevole, scritto con grandi capacità narrative, che non stanca mai, che riesce a presentare contenuti politici al di fuori delle ideologie, accompagnando chi legge in un percorso di consapevolezza e di emancipazione.
Ilenia/Monica, in poche parole, fa transizionare con se anche chi legge (sia essa una persona transgender o cisgender), in una transizione che non riguarda una metamorfosi fisica, ma un cammino introspettivo e auto-analitico atto a elaborare e riscoprire la propria identità al di la dei generi.
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Vi aspettiamo il 5 Marzo alle 17.00 in Via Soperga 36, alla presentazione del libro organizzato da Il Guado e Circolo Culturale TBGL Harvey Milk Milano

Ecco a voi l’intervista fatta all’autrice. Le domande sono adatte ai lettori e alle lettrici di questo blog: pansessuali, transgender non medicalizzati, portatori di identità non binarie, attivisti contro il binarismo di genere. Temevo che l’autrice, che è tra l’altro un’amica e una preziosa collaboratrice, si sarebbe sentita “stuzzicata”, e invece pare aver gradito le mie “oltraggiose” domande :-D

 

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Monica, spesso le persone T hanno un atteggiamento remissivo e un senso di inferiorità verso il mondo “normalizzato“. Tu invece nel libro riporti chiaramente la tua fierezza, e in vari punti (come quando parli dei napoletani alla soglia dell’analfabetismo) ti manifesti cosciente di essere intellettivamente e culturalmente superiore alla media. Te lo fa pesare la transfoba e binaria professoressa di liceo.
Pensi che persone T abbiano bisogno di un po’ di sano snobismo verso un mondo mediocre che non le comprende e, per ignoranza, le disprezza?
Essere persone trans* in un mondo binario è molto difficile, quindi benvenga anche un po’ di sano snobismo se può essere d’aiuto.
In fin dei conti viviamo in un sistema che è costantemente svalutante e stigmatizzante rispetto a corpi, identità e modalità espressive non conformi alla dualità “maschio-femmina=uomo-donna”.
Dobbiamo fronteggiare un sistema culturale e di significati che non solo non ci prevede, ma che apertamente ci osteggia.
Qualcuno, durante la prima presentazione milanese del mio libro, ha definito “eroiche” le nostre vite, i nostri cammini…
Se ci è d’aiuto quindi, io direi (so con la tua approvazione) che possiamo anche, e legittimamente, tirarcela un po’. Male certo non ci fa.
L’orgoglio, così come la cultura, sono potenti antidoti alla transfobia interiorizzata e alle brutture di un sistema spesso violento nel normarci e imporci una dualità che non ci appartiene e non ci rappresenta.

Nel libro appare il personaggio di Sam. Viene presentato come ftm ma poi chiarisce di aver capito che più che una persona di identità di genere maschile, è una persona oppressa dagli stereotipi femminili. Questo personaggio sicuramente troverà la simpatia del tuo pubblico, costituito prevalentemente di lettrici donne esterne al mondo LGBT, ma non rischia di creare un equivoco già presente nel mondo extra-trans, secondo cui una donna mtf è legittimamente di genere femminile, mentre nel percorso opposto si tratta non di ftm ma di donne insofferenti al ruolo femminile imposto da millenni di maschilismo?
No, questo rischio non lo vedo.
Ilenia, la nostra protagonista, è una donna transgender che affronta un percorso di autodeterminazione che riguarda anche il suo corpo e la sua esteriorità.
Sam, nella sua ricerca di una definizione che vada oltre lo schema binario parte, anche grazie al confronto con la protagonista, identificando ciò che non è: un uomo transgender.
La differenziazione dalle persone transgender è il primo passo di Sam verso la sua consapevolezza e il suo cammino, che non è quello della protagonista, nè degli amici transgender della protagonista (anche uomini transgender con cui Ilenia, ad un certo punto della narrazione, inizia a collaborare nell’ambito dell’associazionismo trans*).
Qual è il percorso di Sam? Dove l* porterà?
Anticipiamo che il nome del tuo blog mio caro Nathan, potrebbe suggerire la risposta…
che i tuoi lettori potranno scoprire  solo acquistando il mio libro e leggendo la storia ;)

Nel tuo romanzo sono pochissimi, forse assenti, i personaggi maschili positivi. Forse giusto Ottavio, amico gay d’infanzia di tua madre, e la coppia di ftm gay.
Perché hai scelto di dedicare un romanzo interamente alle donne?
Esistono attualmente nella tua vita dei personaggi positivi maschili? Se si, si tratta di uomini LGBT o anche di etero cisgender?
Il mio è un libro (trans*) femminista. A partire dal titolo.Questo per ragioni politiche, ma anche di elaborazione culturale (della nostra subcultura): io mi rivolgo in primis alle altre donne transgender raccontando la storia di Ilenia, con la dichiarata intenzione di inviare loro un messaggio.
Certo anche la mia storia personale ha determinato questa impostazione: le figure importanti e determinanti della mia vita fino ad oggi, sono state figure femminili. E credo che questo, lo dico apertamente, non sia stato casuale.
So che l’accusa di misandrìa, che viene mossa d’ufficio a tutte le femministe, mi aspetta dietro l’angolo, ma la cosa non mi spaventa granchè.
Detto questo, ovviamente nella mia vita gli uomini esistono.
Ho dei cari amici, certo selezionatissimi (non dimentichiamo di essere snob ;D) e molto importanti per me.
Nel romanzo la protagonista si scopre lesbica gradualmente, scoprendo inizialmente il corpo femminile da una persona T non medicalizzata, per poi passare all’esigenza di una persona accanto, di identità di genere femminile.
Una lettrice outsider potrebbe pensare che questo “scoprirsi lesbica” sia arrivato un po’ per caso, quando invece sappiamo che non è così.
Non darei questa lettura.
Ilenia è prima di tutto una donna che ama oltre le caratteristiche meramente sessuali della persona, quindi una pansessuale. Che si ritrova definita “lesbica”, ad un certo punto della storia, dal contesto.
Non è lei a “scoprirsi”, è il mondo attorno che la definisce così.
E lei accetta di buon grado e fa sua questa definizione.
Il libro, destinato a un pubblico eterosessuale, si concentra sul bullismo subito dagli etero: donne insensibili e forse un po’ invidiose, uomini machisti o pruriginosi.
Nella tua esperienza di attivista hai subito bullismo anche da persone LGBT?
Lesbiche che hanno cercato di ricondurti al tuo non essere “nata femmina“, uomini gay benaltristi che hanno minimizzato le tue battaglie, o altre trans in percorsi maggiormente canonici rispetto al tuo?
Certo che sì!
Ne ho parlato recentemente anche in un’intervista per il blog “Io sono minoranza”.
Anche all’interno del movimento esiste la transfobia, eccome.
Ho avuto a che fare con attivisti gay che mi hanno trattato con sufficienza per il solo fatto che sono una donna transgender. Troppo spesso noi donne T* veniamo considerate aprioristicamente stupide e frivole, quasi delle minus habens. E’ terribile!
Poi c’è chi ritiene che le persone transgender dovrebbero stare fuori dal movimento LGBTI, e che il movimento dovrebbe tornare ad essere solo gay (qualcuno ha anche promosso una petizione su Change.org a questo scopo). Trovo simili posizioni di retroguardia e, oltre che inaccettabili, pericolose.
Ci sono poi veterofemministe che si permettono di delegittimarci affermando che non possiamo sposare il femminismo perché non siamo biologicamente femmine, come se fosse l’ovulazione a determinare una posizione politica e non, magari, le pesanti discriminazioni che le donne transgender subiscono perché considerate “traditrici del patriarcato” in un sistema maschilista e fallocentrico.
O ancora attiviste lesbiche sconvolte (sic!) all’idea che una donna transgender possa essere lesbica a sua volta, che tentano di mettere in piedi ridicole barricate.
Ricordo ad esempio come anni fa (non so se oggi sia ancora così) il regolamento di Lista Lesbica Italiana prevedesse la non ammissione delle donne transgender “rettificate o meno” (era scritto proprio così).
 Non fraintendermi: la mia non vuole, ovviamente, essere una generalizzazione.
I casi che ho citato sono certamente minoritari, e lo sono fortunatamente sempre di più.

Le cose cambiano, stanno cambiando, grazie soprattutto al ricambio generazionale. Senza dimenticare che contribuire a cambiare le cose anche all’interno del movimento LGBT è comunque una forma di attivismo.

 Gli attivisti vecchio stampo ci tengono a precisare che, come i sessi genetici, anche i generi sono due.
Nel libro apri uno spiraglio quando parli di una T al posto della M o della F sul codice fiscale.
I generi sono realmente due, o infiniti? Oppure, semplicemente, essere donna T è diverso da essere donna genetica, per il bagaglio di esperienze che dei vissuti diversi comportano?


Il genere sessuale non è altro che un’idea, una categoria interpretativa della realtà.
La realtà è molto più complessa, ricca e piena di sfumature delle categorie che tentano di interpretarla.
La visione binaria, l’idea che i generi siano soltanto due è una semplificazione che sempre meno sa spiegare la realtà. E come tutte le idee ormai inadatte ad interpretare il reale, verrà sostituita da altre idee, altre visioni più corrispondenti e funzionali.
Le battaglie per la libertà di genere nelle democrazie occidentali vanno  e andranno avanti, raggiungendo obiettivi impensabili fino a qualche decennio fa (si pensi alla battaglia per la despichiatrizzazione della condizione transgender, che prima poi porterà al depennamento della nostra condizione dai vari DSM e ICD).
Questo, se saremo fortunati, porterà il graduale affermarsi di una visione non duale e binaria dei generi, l’arcobaleno che spesso richiamo anche nel mio libro.

Nel libro parli dei tuoi dubbi in quegli anni nel far aderire la tua biologia a quella di una nata femmina. Approfondisci il tema del passing, del conformismo, del fare la transizione per se stessi o per gli altri. Questo è un argomento tabù nel mondo trans. Sembra quasi non si possa dire che in percorsi meno ragionati del tuo qualcuno non abbia fatto qualcosa solo per il passing o solo per il cambio documento. E’ l’ora di fare una seria riflessione interna al mondo T su questo argomento?

Andrebbe fatta una seria riflessione sul bisogno di omologazione di molte persone trans*, sul problema della transfobia interiorizzata che, non dimentichiamolo, ci riguarda tutt*.
Su quanto troppo spesso il “canto delle sirene” che si accompagna all’idea della “nuova vita” ci spinga a dimenticare e rinnegare quello che siamo, quell’esperienza che può invece essere reinterpretata come un bellissimo bagaglio, un dono.
Questa riflessione andrebbe fatta assolutamente fuori da Facebook, in luoghi reali, guardandoci negli occhi.
Ricominciamo a incontrarci, a organizzare convegni, conferenze, riunioni, semplici pizzate!

Ormai hai i documenti rettificati da molto tempo, e sei bona (so che mi permetterai di dirlo solo perchè sono ftm e gay). Perché destini così tanto tempo ai diritti delle persone T?

Il complimento di un uomo gay è sempre apprezzatissimo ;)

Per l’esattezza ho documenti rettificati dal 2007.
Non sono sparita, né intendo sparire in futuro, cedendo al canto delle sirene.
Non voglio dimenticare chi sono, ho ancora bisogno di stare con altre persone trans*.
E ho capito che ne avrò bisogno per il resto della mia vita, perché la transizione non finisce mai, come mi diceva Deborah Lambillotte, attivista di Arcitrans, alla fine degli anni ’90.
Più vado avanti, più capisco che questa frase è vera.
Il nostro cammino non finisce mai, e questo è bellissimo.
Quando capisci che nell’essere trans* non c’è nulla di brutto, ma che le brutture stanno nel contesto, non certo in noi e nei nostri percorsi, sei liber*.
Mi dedico alla battaglia per la libertà di genere da 15 anni, e davvero spero di averne davanti almeno altri 15 come quelli che mi sono lasciata alle spalle.

Prima di salutarci, un’ultima domanda…Sappiamo che adesso sei attivista in un’associazione mista e non solo rivolta a persone T (“sappiamo” è ironico, chi intervista è presidente del circolo :-D). Il libro descrive invece una parte precedente della tua vita. C’è continuità tra queste due esperienze? 

Da ormai tre anni lavoro al Circolo Culturale TBGL Harvey Milk Milano ed è una bella esperienza, anche perché differente rispetto alle precedenti.
Io sono nata come militante nell’attivismo trans* puro, e ci sono rimasta per molti anni, prima in Arcitrans e poi in Crisalide Azione Trans, che erano associazioni gestite da persone transgender per persone transgender.
Il nostro era un attivismo che aveva connotati (non statutariamente, ma nella prassi sì) anche separatisti, perché allora avvertivamo l’esigenza di stare fra noi per confrontarci, crescere anche culturalmente e politicamente, elaborare nuove visioni e linguaggi.
Un’esperienza importantissima, e secondo me ancora necessaria in Italia.
Il Milk è invece un contesto misto e plurale, realmente TBGL (non solo nello statuto), nel senso che al suo interno ci sono attivisti bisessuali, transgender, etero, lesbiche, gay.
C’è sicuramente un filo rosso che lega le due esperienze, perché all’interno del Milk ho potuto traghettare il mio bagaglio esperienziale in un contesto molto plurale e arricchente, un grande laboratorio di idee e visioni.
E così è nato il progetto dedicato all’identità di genere, rivolto a persone transgender o di genere non conforme, e in generale a chiunque cerchi un confronto sul tema dell’identità di genere, che oggi può vantare uno sportello dedicato, un gruppo di auto mutuo aiuto ed eventi culturali ad hoc.

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Intervista di Nathan Bonnì


Archiviato in:ATTIVISMO E VISIBILITA' TRANSGENDER E BISESSUALE, ATTUALITA' T, TRANSOMOSESSUALITA' & TRANSLESBISMO, VITA TRANSGENDER Tagged: bullismo transfobico, monica romano, storie di ragazze yx, trans, transfobia, translesbismo

Un marito e padre in tacco e gonna

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Ho conosciuto Stefano Ferri prima su facebook (era rimasto colpito dalla mia citazione di benvenuto nel profilo: “nasciamo nudi, tutto il resto è travestitismo”), e poi di persona ad uno degli incontri Milk, in cui ha partecipato in quanto amico di una nostra socia e relatrice, Martina Manfrin.
Il blog, come sapete, si occupa di tutto l’universo “gender not conforming”, ovvero di tutte le persone che in qualche modo scardinano il binarismo sociale per cui chi nasce maschio può vestirsi, comportarsi, presentarsi solo come uomo e chi nasce femmina invece solo come donna .
Stefano Ferri, nel suo ribadire che, nonostante i vestiti femminili, rimane Stefano, padre, marito e manager, scardina completamente i dettami sociali, e rappresenta un “fastidio” non solo per gli etero bigotti, ma anche per le persone LGBT binarie e bigotte.
Stefano si definisce crossdresser, ma, diversamente da chi in genere pratica crossdressing, Stefania lo accompagna costantemente, nella sua vita di imprenditore, marito e padre.
In quest’intervista cerco disperatamente di etichettare quest’anima libera, di provocarla con domande sul binarismo dei generi, e in qualche modo, di fare amicizia.
A prescindere dai nomi propri, dalle definizioni, dai vestiti, Stefano è una bella persona, con una vita piena d’amore, circondata da persone che la amano e la accolgono nella sua preziosissima duplice natura, in cui maschile e femminile hanno trovato un equilibrio e un compromesso proprio quando Stefano ha deciso di non rinnegare nessuna delle due parti di se.

 

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Una tua video-intervista inizia con “Quando sono davanti allo specchio vedo una donna”. E’ una percezione estetica o va anche nel profondo?

Penso che sia un po’ tutt’e due. In fondo nessuno di noi allo specchio vede “la verità”, bensì l’immagine che ha di se stesso. Il mio è un caso limite ma non fa eccezione. E non è solo un fatto di estetica. In nessun modo potrei vedere nella mia immagine una donna se non con l’apporto di tutta la mia interiorità duplice.

Non usi parrucche, protesi, ed è una cosa che apprezzo molto. Credo che ogni sovrastruttura ci faccia sentire “travestiti” da qualcun altro, in un drammatico on/off, mentre un petto piatto, o un capello corto, possono essere femminili, se tali li vediamo e tali li rendiamo con la nostra espressione di genere. Sei d’accordo?

Sacrosanto!

Ti ho sentito usare come nome personale sia Stefano che Stefania, li usi indifferentemente? C’è un significato particolare che attribuisci all’un nome o all’altro?

No, io uso solo Stefano per nominare me. Io sono Stefano. Di Stefania vedete solo i vestiti, il resto è tutto e soltanto dentro di me, compresa la sua voce e le sue parole (per sentire le quali ovviamente mi occorre l’autoanalisi).

La tua è una tematica di identità di genere, di espressione di genere… o la descriveresti in altro modo?

Ho passato gran parte della mia vita finora a capire cosa mi succedesse dentro. Cosa “avessi” dentro. In realtà per quelli come me più che di identità di genere è meglio parlare di “natura duplice”, perché veramente io mi dibatto fra due parti di me: una è Stefano, l’uomo, e l’altra è Stefania, la donna, che sta dentro di me esattamente come in ogni uomo sta dentro una parte femminile ma, a differenza da quello che accade alla dilagante maggioranza degli uomini, vive una vita scissa dall’altra metà, condizionandone a suo modo l’esistenza (cioè prendendo a prestito il corpo di Stefano per vestirsi e ottenere così una sua riconoscibilità e visibilità – altrimenti sarebbe una donna invisibile e questo ovviamente Stefania non lo accetta: a nessuno piace essere invisibile).

Quando descrivi Stefano e Stefania, ne parli come due persone distinte, e per distinguerle spesso usi alcuni stereotipi. Anche alle donne puo’ piacere il calcio, le macchine, i gialli. E forse, in un mondo non binario, gli uomini si metterebbero lo smalto (come fanno certi metallari super etero).

Vero anche questo. Parlo così per semplificare. La mia realtà interiore è già abbastanza contorta di suo, dunque per spiegarla preferisco “volare basso” dove posso.

Esistono tante definizione di autodeterminazione che scelgono le persone “gender not conforming” (transgender non medicalizzati, genderfluid, genderqueer…) Come mai la scelta della definizione “crossdresser“?

Perché è la parola che più facilmente spiega chi sono, senza costringermi a scendere ogni volta nei dettagli di cui sopra, che magari alla maggioranza delle persone risulterebbero stucchevoli o di difficile comprensione. Dicendo “crossdresser” dico sic et simpliciter quello che gli altri vedono: un uomo vestito da donna. Poi, se vogliono approfondire, sono ben felice di farlo.

Proponi l’aggiunta della C all’acronimo LGBT, ma in realtà la T comprende tutto ciò che è “gender not conforming“, ovvero non conforme, per identità o anche solo espressione di genere, alle norme sociali. La C non potrebbe quindi essere compresa nella T?

In generale hai ragione. Però esistono vari tipi di crossdressing. Ci sono crossdresser per libera scelta (spesso per protestare contro le convenzioni sociali), per ragioni professionali (gli attori en travesti), per iniziare un cammino di cambiamento di sesso. E poi ci sono quelli come me. Non ho mai riflettuto sul mio appartenere al gender not conforming, e magari ci appartengo, ma così, d’acchito, mi sembra che esso confligga con la mia duplice natura, che accoglie due nature in se stesse assolutamente conforming, cioè un uomo etero e una donna etero. Ecco perché propongo la C.

Secondo te, perché molte crossdresser, soprattutto attratte da donne, e in vite eterosessuali, snobbano gli LGBT?

Per paura, sicuramente. Questi crossdresser sono magari funzionari di banche o assicurazioni, o hanno ruoli pubblici ecc, per cui stanno molto attenti a non scoprirsi. Non li invidio: le autocensure sono l’anticamera dell’infelicità vera.

A Stefano piacciono le donne. Non è strano. Le persone non conformi di genere, aldilà di quello che si pensi, possono essere attratte da uomini, da donne, da entrambi. Nel tuo caso preferisci dirti uomo etero, donna lesbica, nessuno delle due, o entrambe le cose?

Sono uomo etero. E Stefania è donna etero. Innamorata persa di me.

E se invece Stefano e Stefania fossero innamorat* entrambi della tua splendida moglie?

Stefano lo è di sicuro. :-) Di Stefania non sono sicuro. Sono certo, però, che con lei ha alzato il suo controllo su di me, lasciandomi libero di andarci – cosa che ha fatto non più di due volte in tutta la mia vita. Può essere che lo abbia fatto per amore di me, più che per amore di lei. Se mi ama – e mi ama – come poteva lasciarmi all’esclusiva mercé di una donna invisibile?

Come noi persone T elaboriamo il nostro genere, chi ci ha compagna (i e le partner) elaborano la loro affettività e il loro desiderio. Sei d’accordo? è il caso di tua moglie?

Di mia moglie penso in realtà una cosa un po’ diversa. Lei mi ha conosciuto che ancora mi vestivo da uomo, ma avevo già abbandonato gli abiti classici in favore di capi parecchio effeminati. Maschili ma effeminati (come era di moda alla fine degli anni Novanta). E le piacqui moltissimo così. Per cui, al di là dell’enorme sofferenza che il successivo irrompere di Stefania ha portato nelle nostre vite di marito e moglie, sono dell’idea che lei avesse “visto” inconsciamente Stefania e, sempre inconsciamente, le fosse piaciuta anche lei. Cioè le fosse piaciuta la mia natura duplice all’epoca ancora in nuce. Solo così mi spiego perché, sia pure nel dramma, non solo non mi ha mai lasciato ma pure ha voluto fare una figlia con me quando ormai ero crossdresser al 100%.

Ti definisci padre e non madre, ma conta cosi’ tanto? magari tu e tua moglie siete semplicemente genitori, e stefania ti rende un genitore dolce, piu dolce di un padre machista e stereotipato. Forse avere dei genitori cosi’ aperti renderà tua figlia una donna adulta in gamba e priva di pregiudizi, non credi? 

D’accordissimo. Il mondo sarebbe migliore se tanti padri e tante madri “risolvessero” appieno la loro natura sessuale e non “passassero” ai figli le loro repressioni. Il bullismo nasce da questo, secondo me.

Ultima domanda, che ti faccio più da musicista che da saggista su temi LGBT…C:
so che ami i beatles. Hai mai pensato, magari da ragazzo, di suonare o cantare in una band?

Sì, ho suonato per due anni il banjo in una band dixieland. Avevo 18-20 anni. Poi ho lasciato perdere e mi sono dedicato alla chitarra classica. Penso che Stefania desiderasse serenate d’amore solo per lei. :-)

 

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Un prete queer: transizioni di fede e liberazione sessuale

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Oggi intervistiamo Mario Bonfanti, che come tutti noi, ha compiuto una transizione.
Dalla Chiesa Cattolica Romana alla Metropolitan Community Church.
Dall’identità gay all’identità queer, in un viaggio di scoperta di orientamento sessuale, identità di genere e ruoli fino ad arrivare anche alla cultura BDSM.

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E’ arrivata prima la vocazione o prima la consapevolezza del tuo orientamento omosessuale?

Credo sia un po’ come chiedere se viene prima l’uovo o la gallina. La consapevolezza (sia della identità sessuale sia della vocazione) è qualcosa che cresce pian piano nel tempo. Prima si hanno dell’attrazione, poco (o per nulla) riflessa. A un certo punto si inizia a pensarci un po’ sopra. Quindi sorgono domande dentro di sé, ci si interroga… e man mano cresce e si forma la “consapevolezza” di sé. E questo vale per tutti e due gli ambiti. L’attrazione verso “il sacro” era in me fin dalle elementari… così come l’attrazione verso i maschi. Ma da piccoli è un po’ tutto un gioco: giocavo a dire messa con un amico vicino di casa; e giocavo “sessualmente” con qualche altro amichetto. Crescendo ho iniziato a pensarci sopra, a interrogarmi, e anche andare in crisi… fino a maturare in me sia una chiara vocazione sacerdotale sia una certa consapevolezza della mia identità omosessuale.

 Non ti chiederò di parlare della tua esperienza nel Cattolicesimo Romano, se non di cio’ che di buono ti porti nel cuore di quegli anni che ti hanno permesso di studiare teologia, di conoscere meglio Gesù, se ti va, parlacene.

Innanzitutto la Chiesa Cattolica mi ha trasmesso la fede. Poi mi ha dato la possibilità di sviluppare la mia personale spiritualità attraverso la lettura di opere antiche dei primi secoli della cristianità (gli Scritti dei Padri della Chiesa, i Detti dei Padri del deserto, i Racconti di un pellegrino russo, ecc.) e pratiche secolari che ci vengono dalla tradizione medievale e moderna (la meditazione silenziosa, l’adorazione eucaristica, la via crucis, ecc). Mi ha anche fornito tanti esempi di persone profondamente cristiane cui ispirarmi (Maria Maddalena, Ignazio di Antiochia, Francesco e Chiara, Charles de Foucauld, ecc). Inoltre – come dici tu – mi ha permesso di studiare teologia, cioè indagare con metodo e rigore la fede. In questa direzione soprattutto la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano mi ha – come spesso dico – prima distrutto tutte la mia “fede da catechismo” per poi darmi strumenti scientifici grazie ai quali ricostruire su fondamenta solide e incrollabili il mio personale credere. Mi ha anche trasmesso il desiderio e la passione della ricerca e dello studio approfondito sia della Bibbia sia delle scienze umane. Essenziale in questa direzione sono stati personaggi come il card. Martini, Elisabeth Schüssler Fiorenza, Raimon Pannikar, Adriana Zarri, Hans Kung, Eugene Drewermann… per citarne alcun*

 Inizialmente la tua chiesa è nata come un gruppo indipendente, e il tuo carisma e il tuo approccio adogmatico ha permesso al gruppo di crescere molto, come raramente accade nelle chiese indipendenti. So che hanno aderito anche persone non di spiritualità cristiani: buddhisti, agnostici, liberi pensatori, persone con una spiritualità indipendente. E’ raro che una chiesa accolga queste diversità e sia così sincretica. Vuoi parlarcene?

In fondo noi siamo un gruppo “post-denominazionale”: cioè andiamo al di là delle definizioni dogmatiche e delle distinzioni tra una confessione cristiana e l’altra e, quindi, non ci identifichiamo con nessuna. Inoltre pensiamo che oggi la ricerca spirituale abbia da essere “a-religiosa”: assistiamo a un ritorno pericoloso del sacro che assume troppo in fretta il sanguinoso volto del fondamentalismo (islamico o cristiano che sia). Meglio, quindi, superare definitivamente ogni religione e camminare insieme (cattolici, protestanti, anglicani, ortodossi… ebrei, islamici, buddhisti, induisti… atei e agnostici…) nell’unico comune spirito umano che solo ci accomuna e cooperare per un mondo più giusto. Poi ognuno ha la sua strada, il suo sentiero, la sua via. E come dice il Dalai Lama è giusto che la segua. Ma per arrivare in cima a una montagna non c’è mai un solo (giusto) sentiero!

Questa peculiarità è solo del tuo centro (il cerchio) o di tutte le comunità federate nella MCC?

Noi “Il Cerchio-MCC” abbiamo la fortuna di avere tra di noi molte diversità: non siamo tutt* cristian*, così come non siamo tutt* persone LGBTIQA o etero, e non tutt* siamo famiglia o viviamo in relazioni di coppia. E questa per noi è una grandissima ricchezza perché ci preserva dal diventare un gruppo chiuso e omogeneo che rischia (magari inconsapevolmente) di arroccarsi su “fondamentalismi di senso opposto”. Anche la MCC a livello mondiale ha questa fortuna: ogni comunità è diversa dall’altra; e nella MCC l’inclusione (che è uno dei valori cardine) comporta il garantire e ammirare ogni diversità come un dono per sé e per la comunità; anche la diversità di chi non la pensa come me o non vive come me. E la sfida è quella di camminare insieme, cercando sempre di rispettarci e valorizzarci in quanto esseri umani, e di collaborare per i diritti nel mondo.

 La MCC nasce da un pastore pentescostale, quindi proveniente da una delle frange più conservatrici del cristianesimo, ma è totalmente slegata, ed è invece legata alla teologia queer. Come mai il tuo gruppo si è avvicinato a questa realtà? Come mai , tra tante realtà piccole e grosse che sono LGBT friendly, proprio a questa?

Il rev. Troy Perry (fondatore della MCC) era cresciuto nella tradizione pentecostale, come io in quella cattolica: ognuno di noi nasce e cresce in un contesto che non si è scelto. Quando, poi, Troy fece coming out (siamo negli anni ’60) venne sbattuto fuori dalla sua chiesa e da lì, dopo un periodo di crisi profonda, fece la sua scelta: creare una comunità cristiana totalmente inclusiva, da cui pian piano nacque la MCC. Inizialmente era una chiesa molto identificata come gay friendly, pur avendo al suo interno da subito anche persone etero. Poi pian piano sono arrivate anche alcune donne lesbiche. Negli anni ’80 si è presentato il problema AIDS e la MCC si è aperta anche a loro e a tutte le persone con MST. Sono stati gli anni in cui si sono anche adottate delle linee guida per un linguaggio e un’azione inclusiva di tutt*, anche tutte le T persons. In questo percorso la teologia queer ha sicuramente aiutato molto e, pur non essendoci nella MCC un solo pensiero (ma pluralità di correnti), la teologia queer è sicuramente un punto di riferimento imprescindibile. Noi come gruppo ci siamo avvicinati e abbiamo aderito alla MCC, perché ci garantisce la libertà di essere noi stess* non solo in quanto persone etero o LGBTIQA, ma anche in quanto atei/agnostici, cui non viene chiesto di credere in dio nè di farsi battezzare/registrare.

 La MCC ha aperture solo riguardanti le persone LGBT, oppure manifesta altre aperture rispetto ad altre categorie di “ultimi” che spesso le chiese tradizionali vogliono dimenticare? è legata anche alle teologie della liberazione?

La teologia queer nasce dallo sfondo delle teologie della liberazione. E in questa direzione la MCC è aperta ad ogni categoria di “ultimi” – come li definisci tu. Uno dei quattro valori base della MCC recita: “Ciò che guida il nostro ministero è offrire un messaggio di liberazione dall’ambiente religioso opprimente dei nostri tempi”. Questa è la direzione: offrire comunità aperte e accoglienti per tutt*. Inoltre – si legge sempre nei valori base della MCC – “siamo impegnati a resistere alle strutture che opprimono le persone e stare al fianco di coloro che soffrono sotto il peso di sistemi oppressivi, sempre guidati dal nostro impegno per i diritti umani nel mondo.”

Che tipo di formazione deve avere un pastore della MCC?

Per essere pastor* si richiede un periodo di colloqui con una responsabile mondiale che fa da mentore e introduce alla MCC. Inoltre è auspicabile che il/la candidat* si metta in rete con comunità/chiese MCC dell’area di appartenenza (per noi, per esempio, è l’Europa) e partecipi agli incontri annuali organizzati dal Network. Quindi viene proposto un ritiro (virtuale o in presenza) di 5 giorni che fa da avvio ufficiale al cammino per diventare pastor*. Poi si richiedono gli studi teologi base, più alcuni corsi specifici per la MCC (teologia queer, storia e organizzazione della MCC, un corso sulla sessualità e su come essere persone sessualmente sane e creare comunità sessualmente mature); è importante anche avere un mentore e una guida spirituale che ti sostengano, redigere un diario di pratiche spirituali per crescere come pastor* nella fede e umanità, partecipare a incontri/scambi on line organizzati per le comunità nascenti, assistere ad altre comunità già avviate e imparare partecipando (dal vivo o on line) alle loro celebrazioni. Inoltre si richiede una documentazione personale: curriculum, dati personali, certificato di sanità psicologica, certificato penale, ecc.

L’incontro con la teologia queer ti ha cambiato? Cio’ riguarda solo la tua visione spirituale o anche altri aspetti di te?

Non direi che la teologia queer mi ha cambiato. Ho piuttosto sentito una profonda consonanza tra la mia spiritualità e questo modo “irriverente” di indagare la fede e sovvertirne le strutture maschiliste di potere eterosessista. In particolare leggere “Il Dio Queer” di Marcella Althaus-Reid ha riacceso in me quell’interesse per la teologia che si era spento da tempo: dopo aver studiato per ben 9 anni questa disciplina mi era diventata noiosa e mi appariva spesso solo una “masturbazione mentale” sterile; l’incontro con la “teologia queer” mi ha fatto scoprire altri modi di ragionare sulla fede, osando strade altre per uscire dai sentieri comuni e già battuti ed entrare nei bordelli e scoprirli luoghi sacri e ben più fecondi delle accademiche e innocue facoltà teologiche. E così ho riscoperto il mio profondo desiderio di osare e battere strade “eretiche” e profetiche insieme.

 La particolarità della MCC è che non guarda con “pietismo” le persone LGBT ma anzi, diversamente dalle chiese un po’ sessuofobe (ovviamente non è richiesto il celibato per i vostri pastori), esalta la sessualità anche nelle sue varianti (BDSM, fetish, poliamorismo), vuoi parlarcene?

Negli MCC Statement of Purpose si legge: “Noi crediamo che le nostre sessualità sono un dono benedetto di dio; per questo non poniamo i nostri corpi lontano o al di fuori della nostra esperienza con dio.” E una delle sfide e dei compiti che la MCC si è posta fin dagli inizi è stato riavvicinare e far dialogare la spiritualità con la sessualità. Purtroppo spesso la spiritualità viene vissuta come antitetica alla spiritualità: più una persona è spirituale e meno fa sesso; viceversa se una persona fa molto sesso lo si interpreta come il segno di superficialità e scarsa spiritualità. Nella MCC invece crediamo che il sesso è sacro e divino di per sé e in ogni sua forma: è una potente forza di vita e creatività che ci chiede di essere vissuta così com’è. Quando ero nella Chiesa Cattolica vivevo le mie inclinazioni fetish e BDSM come deviazioni/perversioni. E quel tipo di spiritualità, che separa lo spirito dal corpo e il sesso da dio, mi ha procurato tantissima sofferenza interiore, di cui porto ancora le ferite. Un giorno rimasi davvero folgorato (come San Paolo sulla via di Damasco) dalle parole che trovai in un libro (Compagni d’amore) preso in una Libreria Gay a Milano, dove lo psichiatra e psicoterapeuta Vittorio Lingiardi scrive: “In ogni esperienza amorosa e in ogni desiderio masochista è presente il tentativo di raggiungere uno stato di integrazione spirituale, almeno un compromesso tra le pretese dello spirito e quelle della carne (…) Lo spirito, infatti, vorrebbe condurre a sé la sessualità, ma questa avanza una pretesa, con la sua passione, cui è difficile sfuggire. Dall’incontro tra queste due forze può originare una disposizione assai diversa dalla religione collettiva dogmatica dominante (…) Il masochismo potrebbe essere considerato un tentativo psichico di fare del sesso un sacramento che possa “soddisfare” il corpo, mantenendolo in un regime di spiritualità”. Quando lessi queste parole dissi: “Sì: è proprio così! Il sadomaso è per me un modo di vivere la mia spiritualità! È un sacramento! È una pratica profondamente religiosa e sacra che mi permette di connettermi col divino”. Ecco. Nella MCC si vive profondamente la propria sessualità e la si indaga come luogo dove dio parla alle nostre vita. Per questo ogni sua forma ed espressione sono benvenute. L’inclusione nella MCC è davvero globale e totale e comporta anche questo!

La mancanza di binarismo di genere fa si che sia una donna sia un uomo possano essere pastori nella MCC. E se invece si trattasse di una persona trans o genderfluid?

Chiunque è già sacerdot* nella MCC: non esiste una gerarchia o casta al di sopra o separata dagli altri e che ha delle regole di accesso/esclusione. Tutt* siamo già, per il fatto di esistere, benedett* e amat* da dio (dalla vita, dall’energia – chiamatel* come volete) e quindi sacerdot*. Ne deriva che chiunque può essere pastor*: sia che sia etero o omosessuale, maschio, femmina, genderfluid, trans, intersex, o altro. In fondo se – come qualcuno dice – “dio” ci ha creat*, trovo davvero strano che poi ci venga a dire, attraverso un suo sedicente portavoce: “No tu no: non puoi essere prete perché sei trans”. Non lo trovi un assurdo?! E poi anche “dio” è queer e trans.

 La tua chiesa si è costituita come associazione? Se vi sarà un’iscrizione per chi segue la tua chiesa, come risolverai l’annoso problema del rispetto dell’indentità di genere delle persone T? una persona T sarebbe veramente ferita se burocratizzata col sesso di nascita e non col genere d’elezione, e questo vale per battesimi, matrimoni, o anche per la semplice adesione.

La mia comunità non si è costituita ancora come associazione. Ci stiamo pensando… e stiamo insieme cercando forme che da una parte ci diano la possibilità di avere un minimo riconoscimento civile, senza, però, finire per essere paragonati a un circolo di Bridge (con tutto il rispetto) e dall’altra che non rischino di escludere qualcun*. Oltre alle persone T ci sono anche altr* che provano una certa resistenza di fronte all’essere tesserati e al dover aderire a una associazione: la sentono come una coercizione o una minaccia alla propria libertà. Sicuramente per noi è essenziale essere apert*, accoglient* e inclusiv* di tutt*; e comprendiamo benissimo che per una persona T il doversi registrare col nome di battesimo , quando esso non corrisponde alla propria identità, è molto doloroso. Quindi sicuramente non andremo in quella direzione! Pensa che la MCC nel 1981 ha redatto delle Linee Guida nelle quali dava indicazioni a tutte le sue comunità del mondo su come adottare un linguaggio inclusivo di tutt* E da lì anche tutti i documenti e formulari e certificati sono stati modificati affinchè tutt* possano sentirsi accolt* così come sono e vogliono essere riconosciut* e chiamat*.

 Che posizioni prendete verso la GPA (gestazione per altri)?

Nella MCC non esiste un solo pensiero o una posizione univoca: l’inclusione significa anche accogliere e valorizzazione le differenze di pensiero nel rispetto reciproco di ciascun* e condividere l’impegno concreto e profetico per i diritti di tutt* nel mondo. Quindi io ti posso parlare solo della mia personale posizione sulla GPA. Fatta questa premessa, credo che attorno a questi temi si (s)muovano molti pregiudizi e si tocchino tanti tabu (e ombre) che la nostra società non vuole affrontare e, quindi, preferisce etichettare (e congelare) in modo pregiudiziale per non guardare al proprio malessere culturale. E così si (s)ragiona con la pancia, senza neppure prendere in considerazione le evidenze dei dati scientifici e le esperienze di chi già ha vissuta questa esperienza nel mondo. Io personalmente sono favorevolissimo alla GPA, se fatta nel rispetto di tutt*. Il che significa che è fondamentale che un Governo la legalizzi e regolamenti in modo non restrittivo ma a garanzia della libertà di tutte le parti. Proibire e mettere una pietra sopra la realtà è da ignoranti: da gente che ignora che il flusso della vita va avanti e se anche la copri col cemento l’erba cresce lo stesso e spacca anche quella pesante crosta dura dei divieti e delle negazioni assolute. Inoltre poi, come dico nel mio blog appena aperto su LGBT News Italia, anche Gesù è nato da GPA! E la Bibbia è piena di esempi di ”uteri in affitto” e non sempre in modi edificanti e rispettosi. Forse si dovrebbe conoscere e condannare la Bibbia più che la GPA!

 E ora una domanda piccante per i nostri lettori. Ti definivi gay, ora queer. Mi spieghi che significato dài a questo termine? riguarda la tua identità di genere? il tuo orientamento sessuale? il tuo totale rifiuto dei ruoli e degli stereotipi? I nostri lettori (pansessuali, transgender, genderfluid, genderqueer e chi ne ha più ne metta) vogliono sapere se sei “dei nostri” :)

Sì prima mi definivo gay, ora queer… per diverse ragioni: innanzitutto perché esplorare più a fondo me stesso, le mie identità sessuali e anche il recente cambiamento di relazione mi ha portato da una parte a rendermi conto che io non sono solo un maschio; per cui la parola “gay” mi appare troppo riduttiva e non rende ragione del lato femminile di me, che non è affatto marginale. Questo poi mi ha anche incuriosito e stimolato a leggere, approfondire, conoscere esperienze altre (come la bisessualità, l’universo trans, l’asessualità, ecc). E congiuntamente ai corsi integrativi sulla sessualità, richiesti dalla MCC per il trasferimento della mia ordinazione come pastor*, tutte queste ulteriori conoscenze sono state un altro motivo che mi ha portato a riflettere sul potere dei presupposti teorico-culturali presenti nelle parole che usiamo anche per definirci: per cui oggi sento anche quasi come un dovere morale l’importanza di usare termini che non contengano (neppure velatamente) un modello maschilista-dicotomico-patriarcale per scegliere, al contrario, appellativi che contribuiscano allo sviluppo di una cultura fatta di rispetto e riconoscimento di tutt* e che rendano ragione della fluidità della vita che sempre si muove e muta in noi. Infine l’essere da alcuni mesi in una relazione BDSM (con un Master che è bisessuale) mi porta a essere a volte anche “donna eterosessuale”; anche per questo oggi la parola “gay” non mi corrisponde più. E – termino con una battuta (ma non troppo) – non essendoci “slave” nell’acronimo LGBTIQA, al momento “queer” è l’appellativo che più mi si addice. Anche se tutte queste etichette sono appunto etichette: noi siamo molto di più.

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Veterofemminismo, GPA e persone transgender

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Quando ero al liceo, nell’anno 2000, parlavo a professori, genitori e compagni della GPA con entusiasmo. Ai tempi era una novità parlarne.
Non ero cosciente di essere T, ma ero cosciente di voler diventare genitore e non “madre, sia relativamente al mio ruolo come figura genitoriale, sia relativamente al non vivere l’esperienza della gestazione.
Già allora, come oggi, mi interessavano gli uomini, quindi pensai che era possibile avere un figlio geneticamente nostro tramite una volontaria che ci avrebbe potuto aiutare a diventare genitori.
Quando parlo di GPA non separo tanto quella che puo’ essere fatta da una coppia gay, un padre single, una coppia tra un uomo e una persona T, o una coppia etero: sono a favore di tutte le esperienze GPA che siano rispettose delle persone coinvolte.

Ma veniamo a noi: perché questo articolo, e perché oggi?

Sono iscritto al gruppo facebook “Libreria delle donne”.
Qualche giorno fa sulla mia home è apparso un post in cui una femminista citava con fierezza Busi, in una citazione piena di odio, misantropia, misandria e omofobia (interiorizzata). Non mi interessa perché Busi (come altri gay prima di lui) esprima contenuti omofobi, ma mi fa orrore vederlo citato dalle sedicenti femministe, sia in quanto lui storicamente misogino, sia in quanto non mi aspetterei una connivenza, o meglio, complicità attiva, delle femministe, con colui che usa tanta violenza verbale verso l’uomo padre.

“A me un uomo che si stringe al petto villoso un neonato come se fosse appena uscito dal suo di grembo di puerpero fa prima sgomento e poi mi fa venire una ridarella irrefrenabile.”

Sotto questo commento, una standing ovation di femministe a dire che è bravo, che è un grande, e che sottoscrivono ogni sillaba da lui detta.

In quel momento ho avuto un ricordo di mio nonno, d’estate, abbronzatissimo e a torso nudo, mentre portava in braccio il mio fratellino neonato, che “faceva il ruttino” e si addormentava solo con lui.
Quanto orrore nelle parole di Busi, e quanto svilimento delle figure maschili nella vita di un neonato.

Negli stessi giorni il mio caro amico Ethan Bonali mi ha portato all’attenzione un articolo della cara amica Monica Romano, riguardante la transfobia delle veterofemministe, soprattutto verso le donne trans.

Il veterofemminismo all’attacco delle donne transgender

Una volta la stessa Monica mi chiese come mai io, a differenza di lei, mi dico “antibinario” e non “femminista”, nonostante spesso le mie idee di indignazione per i comportamenti di molti uomini prevaricatori (non sempre biologici) verso il femminile coincidono con le sue, di donna transfemminista.
Eppure io continuo a ritenermi un antibinario, pronto a denunciare non solo la discriminazione verso la donna e “il femminile”, ma anche verso tutto cio’ che è gender not conforming, anche quando “maschile” o “ambiguo”.

Mi sono chiesto perché il veterofemminismo prenda queste posizioni violente, misandriche e transfobiche.

Forse dipende dal fatto (ma è una constatazione anacronistica e quindi priva di senso) che il loro movimento si chiami “femminismo” e non “donnismo” (anche se allora erano oscure le differenze tra il concetto di “femmina” e quello di “donna“). Loro non esaltano l’essere donna, quindi qualcosa di puramente psicologico, ma l’essere femmina, con tanto di esaltazione di utero, ovaie e vagina.

Spesso vi è un legame anche con wicca, neopaganesimo, e altri culti new age che esaltano il femminile come mero dato fisico (mestruo, vagina, etc etc) e quindi anche loro evitano ad esempio la partecipazione alle loro cerimonie delle donne transgender (accettando invece, in un gesto privo di senso, gli uomini transgender, in quanto muniti degli accessori fisici che rendono “femmina”).

Alla luce di questo legame fortissimo tra “femmina” e “utero”, ecco le battaglie per il diritto (sacrosanto a mio parere) di abortire e quindi disporre liberamente dell’utero senza l’interferenza maschile (del padre del bambino, ad esempio), ed ecco la fortissima ostilità verso ogni forma di prostituzione femminile (la vagina è sacra, non puo’ essere “venduta” all’uomo, in una visione dove il sesso viene ricondotto ad una compravendita di vagine).

Da qui si passa all’ostilità per gli ftm, i quali “desidererebbero non avere la vagina, l’utero e le ovaie” e quindi sono dei traditori, degli ingrati. Hanno ricevuto il “dono” di accessori sacri come utero, vagina e ovaie, e desiderano sbarazzarsene.

La maternità viene vista non come qualcosa che riguarda il rapporto tra il bambino e la donna che compie il ruolo di madre, ma viene sopravvalutato e idealizzato il ruolo della gravidanza e, con condimento di new age misto pesce,  si parla di un legame indissolubile tra bambino e partoriente, che non puo’ essere in nessun caso interrotto (ma nel caso dell’aborto, misteriosamente, si!).

Questa visione svilisce una serie di soggetti coinvolti:
1) chi ha partorito per poi rompere il legame magico col bambino
– le ragazze vittime di gravidanze indesiderate, o che non possono permettersi di dare una vita dignitosa al figlio, che pur amano, e devono darlo in adozione
– le volontarie nella GPA, che hanno permesso a una coppia (etero o non etero) di avere un bambino
2) chi, pur essendo femmina, è diventata madre senza partorire
– le madri adottive in coppia eterosessuale, che non saranno mai viste come “vere” madri, perché il bambino si lega a loro quando è già nato.
– le madri impossibilitate ad usare il proprio utero (o madri donne trans) che sono diventate madri tramite la GPA
– la madre non biologica nelle coppie lesbiche, o entrambe se hanno adottato
– madri adottive e affidatarie, anche single
3) i padri
– i padri (anche quelli etero e anche quelli biologici), che non sono legati al figlio come lo è la madre biologica, e mai lo saranno
– le coppie di uomini gay che hanno un figlio, anche tramite adozione
– i padri single, adottivi e affidatari
– gli ftm che preferiscono usare la GPA, tramite madre surrogata (se in coppia con uomo biologico) o tramite la gravidanza della propria compagna (se in coppia con una donna biologica)

Le femministe, che in altri casi sono amiche delle battaglie LGBT (soprattutto battaglie lesbiche), nel caso della GPA stanno creando un fronte ostile e anche spesso grottesco contro le persone LGBT genitori o che vogliono diventarlo, usando argomentazioni degne delle sentinelle in piedi e Adinolfi.

 

Un ringraziamento a Monica Romano, Saverio Romani ed Ethan Bonali per essere parziali ispiratori di questo post


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Vetero-attivisti Gay e separatismo “G”

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Tempo fa scrivevo in una mailing list sedicente “queer“. Un tempo, negli anni novanta, il fervido scambio di idee tra persone geograficamente lontane avveniva in queste liste, e non su facebook o nei blog.
Consideravo questa lista un luogo in cui poter scambiare idee con gli attivisti della vecchia guardia (che non sempre sono anche della retro-guardia), ma poi mi sono distaccato dalla lista perché internet distorce la percezione: si creano erronee percezioni rispetto agli attivisti che vi scrivono dentro, vengono accettati tutti, dal nerd che vive sul web e non frequenta l’attivismo (magari è anche velato), a quello che sul web è noto per via di blog e pubblicazioni, a quello che fa attivismo intenso e utilissimo sul territorio, ma la cosa non è “leggibile” nel web.
Di conseguenza, si creano gerarchie che non rendono giustizia a chi vi scrive dentro, soprattutto se la moderazione è di parte, ma a parte questo, si creano anche malintesi sulle reciproche idee, distorsioni e fraintendimenti spesso in cattiva fede, tipiche dinamiche di quando si comunica per iscritto e senza frequentarsi, guardarsi in faccia,e capire i “perché” di certe posizioni.
Non credo che ci sia questa separazione tra “vecchi” e “giovani”.
Sono in ottimi rapporti, e c’è un’enorme stima da parte mia, per persone della “vecchia guardia”, magari anche con visioni lontane dalla mia, tra cui Gianni Geraci, Porpora Marcasciano, etc etc, quindi non la considererei una lotta “vecchi contro giovani” (che poi si stia parlando di giovinezza anagrafica o di attivismo?), ma un confronto tumultuoso tra “visioni” vetuste e visioni nuove e inclusive.
Non è detto, poi, che siano i “vecchi” (anagraficamente e come attivismo) ad avere idee vetuste e i giovani ad avere idee avanguardistiche e inclusive.
Chi insiste a proporre la cosa come una guerra generazionale ha solo la volontà di posizionarsi come “decano” e sminuire chi è più giovane anagraficamente e  i contributi che porta.
La mia dipartita, silenziosa e riservata, da quella lista, è stata causata del continuo proporre, da parte di un attivista Gay neanche tanto anziano (ha l’età che avrebbe mio padre se fosse vivo, ma non ce lo vedrei mio padre a smadonnare coi trentenni in delle mailing list), il quale ogni santo giorno citava articoli, spesso americani o inglesi, in cui si erano presi dei provvedimenti (improponibili in italia, a causa dell’arretratezza culturale), per migliorare le vite delle persone trans e antibinarie, e lui si lamentava del fatto che ci si occupa di cose inutili e “deliranti”.

Faccio alcuni esempi per capirci:

http://www.transstudent.org/asterisk
Qui il vetusto (ma non tanto anziano) attivista si lamenta che un sito straniero di studenti trans riflette sull’accantonare l’asterisco (in effetti è inutile e anche un po’ offensivo usarlo su una persona di identità di genere dichiarata, come una Mtf ad esempio)
Commento benaltrista del veteroattivista: “Ultimo proclama della santa inqueerizione
Il mondo, palesemente, non ha problemi più urgenti di cui occuparsi.”
Continua, dopo alcune contestazioni, il veteroattivista, col suo benaltrismo:
“Intanto ci siamo stressati per anni su un problema che non è un problema, se non per coloro che lo hanno intenzionalmente generato allo scopo di proporsi come sentinelle del linguaggio. Ed io, lo ripeto, sono stufo.
Ti assicuro che se fosse lontanamente possibile discutere di problemi etici e politici (qualcuno ha intravisto un dibattito sulla maternità surrogata che non fosse quello impostoci dalle destra cattoliche, in questi paraggi?) invece che delle desinenze degli aggettivi, o di quale tipo di smalto devi usare se sei queer, il primo a fare salti di gioia sarei io. Anzi, se non si era capito, il messaggio non per nulla subliminale da parte mia era esattamente: ne ho pieni i coglioni di queste stronzate, che sono solo armi di distrazioni di massa, pensate per impedirci di pensare ai problemi reali. Il primo dei quali è l’omofobia interiorizzata.”

Man undresses in front of girls in Seattle locker room, cites “Gender Identity” regulation
qui viene pretestuosamente citato un personaggio di sesso maschile (di cui ignoriamo la reale identità di genere) il quale frequentava gli spogliatoi femminili, appellandosi alla sua identità di genere femminile. Commento del vetero, che attacca la libertà di autodefinizione, oltre a “decidere” che la persona in questione non è trans (su che basi?):
A dimostrazione del fatto che non sono io ad essere “ossessionato” dalla “Culture War” ma è il movimento italiano ad essere “ignaro” del bisogno vitale di fare chiarezza in modo netto e “normativo”, si legga questo caso di un individuo cisgender che è entrato negli spogliatoi delle donne proclamando che si “sentiva” transgender.
Secondo me era solo un voyeur, ma non ci vuole molto a immaginare il giorno in cui i nostri nemici insceneranno provocazioni deliberate, approfittando di qualsiasi mancanza di chiarezza nel nostro modo di agire e di ragionare.

Dopo la pubblicazione, da parte di qualcuno, di un interessante post di Monica Romano
Il veterofemminismo all’attacco delle donne transgender
viene citata una parte dell’articolo e disprezzata con approccio transfobico e “determinista biologico
“non lo sono nemmeno una coppia di cromosomi o l’ovulazione, a fare una donna”.(citazione dall’articolo di monica)
“Se occorreva una dimostrazione del perché io parlo di delirio, l’abbiamo appena avuta. Incidentalmente, io la storia di un uomo che vuole decidere lui chi possa o non possa avere il diritto di definirsi donna l’ho già vista. I maschi lo fanno da circa 10.000 anni, di voler decidere loro chi sia una “vera” donna e chi no. Se qualcuno si chiede di cosa stiamo discutendo, ecco qui la risposta: stiamo discutendo del preteso diritto di un qualsiasi maschio […], purché autodefinitosi “antitesi di patriarcato e fallocentrismo” (in base a cosa non si sa), di decidere lui, in base a quali criteri le donne hanno il “diritto” di dirsi tali oppure no.
E poi quello assurdo qui sarei io? Il mondo è divertente…”
chi sarebbe il maschio? l’autrice trans? incredibile…ma continua dicendo…
“Ad ogni modo lo ringrazio dei link, che confermano la mia denuncia contro l’atteggiamento normativo e inquisitoriale dei e delle teoriche queer. Risponderò nei prossimi giorni non qui in lista ma con un articolo sul mio sito.” (attendiamo con ardore…)

Viene citato uno studio sulla possibilità di bagni “non binari”, per venire incontro alle persone trans e non binarie
http://gtr.rcuk.ac.uk/projects?ref=AH/M00922X/1
Ma nel commento polemico del “vetusto” che ci informa di questo post, viene dato risalto al costo in sterline dello studio (manco fosse Adinolfi)  e soprattutto questo commento benaltrista
“Il Potere non ha nessuna difficoltà a incoraggiare queste “armi di distrazione di massa”, in modo da stabilire che la priorità oggi sono figurine disegnate sopra le latrine.” ci dice il veteroattivista

https://www.jwtintelligence.com/2016/03/gen-z-goes-beyond-gender-binaries-in-new-innovation-group-data/?platform=hootsuite
Questo articolo sullo shopping antibinario e sulle esigenze antibinarie dei giovani era accompagnato da un commento contrito in cui si rifiuta di commentare (sarà stanco di ripetere le stesse oscenità?) se non dicendo “questo è il mondo reale”.

Potrei continuare all’infinito, ma il concetto è: sono i “giovani” che odiano “i vecchi” per partito preso, oppure sono alcuni vecchi che, complice l’aterosclerosi, si stanno concentrando non più sul valorizzare le battaglie, ma sullo sminuire quelle che non piacciono o che considerano “inutili” solo perché lontane dalle loro esigenze?
Innanzitutto non esiste una “comunità gay” a cui consigliare di abbandonare le cause “inutili” (che guardacaso sono quelle T), per concentrarsi su quelle “importanti” (che guardacaso sono quelle G.
Questa gente dovrebbe capire che ormai, e per fortuna, il movimento è LGBT, e tutti hanno a cuore tutte le battaglie.
Altro errore madornale, a mio parere, è il fatto di confondere battaglie queer e battaglie transgender, o meglio, non capire che le battaglie antibinarie sono ANCHE per il benessere delle persone transgender (soprattutto delle ultime generazioni) e per alleviare la loro disforia. E’ scandaloso che si pensi che il binarismo obbligatorio venga combattuto per “nazismo”, per “capriccio”, per “imposizione” o “inqueersizione” e non per alleviare la disforia delle persone trans e non binarie. E’ vero che la disforia di genere devi averla per capirla, ma tanti attivisti LGBT (anche anziani!) sono sensibili verso le esigenze delle persone trans (anche se la battaglia antibinaria non migliora solo la vita delle persone trans!), e rimangono fuori solo alcuni vetusti attivisti “urlanti”, impotenti di fronte all’onda arcobaleno di diritti (anche per i T e anche antibinari) che sta arrivando nei paesi in cui c’è già da anni una legge contro l’0mofobia e per il matrimonio egualitario,e  giustamente ci si può concentrare su battaglie all’avanguardia.
Citare articoli americani ed inglesi in italia per “convincere” il movimento LGBT (che i vetusti chiamano ancora “gay”) ad abbandonare le battaglie T perchè inutili, superflue e “dannose per i gay” (???) è malafede, cattiveria.
Onestamente ho perduto delle ore preziose in queste mailing list, col mio sguardo offeso da questi contenuti transfobici, binari, e alla ricerca di un ripristino di non so bene quale normalità binaria (in cui le istanze importanti sono solo quelle dei gay, delle lesbiche, e delle persone trans canoniche).
Dopo la mia dipartita il “vetusto” ha pubblicato un post vittimista in cui dice che la mia associazione (come se “io” fossi “la mia associazione”…forse ai suoi tempi (Ancien Regime?) le associazioni erano monarchie in cui il pensiero del presidente coincide con quello dell’associazione!), vuole rottamarlo e lo considera un dinosauro (purtoppo per lui si sopravvaluta, in associazione quasi nessuno lo conosce).

Da qualche tempo ho il dubbio e mai cercato onore di essere bersaglio del gruppo “Milk” di Milano che mi addita come un dinosauro sfuggito non si sa come all’estinzione, che abusa della sua ingombrante presenza per ostruire la strada al progresso (che sarebbe il gruppo Milk, per chi non l’avesse intuito), imponendo visioni transfobiche, bifobiche, omofobiche e qualsiasialtracosafobiche. Ho approfittato di un post sulla lista di discussione “Movimentoqueer” (in cui si afferma che tutto il “nuovo” movimento gay è sulle posizioni del Milk, o per lo meno lo sono i gggggiovani, e solo io insisto a chiedere il “separatismo” dai transessuali).

Sempre riguardo al Milk (che non frequenta e di cui conosce virtualmente solo me, che sono uscito dalla lista da ere geologiche, e quindi chissà chi considera del Milk adesso…probabilmente chiunque abbia idee contrarie alle sue), aggiunge

Una settimana fa uno di voi della conventicola del Milk ha sostenuto il proprio diritto a porre la questione delle desinenze degli aggettivi come questione cruciale e primaria nella lotta politica gbpqixhfejkfskòfd.

Quando ho provato a rispondergli, sul suo profilo Fb, che in realtà “Il Milk” non si è mai espresso su di lui, e l’unico “torto” che a fatto alla sua “maestà” è non averlo invitato a presentare il suo libro, mi ha bloccato.

Le citazioni in alto riportate daranno a tutti voi lettori gli strumenti per capire se sono io il “pazzo” che vede transfobia nelle sue parole e se non ho ragione a dire che l’attivismo moderno (non certo perché “ispirato” dal milk) va in una direzione inclusiva e “LGBT”.
Di certo vuole attirare la mia attenzione, ma la verità è che non merita l’attenzione nè mia nè di nessun altro giovane attivista (a meno che non voglia farsi le ossa con qualche polemica sterile da nerd dietro il monitor), perché l’ondata di diritti e di cambiamento antibinario è talmente forte che spazzerà via vetusti e binari ancor prima che ci rubino altre ore in cyberpolemiche da lista.

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Pansessuali e panfobia

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Usare la definizione “pansessuale”, in ambienti di attivismo “omosessuale”, crea una reazione diversa rispetto a quando si usa il termine”bisessuale“.
Se la prima causa ira, ferite aperte, confusione con i concetti di velato, confuso, opportunista, la seconda crea addirittura scherno e derisione.
Parte della derisione per il pansessualismo è legato all’equivoco che nasce dall’etimologia della parola pan-sessuale.
E’ vero che, dal greco, “pan” significa “tutto“, in contrasto con “bi“, che significa, binariamente, “sia l’uno che l’altra“. Il prefisso bi contiene, inequivocabilmente ed inevitabilmente, un rigido dualismo.
Molti bisessuali non binari (ma non tutti) preferiscono quindi l’uso dell’autodefinizione “pansessuale”.
Anche molte persone di orientamento prevalentemente omo o prevalente etero (omoflessibili, eteroflessibili, persone che potremmo dire al livello 1 o 5 della scala kinsey), che però non escludono partner gender not conforming, si sentono maggiormente rappresentati dalla parola “pansessuale” che dalla parola “bisessuale”, che creerebbe l’equivoco di inquadrarli come persone indifferentemente attratte “a parimerito” dal femminile e dal maschile.
Inoltre c’è una differenza concettuale: se la persona bisessuale mediamente ama definire il suo orientamento dicendo che può amare “sia uomini, sia donne”, la persona pansessuale preferisce dirsi capace di amare una persona qualsiasi sia il suo sesso e/o genere.
Quindi essere “pan” non significa amare “tutti” (come vorrebbero farci credere le persone pan-fobiche) ma, potenzialmente, poter amare qualsiasi persona, indipendentemente dal suo sesso o genere.
Chi di solito è “affetto” da “pan-fobia“?
Sicuramente può provarla chi prova bifobia (uomini omosessuali, donne lesbiche, etero molto chiusi e chiuse), magari rincarando la dose verso il o la pansessuale, “addirittura” attratto/a da persone trans (quindi la panfobia si lega alla transfobia).
Ad essere vittime di pan-fobia ci sono anche persone che, provenendo da un passato mono-sessuale (una persona omo o etero), ad un certo punto entrano in relazione con una persona trans* o genderfluid. Lo scetticismo della precedente comunità di riferimento (omo o etero) potrebbe essere vista come panfobia o come “transfobia” proiettata sui partner. Sarebbe da definire se l’ostilità più verso questa persona o verso il o la partner.
Articoli come questo dànno fastidio, ed è per questo che non lo divulgherò se non in spazi virtuali per persone antibinarie.
Forse fanno bene, infondo, quei pansessuali de factu che preferiscono usare la definizione “bisessuale” solo per non ereditare ulteriori malintesi ed ulteriore ostilità


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Giornata della visibilità…gender not conforming

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Tra qualche giorno sarà la giornata della visibilità transgender.

Si sente spesso parlare di visibilità” relativamente alle minoranze.

“Il negro è più fortunato del gay, perché non deve dirlo a sua madre”, dice un proverbio poco politically correct. Non fa riferimento solo al fatto che chi è di colore ha una comunità di riferimento di persone come lui, ma anche al fatto che la pelle e il suo colore sono visibili a prescindere dalla propria volontà.

Non è così per quanto riguarda l’essere LGBT, o comunque, non sempre.

Facciamo l’esempio di una persona omosessuale: potrebbe essere visibile in tre modi.
Il primo è se si tratta di una persona attivista a dichiarata, il secondo se dà visibilità a una relazione omosessuale, il terzo è se è (come si dice a volte con un filo di disprezzo) “evidente”, ovvero se si tratta di un uomo molto effeminato o di una donna molto mascolina (e quindi, vista l’ignoranza comune, chi ha un’espressione di genere non canonico è per forza una persona omosessuale…).

Essere trans invece non è legato alla visibilità di una relazione, ma è una condizione personale. Alla luce di questo, una persona trans, potrebbe essere velata solo in due casi: prima (o senza) iniziare un percorso di visibilità del suo genere, o, sovente, alla conclusione di quel percorso (modalità stealth), dove per conclusione si intende la rettifica anagrafica e un “passing” che permetta di confondersi esteticamente con i cisgender.

Il cambiamento (non per forza medicalizzato) inizialmente dà visibilità alla condizione T, perchè trasforma la persona apparentemente cisgender/gender not conforming, in una persona aderente alla sua vera espressione di genere, anche visivamente. Il contrasto di questa manifestazione pubblica di un genere, non “conforme” al sesso biologico, crea visibilità.

Questa visibilità spesso viene, man mano, persa andando avanti con l’iter di transizione, o semplicemente avendo un buon passing, a volte anche solo per caso e per fortuna (anche se non sempre poi viene vissuta come una fortuna, e più avanti spiegherò il perché).

Le persone visibili nell’universo T sono quindi quelle di cui si percepisce l’appartenenza ad al genere d’elezione, ma non al sesso relativo a quel genere.
Se stiamo parlando di transgender in percorso medicalizzato (transessuali, anche se non tutti amano questo termine, ma altri mi bacchetterebbero se non lo usassi), spesso questa visibilità viene persa andando avanti col percorso di cambiamento fisico, e ad essa di sostituisce, nel caso di persone T attiviste o visibili per scelta, al dichiararsi ancora trans e con orgoglio, nonostante l’aspetto non palesi più questa identità (ad esempio l’attivista Monica Romano).

Se la medicalizzazione, quindi, permette di rendere visibile il proprio genere, talvolta, soprattutto in direzione ftm, permette anche di (o costringe anche a) cancellare le tracce visibili del proprio percorso, quando lo si desidererebbe, ma anche quando non lo si vorrebbe assolutamente. Il testosterone è uno strumento potente, efficace e veloce, rispetto alla tos riservata alle donne T, che, nel bene e nel male, genera cambiamenti più graduali e quindi a volte meglio metabolizzati dalla persona (questo a prescindere dagli strumenti culturali ed emozionali delle singole persone).
Dopo pochi mesi un ragazzo transessuale ftm è un nato maschio per tutti coloro che non lo conoscevano da prima e a cui non si dichiara tale.
Per un ftm in tos da alcuni mesi, l’unico modo di essere visibile come persona T è dichiararsi tale. 

La persona in direzione ftm, anche a causa del fatto che molte persone, e ancora di più fino a qualche anno fa, non sanno che esistono i transgender in direzione ftm,  non è solo più favorita all’invisibilità (o sfavorita nella visibilità) nel post-transizione, a causa della “potenza” del testosterone, ma è anche più favorita all’invisibilità (o sfavorita nella visibilità) anche nel pre-transizione o nei percorsi non medicalizzati.

Se una donna T inizia ad essere visibile come tale quando inizia ad avere un’immagine con elementi ed accessori squisitamente femminili (tagli di capelli, abiti, scarpe…), poiché il mondo di oggi ha gli strumenti culturali per fare un dovuto distinguo tra lei e l’uomo omosessuale, il ragazzo ftm non medicalizzato o pre-transizione, a causa delle diffuse mode unisex, può essere tranquillamente scambiato per una donna lesbica o una donna etero poco femminile o sciatta, se non aderente alle mode rock o di sinistra.

Credo che infondo ci sia una scomoda verità dietro a questa maggiore invisibilità dei percorsi di chi nasce XX: ovvero la cancellazione del femminile, il disinteresse per ciò che è, lo stesso disinteresse che ha ad esempio la Bibbia verso il lesbismo (mentre si accanisce verso la sodomia), o comunque in generale si ha per tutto ciò che è F di nascita.

Non a caso, prima,  ho detto che la direzione ftm “favorisce l’invisibilità” per chi la cerca, ma “sfavorisce la visibilità” a chi invece la ambisce e la desidera profondamente.
Questa “poca leggibilità” della condizione ftm agli inizi crea grandi difficoltà, malintesi, poco rispetto dell’identità di genere della persona e scarsa tendenza a prendere sul serio la cosa fino alla medicalizzazione,e , quando non avviene perché non desiderata, una tendenza a leggere il percorso come qualcosa di per forza legato al femminismo, al lesbismo o al queer, come qualcosa di volubile, di fluido, di non definitivo (del resto, chissà come mai, chi nasce femmina è condannato/a al pregiudizio di una maggiore flessibilità di generi, orientamenti, e ruoli, forse in relazione al pregiudizio che vuole la donna più fragile e plastica dell’uomo).

Questa invisibilità genera sicuramente frustrazione, ma protegge. Un ragazzo ftm non medicalizzato potrebbe sembrare un ragazzino biologico, o una donna sciatta o lesbica, ma molto probabilmente non verrà pestato in una metropolitana o in un sottopassaggio. Anche questo finto vantaggio è figlio del maschilismo. Ad indignare, tanto da meritare una “punizione fisica”,  infondo, è “l’uomo che si vuole spacciare per donna”, ovviamente per fregare il virilissimo uomo etero e provare a portarlo verso l’omosessualità….

Nel caso delle donne T, spesso la visibilità, almeno inizialmente, non la si vorrebbe. Non quella obbligata da un aspetto che rende visibile il sesso di provenienza. Eppure quella visibilità non desiderata, che accompagna la donna T fin dalle prime uscite al femminile,  e poi per molto tempo, a volte per sempre, rappresenta una forza, e rende la donna T libera dalla frustrazione dell’invisibilità che spesso vive un ragazzo ftm, che sia prigioniero di un corpo apparentemente biologicamente maschile, che cancella la ricchezza di un percorso, sia che sembri di donna e femmina, seppur alternativa.

Cosa c’entra la visibilità estetica con la visibilità politica? Molto, perché non è un caso che le prime attiviste siano state delle donne trans e travestite, e non di sicuro degli omosessuali in cravatta. La visibilità, il doverla portare sulla pelle ogni giorno, non diversamente da come un nero porta la sua pelle nera, dà forza. E’ per questo che molte donne T, anche dopo aver adeguato il loro aspetto al loro sentire, decidono di rivendicare il loro essere T e producono letteratura.

Per me, transgender non medicalizzato, è un continuo barcamenarmi tra le due invisibilità tipiche del mio percorso, e la ricerca di un’immagine che mi permetta di essere sempre visibile come uomo, ma non come maschio, che poi è ciò che io sono e, quindi, che voglio apparire.
L’unico strumento che ho, per vincere queste due invisibilità (il rischio di sembrare una femmina donna, o di sembrare un maschio uomo), è quella del creare visibilità dichiarandomi per ciò che sono, anche se sarà faticoso farlo ogni giorno con persone diverse, e per sempre.
Tuttavia, questa visibilità che mi causa una lotta continua ogni giorno, è quella che mi permette, nonostante tutto, di non dimenticarmi mai chi sono.


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Non è un paese per GenderQueer

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Quarto anno di università per Ale, in una grande città del Nord, nessun amico.
Allo studentato dove risiedeva erano stati divisi in maschi e femmine, e si sentiva estraneo rispetto ai discorsi delle compagne di corridoio. Depilazioni, epilazioni, ricostruzione delle unghie col gel, tacchi 9, 10 e 12, e trucco tatuato semipermanente.
Anche all’università l’ambiente non era tanto diverso. Si aggiungeva una malcelata presunta superiorità da parte degli studenti indigeni, provenienti da ricche famiglie di città, figli d’arte, cresciuti a pane, Gucci e L0uis Vitton.

Non tornava a casa da molto tempo, preferiva percorrere infinite vie deserte, senza lo guardo dei passanti, in un’anonima città grigia, piuttosto che fare il protagonista di sgradevoli cene con copioni già scritti a casa di zie meridionali invadenti e ingombranti.
Qualcuno, i suoi cugini invidiosi, sposatisi a vent’anni, diceva che Ale, al nord, si nascondesse. Quello che non sapevano è che Ale lì aveva potuto essere chi realmente era, ed era nella sua provinciale cittadina meridionale che doveva nascondersi.
Ale non aveva voglia di recitare, di dare spiegazioni, di riceve domande stupide e binarie come “Quando ti sposi?“, “Hai trovato un fidanzato?“, “Come mai hai tagliato i capelli? Non preoccuparti…così sei ancora più femminile, tranquilla, cara!“.

Ale a Milano i capelli se li tagliava da solo. Era bastato un piccolo investimento al negozio CapelloPoint: un paio di forbici e un pettine scuola, e una clipper tagliacapelli con varie regolazioni. Bastava separare la parte corta, sotto e dietro, da quella appena lunga, di sopra, e, col supporto di un gioco di specchi che permetteva di vedere dietro e sui lati,  finalmente quintali di riccioli invidiati da zie e cugine zitelle avevano lasciato il posto ad un’acconciatura più adeguata.

Ale spariva sui vagoni delle metropolitane che percorreva su e giù per muoversi in città. Bastava un fasciacollo tenuto su alto e un occhio coperto interamente da un ciuffo emo ad allontanare lo sguardo delle e dei curiosi. Lo sguardo era proteso verso chi era più bizzarro e appariscente: i glamster di periferia, barboni, mendicanti, obese, e travestiti.
Ale guardava con impassibile rassegnazione la trans che le sedeva di fronte in metro: alta, ossuta, tacco sedici, capelli biondissimi, forse una parrucca, cerone spesso e pesante che copriva un residuo di alone di barba. Provava grande simpatia per quella ragazza, che, diversamente da lui, non era invisibile. Tutti guardavano perplessi e sgomenti quella ragazza infondo così binariamente conforme alle aspettative che la società ha verso le donne.
Quanta poca distanza c’era tra quella trans ed Ale. Sentiva questa vicinanza, non la comprendeva, ma la cosa che generava più sorpresa in lui era il vedere che lei attraeva l’attenzione e gli sguardi di tutti, mentre la sua diversità veniva ignorata, tollerata.
Ci fu un fugacissimo sguardo tra lui e quella trans. Entrambi avevano compreso perché si erano guardati con comprensione ed empatia, ma nessuno dei due fu capace di esprimerlo a parole, e di raccontarlo anche solo a se stesso.

Ale non aveva mai amato le regole non scritte della vestizione rituale femminile. Ci aveva camminato sui tacchi, una volta, alla laurea triennale. Li aveva dovuti togliere dopo poche decine di minuti, per continuare in tennis. Trucchi e profumi gli davano allergia alla pelle, ma forse, infondo, l’allergia si legava ad altro.
Allo studentato aveva trovato un annuncio: un tale, Nicola, si proponeva come maestro privato di chitarra elettrica. Scoprì che Nicola era a poche camere di distanza da lui, giusto aldilà del corridoio che, svoltanto, portava all’altra metà del cielo: l’ala dei maschi.
Si erano scambiati solo sms, ed è per questo che Nicola si sorprese nel vedere chi gli stava chiedendo lezioni. La stanza era disordinata, vi erano calzini e mutande dappertutto, e anche un mozzicone di canna o sigaretta. Vi era un grosso amplificatore portato su a sgamo e nascosto malamente da una bandiera della pace, pedali e pedaliere dappertutto, una vecchia Stratocaster e il Dante Agostini, la bibbia del solfeggio ritmico. Ai muri, poster di gruppi ed autori che salivano sul palco quando Nicola ed Ale non erano ancora nati. Nicola tolse gli occhiali da sole in stile Doors, tirò indietro i folti capelli mossi in stile Jim Morrison, e indicò ad Ale un traballante sgabello dietro ad un altrettanto traballante leggìo con alcuni spartiti per principianti.

Nicola era molto soddisfatto dei progressi che Ale faceva, maggiormente determinato rispetto ad altri alunni per cui una chitarra elettrica e uno spartito hard rock sarebbero stati maggiormente scontati. E così Ale aveva atteso intrepido il vaglia postale mandato da casa, quello che la mamma gli mandava affinchè “la sua piccola” potesse fiorire nella sua femminilità con accessori alla moda, senza sfigurare davanti alle raffinate colleghe del Nord, montate e  figlie di papà .
Teneva in mano i contanti prelevati poco prima dal BancoPosta quando si recò al negozio di strumenti musicali, consigliato da Nicola.
Signorina, desidera qualcosa? un microfono?
No, una chitarra elettrica?
Deve fare un regalo al suo ragazzo?
No, ma… è per un ragazzo…” Disse Ale timidamente, prima che il commesso si mettesse a mostrargli la Stratocaster di Hello Kitty o i simpatici modelli in rosa da parrocchia.

Dopo che ebbe un suo strumento, Ale iniziò a fare progressi rapidi. Era intraprendente, e presto mise un annuncio per un gruppo PunkRock. Si trattava di ragazzi di periferia, lavativi che avevano interrotto gli studi per cattiva condotta, anarchici ed idealisti, e anche un po’ puzzoni, ma erano rimasti piacevolmente colpiti dalla candidatura di Ale, sia perché inattesa, sia perchè era andato lì col sorriso, nonostante avesse dovuto percorrere chilometri a piedi, cambiando tre autobus, con un amplificatore portatile e una chitarra con custodia rigida.
Quel gruppo di disadattati, esclusi da famiglie e comitive per la loro stranezza, era diventato una famiglia per Ale. Loro erano diversi dalle borghesi colleghe con la puzza sotto al naso dell’università.
Ale era un nerd e uno smanettone, e bastò registrare un demo per farlo finire sul bancone di qualsiasi locale che facesse musica dal vivo.
Ben presto un locale specializzato in musica alternativa prese in considerazione la loro candidatura. I Rimozione Forzata sarebbero andati in scena.
Erano le ultime prove prima del concerto. Tra i ragazzi c’era molta tensione e si decideva la scaletta della serata, ogni singola frase, gesto, e si finì per parlare della presenza scenica.
“I capelli, però, scioglili”, gli aveva detto, con disinvoltura, lo sdentato batterista Ettore.
Ale non credeva che quella frase gli avrebbe potuto fare così male.
Si era sentito accettato fino a quel momento: perché poi quella frase del cazzo? Ale portava i capelli, di media lunghezza, legati in alto per mostrare la parte rasata e laterale sotto. Perché avrebbe dovuto scioglierli? In quanto materiale femminile del gruppo? Mercanzia da mostrare ed ostentare? Per salvarsi dal rischio che pensassero che fosse un ragazzo, come gli altri? Ma soprattutto…era per quello che avevano scelto lui e non gli altri?
Ettore era stato chiaramente un coglione, ma neanche lo sapeva. Lui aveva la sua bella cresta decolorata, e gli altri avevano i capelli lunghi raccolti in folti codini e nessuna intenzione di sciogliere i capelli per vederli fluttuare tra le corde del basso o della chitarra, o tra i tasti delle tastiere.
Ale non voleva assecondare le richieste sessiste del suo batterista, ma voleva comunque che il suo primo concerto fosse memorabile. Non voleva apparire come una sexy bambolona dark, ma voleva comunque avere presenza scenica in modo non dissimile rispetto ai suoi amici animali (da palco).

Fu in quel momento che gli venne in mente del parrucchiere per uomo che ogni giorno, per quattro anni, aveva visto passando per andare all’università. Era stato un barbiere per molto tempo, ma ora il vecchio proprietario aveva preso un ragazzo ad aiutarlo,  formato come parrucchiere per donna, e all’insegna scolorita “Barbiere“, si era aggiunto un posticcio tassellino di cartone, con una maldestra scritta “e da donna“.
Il barbiere, in questi anni, aveva spesso visto Ale passare. Era siciliano, attaccava bottone con chi gli stesse simpatico a pelle, e, quando Ale passava, diceva sempre “perché non vieni qui a farteli tagliare da me?
Ale ne era lusingato, ma era soddisfatto di essere barbiere di se stesso, fin quando non ebbe voglia di fare un ciuffo viola, o blu, come quello del suo invidiatissimo ed androgino bassista emo.
Era la prima volta che, passando per quella vetrina, vedeva la decalcomania sul vetro che indicava che venivano fatte anche colorazioni. Doveva essere proprio destino. Chissà quando sarebbe stato sopreso il suo “amico” barbiere nel vederlo varcare quella soglia.
Si immaginava già dentro con un giornale a parlare di calcio e formula uno, in attesa mentre vedeva fare le barbe gli anziani signori, e le creste colorate agli studentelli del primo anno, anche loro, come lui, liberi dagli sguardi censori dei genitori,a  cercare un po’ di libertà ed emancipazione.

Tanta fu la delusione quando, entrando, il barbiere non corse ad accoglierlo, ma fece un cenno al nuovo garzone, che non sapeva essere il nuovo addetto al pubblico femminile.
Il ragazzo era quello che gli sboccati punk del suo gruppo avrebbero chiamato una cula persa.
“Come ti chiami?”
“Ale”
“Alessandra o Alessia?”
“Sono Ale?”
“Devi fare la piega? Sistemare il taglio?”
“No, vorrei una ciocca blu, o viola, qui nel ciuffo, come quella del mio bassista”
Il ragazzo lo guardava perplesso e con la mano al mento: “Direi sicuramente viola, hai una foto di come li vorresti?
Si, certo” disse Ale prendendo il mano lo smartphone. Vi era la foto di Raffa, il bassista emo.
Il giovane parrucchiere fece uno sguardo schifato, e prese il suo di tablet, mostrando raffinate signore borghesi con tinte mesciate, lo shatoush, il degradè, il balayage e non so quale altra sciccherìa.
“Io però vorrei proprio i capelli come lui, – disse Ale facendosi coraggio – come il mio bassista”.
Cara, vedo cosa posso fare, tu siediti e fidati di me“.

Mentre Ale veniva impiastricciato con puzzolente decolorante, una signora burbera, con in testa una classica tintura, borbottava col parrucchiere:
Tu non mi fai mai i colori che voglio! tu pensi che io sia ignorante!
Il parrucchiere annuiva imbarazzato dall’ingombrante signora peperina
E comunque te lo meriti di essere maltrattato da noi donne! Si sa, noi donne quando vogliamo cambiare look è perché siamo insoddisfatte della nostra vita, e quindi ci sfoghiamo con te!
E poi, girandosi verso Ale
Signora, lei conferma? Che noi donne siamo cosi? Che siamo terribili?
Ale abbassava lo sguardo. Il parrucchiere andò nel retrobottega a prendere un tubetto mogano per la vecchia.
Lei sussurrò ad Ale “Non fidarti di quello là, fa sempre i tagli e colori che vuole lui! Io sono mesi che gli chiedo di farmeli biondi come la Clerici, ma lui dice che ho la pelle olivastra e me li continua a fare rossi!
Certo quelle parole non erano incoraggianti, né l’atteggiamento di ostentata disapprovazione che aveva avuto il parrucchiere alla vista dell’outfit richiesto da Ale…ma era tardi, il concerto era a breve, Ale aveva già chili di decolorante in testa.

E ora una colatina di tinta!” Disse giulivamente la checca pazza impiastricciando Ale con una tinta ancora più puzzolente.
Dopo il risciacquo, il sosia uscito male di Solange fece una piega tutta gonfia e cotonata, ma i capelli non erano nè viola nè blu, nè il colore partiva dalle punte, nè era limitato a poche ciocche, ma soprattutto era di un vezzoso rosa maiale.
Soddisfatta, caaaaara?
Ma non è viola!” disse timidamente Ale, mentre si guardava con impellente desiderio di nascondere quel colore infilando la testa dentro un secchio di fango.
A quel punto il parrucchiere eliminàò dalla sua voce ogni residuo di gentilezza che si rivolge al cliente pagante “Si che è viola“, e aggiunse, con voce risentita,”ma non le conosci le nuance?
Ma non è per niente come in foto! – continuò Ale insistendo – Potete rifarmelo del colore che ho scelto?
Quel colore non lo abbiamo, non ce lo chiede nessuna” disse stizzito il coiffeur.
Mentre Ale, sentendosi una pecora al macello, pagava il suo “Shampo, Piega, Taglio e Colore – Donna“, con un bel pezzo da cento euro (avere la vulva costa!), il parrucchiere borbottava col titolare barbiere, per giustificarsi sul quadretto a cui aveva appena assistito, dicendo
Ste provinciali, è venuta qua che sembrava un uomo, l’ho fatta rinascere, e si lamenta pure!

Ale uscì da li, prendendo vari semafori rossi col suo Scarabeo, per raggiungere in tempo il locale. I commenti dei colleghi musicisti furono pessimi, e dopo il concerto un ubriacone ci provò in modo imbarazzante, tanto da costringere Ale ad essere manesco. Erano bastate pochi tocchi di rosa in un disordinato caschetto per ravvivare i b0llenti spiriti di uno zoticone. Il compenso la mamma e le zie avevano visto le foto, su facebook, del concerto, e si erano entusiasmate per la fioritura della loro adorata rampolla femmina.

Pochi giorni dopo Ale dovette confrontarsi con lo specchio e fare i conti con quel makeover imposto con fare supponente da un effeminato hairstylist che aveva cercato di “correggerlo”. Forbici e pettine non servivano, stavolta, nè il pettinino regolatore della clipper. Il rosa non si era limitato a delle ciocche o alle punte, ma raggiungeva la radice e non schiariva nel tempo, nè era stato possibile coprirlo con colori naturali che invano Ale aveva cercato di buttarci sopra, spendendo gli ultimi soldi del vaglia postale arrivato dal sud. Se avessero fatto come aveva chiesto, colorando le punte, forse Ale avrebbe potuto salvare capre e cavoli in modo diverso.
Non rimaneva che tagliare tutto, striscia dopo striscia, non di certo con piacere, visto che l’ultima cosa che avrebbe voluto è denudarsi a tal punto, ma con un leggero sollievo, vedendo quelle ciocche rosa cadere a terra una dopo l’altra, e quel millimetro di castano spuntare dalla cute dando speranza di una lenta “guarigione” verso un’espressione estetica più consona.

Ale fece gli esami universitari rimanenti. Nessuno disse nulla, all’università nessuno si scompone per una testa rasata, ma poi i mesi passarono, e i capelli tornarono di una lunghezza tale da consentire la tanto agognata, sofferta ma desiderata invisibilità. Ale discusse la tesi quinquennale ed entrò, coi suoi pesanti anfibi neri, mondo del lavoro.
Pensava che quell’esperienza, di “teoria riparativa” parrucchieristica, sarebbe stata solo una parentesi sgradevole, ma che col tempo sarebbe riuscito a comunicare al mondo chi era.
Col tempo andò sempre peggio. Relazioni disastrose con ragazzi etero in cerca di altro, colloqui andati male che ignoravano la sua laurea a pieni voti, lavori mediocri, promozioni non date.
Del resto, ragazzi, non è un paese per genderqueer.


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Lei

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“Lo faresti lo stesso se fossi sotto un altro top manager?”
Dall’altro lato vi era un imbarazzato silenzio.
“Dove sbaglio? Sono troppo colloquiale con voi? Dovrei fare come gli altri? Che si fanno rispettare?”
Dall’altro lato un impassibile sguardo.
Chissà cosa pensava. Forse, che a dire queste cose mi spinge quell’insicurezza di vedermi, come immagine, meno maschio degli altri manager. E’ come se temessi che vedessero la mia debolezza, che non mi percepissero come un maschio Alfa, che possano prendersi gioco di me lavorando poco e male, parlando alle mie spalle.
Mi guardo allo specchio, in bagno, dopo la riunione.
Adesso porto qualche millimetro di barba. Fino a qualche anno fa, un impiegato con la barba sarebbe stato visto come trasandato, ma adesso pare che faccia addirittura chic: tutto frutto di una cultura di zecche e di hipster che non condivido, ma cosa potrebbero pensare se io adesso fossi l’unico a non avere la barba?
Mi sciacquo il viso, ma non devo rimanere troppo in bagno. Potrebbero pensare che sono una mammoletta, come le donnine che vanno ad incipriarsi il naso. Mentre mi sciacquo tiro leggermente indietro i capelli. Inizio a stempiarmi, leggermente, anche se probabilmente sono l’unico ad essersene già accorto. Ahimè, sta succedendo nonostante il quintali di Minoxidil che uso senza troppo farmi notare da mia moglie.
L’aria è pervasa da un forte odore muschiato. Avrò esagerato col dopobarba?
Vedo quelle del quinto piano ciarlare sottovoce quando passo davanti a loro. Credo che mi abbiano addirittura ribattezzato col nome del forte profumo speziato che uso.
Credo che qualcuna abbia pure cercato su internet e ne abbia regalata una boccetta al fidanzato, magari immaginando di essere con me, mentre fa l’amore con lui.
Adesso è ora di tornare in ufficio. Noi top manager non abbiamo di certo le pause centellinate da un tassametro, ma è anche vero che se i polsini si bagnano magari si rovinano i gemelli.
Torno in ufficio. Ci lavoro da tredici anni ma ancora non lo sento come un posto rassicurante e mio. Dietro di me una vetrinetta con la collezione di pipe e di sigari dal mondo, e le Mont Blanc col pennino d’oro. La scrivania è enorme, e quasi vi scompare sopra la foto del mio matrimonio e la foto coi miei figli. Nella foto del mio matrimonio indosso il frac che lei aveva scelto per me. Ho i capelli tirati indietro. Lei è un’esplosione di femminilità: sopracciglia ad ala di gabbiano, capelli fatti crescere apposta per le nozze, e poi tagliati, da rituale, durante il viaggio di nozze. La gonna è gonfia e vaporosa, i gioielli sono tutti coordinati, e le dànno luce al suo viso.
Nella foto coi bambini ho un’aria triste, assente. Non dedico loro abbastanza tempo e lo so.
Sistemo ancora alcune carte e poi vado via: devo sbrigare un po’ di commissioni prima di tornare a casa.
Passo alla grande Coin all’angolo. All’ingresso una signorina mi accoglie indicandomi il reparto da uomo. Mi sento in dovere di darle spiegazioni. E’ una sbarbina che si e no avrà la terza media: perché uno come me dovrebbe darle spiegazioni?
Mi dirigo nel reparto femminile per comprare un regalo immaginario per una donna immaginaria.
Stringo tra le mani, senza farmi notare, un reggiseno le cui toppe setose rosa antico scivolano tra i miei polpastrelli. Ho il terrore che una donna, una cliente del negozio, mi veda e pensi che io sia un pervertito.
Mi dirigo a casa senza comprare niente. Mia moglie è paranoica, e pensa sempre che io dedichi quel poco tempo tra famiglia e lavoro a un’altra donna. Non sa quanto, ironia della sorte, abbia ragione.
Entro in casa, lei è in bagno con una delle sue mille maschere anti-age. Ha proprio ragione Fulvio, il mio amico del calcetto, a dire che a noi uomini le donne piacerebbero anche se fossero tutte in tuta, eppure lei spende, spende metà del mio stipendio, a comprare creme anti-qualcosa che non ha. Se dicessi che il suo viso è setoso come quando ci conoscemmo, a dodici anni, non mi crederebbe.
Ricordo i primi baci con lei, alle scuole medie. Setosa era la sua pelle, e setosa era la mia. Ricordo che in quegli anni c’erano i cartoni animati delle guerriere Sailor, e una di loro, che nella vita diurna era un bel ragazzo, per difendere la terra si trasformava in ciò che realmente era: una ragazza, una guerriera. Nel cartone animato la crisalide guerriera aveva una relazione con la bella e femminile protagonista, si univano in un bacio, e in me si scatenavano ingenue e infantili fantasie quando baciavo quella che sarebbe diventata mia moglie. I cartoni animati dell’epoca, dell’inizio degli anni novanta, erano una continua ispirazione per persone come me. Ranma baciava Akane quando era trasformato in ragazza, e mentre i miei compagni guardavano i porno di Rocco Siffredi, le mie fantasie sessuali consistevano nell’immaginare Xena ed Olimpia, immaginare di essere la protettiva virago Xena che si prende cura della dolce Olimpia.
Dovetti arrivare alle superiori per capire realmente. Ricordo quel pomeriggio, al cineforum della scuola, in cui, a causa dell’indisponibilità del film programmato, proiettarono “Tutto su mia madre” di Almodovar. C’erano i viados di strada, sieropositivi e dediti al meretriciato. All’inizio del film si vedeva che, quando ancora erano uomini avevano delle mogli, e pensai che fossero solo errori di gioventù. Grande fu la sorpresa quando scoprii che anche dopo che erano diventate donne avevano continuato ad amare le donne, metterle incinte, e persino contagiare loro l’hiv.
Era tutto così squallido, ma per un attimo io non mi ero più sentito solo. Non ebbi il coraggio di intervenire nel dibattito dopo il film, nè di parlarne con lei.
Passarono molti anni, anni in cui, a parte l’emozione di quel momento, conobbi molte figure di uomini che, come me, si sentivano donna. C’era Platinette, c’erano le ragazze del Grande Fratello, c’era Efe Bal, ma io mi sentivo così lontano da loro.
Per anni decisi di custodire un segreto, un segreto che mi porto avanti da quando, da bambino, mia sorella maggiore si divertiva sadicamente a vestirmi da donna, mettendomi un suo reggiseno e due arance dentro al posto delle tette, mi truccava posticciamente coi suoi trucchi plasticosi, e poi iniziava la sfilata. Lei rideva di me ma io,  a sua insaputa, ricordo con tenerezza quelle esperienze. Ricordo che leggevo di nascosto i suoi Cioè per capire il mondo delle ragazze. In parte io volevo capire le ragazze, che mi iniziavano a piacere, in parte io avrei voluto essere una di quelle ragazze che scriveva alla rubrica della bellezza e chiedeva consigli su come depilarsi.
Di anni, però, ne erano passati tanti. Avevo conosciuto il corpo femminile, tramite quello di mia moglie. Ci siamo sposati vergini, per via delle pressioni dei suoi genitori, testimoni di Geova, che l’avevano indottrinata in tal senso, ma questo veto autoimposto nei riguardi del sesso penetrativo ci diede la possibilità di sperimentare, da giovanissimi, il petting e le coccole, tutti quei rapporti che, non coinvolgendo direttamente i genitali, non ponevano tra noi una grande asimmetria. Saremmo potuti essere due uomini, due donne, due figure androgine, due anime affini. Nei rapporti non sono mai stato bravo o esperto. Abbiamo imparato insieme. Quando la toccavo, quando toccavo il suo corpo giovane e vellutato, per un attimo immaginavo di fare l’amore allo specchio.
Solo così riuscivo a provare piacere: immaginando che fossimo due ragazze lesbiche. Lei non lo ha mai saputo o immaginato, o almeno, spero.
Adesso lei è nel suo bagno. Ne abbiamo due in casa. Il mio è spartano. Giusto uno spazzolino elettrico e un regolatore per barba. Il suo bagno, un regno a me precluso, è un paradiso. C’è la zona trucchi, ordinati per funzione e tonalità, la zona prodotti per capelli, la zona con le creme, il peeling, lo scrubs, l’igiene personale. Chiude a chiave la stanza per evitare che i bambini entrino e rompano le sue trousse di cristallo, ma una volta sono riuscito ad entrare, mentre lei era al Lyons Club con le amiche.
Ricordo che quella sera il mio volto era diventato dolce e gentile sotto le pennellate dei prodotti che allora così maldestramente usavo. Ricordo che mentre il mio volto veniva liberato dalle tracce di spigolosità e virilità, l’emozione divenne piacere, un piacere erotico, un’esplosione liberatoria.
Oggi ho una cassetta degli attrezzi, in garage, ma dentro ci sono i prodotti che compro per me, dicendo di comprarli per una ragazza immaginaria. La mia pelle è più scura della sua, avrei avuto comunque una mia trousse personale, anche se io e lei fossimo state complici, anche se ho imparato col tempo, su internet, che la tonalità deve essere sempre leggermente più chiara.
Spesso la mia unica possibilità per essere me sono i viaggi di lavoro. C’è sempre un giorno libero che ci dànno, per visitare città straniere, e io lo dedico per stare in queste lussuose camere, da solo, ed essere me stessa.
In lussuosi negozi e centri commerciali compro regali per mia moglie e per Lei. Li divido prima di fare i bagagli del ritorno. E’ quello il momento più triste per me, in cui la chiudo, mi chiudo, in una valigia per ritrovarmi chissà dove e quando.
Lacrime quando lo struccante mi porta via dal mio viso.
Spesso compro a mia moglie cose non dissimili da quelle che compro per me. Quando fantastico su di me al femminile non c’è mai, accanto a me, un uomo. Non vivo fantasie con un uomo accanto per far esaltare la mia femminilità. Accanto a me vi è sempre una donna, una donna femminile. E’ per questo che spesso compro a mia moglie gli stessi accessori che compro o che vorrei comprare per me stessa: vedendoli indossare in mia presenza è come veder vivere in lei una parte di me, quella parte che non può esprimersi.
Lei non sa, non sospetta. Del resto…come potrebbe? Non mi abbandono mai ad estetiche o comportamenti ambigui. Io devo essere maschio, e non so se lo devo a me o agli altri.
Nelle ultime settimane ho pensato di farmi un piccolo regalo. L’accenno di barba mi permette di far crescere un po’ i capelli, ma mia moglie dice, con voce serena ma impenetrabile, che come capelli lunghi, in questa coppia, bastano i suoi, e che sarebbe gelosa se i miei dovessero risultare più belli.
Quando eravamo giovani ascoltavo David Bowie e Marylin Manson, insieme ad un sacco di altre rockstar glam, in cui uomini super etero e machisti camminavano sui tacchi degli stivaletti da cow boy, portavano lunghe chiome cotonate e parlavano in falsetto. In quegli anni, con la scusa del glam, e nascondere i miei esperimenti di femminilità dietro alla mera imitazione di super maschi animali da palco. Avevo lunghi capelli neri, e lei ne era un pò invidiosa, ma le piacevano. Frequentavamo un locale a tema, dove lei mi accompagnava entusiasta. Spesso, prima delle serate in cui andavamo li a bere birra e vodka ed ascoltare musica dal vivo di gruppi più o meno mediocri, andavamo da me in mansarda, dove lei mi aiutava a prepararmi. Smalto nero, trucco agli occhi, e piastra ai capelli. A volte mi metteva anche il suo rossetto nero,  e io mi sentivo un po’ come quando mi sorella mi conciava a festa, con la differenza che stavolta ero con la donna che sarebbe stata la mia compagna di vita. Ricordo come quella piccola trasgressione, all’insaputa dei suoi genitori bigotti, ci eccitava moltissimo entrambi, e ricordo molti baci in cui le nostre labbra si incrociavano scambiandosi rossetto nero ed argentato,e finivamo a fare petting spinto,per poi fermarci bruscamente per non finire a far l’amore. Quel rapporto completo non lo voleva lei per non perdere prematuramente la sua “virtù”, ma non lo volevo neanche io. Avrebbe distrutto la mia fantasia di noi due amiche, complici ed amanti. Non so se ad eccitarci c’era il fascino del proibito, o se in quei momenti, in cui le nostre lunghe ciocche nere si confondevano, mentre lei mi baciava il mio petto piatto e senza peli, e mentre mi riempivo del suo profumo vanigliato, vivevo l’illusione di congiungermi con l’uguale in un’alchemica simbiosi.
Era bello che questa fantasia continuasse anche dopo, quando al locale, mentre ci baciavamo, ci scambiavano per due ragazze ubriache e sporciaccione.
Cosa è rimasto di quegli anni? Oggi siamo intrappolati in una cavalleria rusticana di ruoli scritti da altri, come se fossimo i burattini in uno spettacolo di un artista di strada, che si muovono, si, ma solo tramite movimenti rigidi e rigorosamente previsti.
Dal lavoro, spesso, eludendo il firewall e navigando in anonimo, cerco uomini come me su internet. Ho trovato una mailing list, anni fa. Non sono sicuro che ci siano uomini coi miei desideri e con le mie fantasie, ma mi rassicura che abbiano una moglie, e che il loro principale problema sia come dirlo a lei.
Mi sentirei molto a disagio in un forum di omosessuali. A dire il vero mi sento sempre molto a disagio quando vedo un omosessuale, o quando qualcuno può, per qualche ignoto motivo, pensare che io lo possa essere. Per questo ho sempre paura a relazionarmi in spazi virtuali che potrebbero essere pieni di persone che si dicono simili a me, ma sono in realtà omosessuali che fanno le femmine.
Quando trovai quella lista virtuale, a breve avrei visitato Napoli per lavoro. Avevo conosciuto Jennifer, una sorellina di quelle parti, e ci saremmo viste per un confronto, davanti ad un caffè.
Quella volta avevo deciso di non usare solo l’albergo fornito dall’azienda, e avevo quindi prenotato parallelamente un alberghetto da una stella, dove sarei andato a cambiarmi.
Cosa sarebbe successo quando i nostri sguardi si sarebbero specchiati l’una davanti all’altra? Ero andata a cambiarmi, ma la matita mi tremava nella mano mentre tracciavo una linea sopra l’occhio per valorizzare il mio sguardo.
Ci saremmo dovute vedere al bar sotto l’albergo, ma quando uscii, al posto di sentirmi liberata, mi sentii fortemente a disagio. Bastarono pochi metri per uscire dall’albergo per avere addosso gli occhi basiti, perplessi o goderecci degli uomini. Quegli sguardi, fino a poco tempo fa, erano stati i miei. Sguardi avidi, prevaricanti, sguardi di chi si sente soggetto e non oggetto di corteggiamento. Accelerai il passo fino ad arrivare al bar. Lei era li. Ordinai il caffè con voce bassa. La mia voce non mi aveva mai dato disagio fino a quel momento. Jennifer parlava invece in falsetto ed era abbastanza a suo agio.
Mi raccontò di sua moglie, di come ha scoperto, e di come stanno dolorosamente divorziando, e mi sembrava di essere a tavola con una vecchia amica per caso ritrovata.
Gli sguardi su di noi,però, si fecero più insistenti, e le chiesi di andare via. Volle venire con me in albergo, ma non scorderò mai cosa successe.
Jennifer iniziò prima a guardare e toccare tutti gli oggetti del mio bagno, oggetti e cosmetica pregiata, che probabilmente mi invidiava,  poi iniziò a lusingarmi,a  dirmi quanto ero femminile io e quanto lo erano gli accessori che avevo addosso. La sua mano scorreva sulla mia coscia, accarezzava il collant, ma la cosa mi generava imbarazzo. Lei invece era molto eccitata, e presto l’altra mano raggiunse le sue parti intime, facendomi capire che avrebbe voluto farlo anche a me.
La congedai con grande imbarazzo, e quella notte piansi. Ero di nuovo sola.
Mi chiusi molto, lasciai la mailing list, anche se probabilmente c’erano tante persone come me, ma io non avevo le energie per aprirmi a loro, non di nuovo.
Qualche anno dopo una delle poche sorelline con cui ero rimasto in contatto, un collega libero professionista che si occupava di cantieristica, mi indicò un gruppo di auto mutuo aiuto per persone come noi. Si teneva una settimana si e una no, quindi avrei dovuto inventare due riunioni di lavoro serali per tenere a bada lei. Ci pensai molto, ma la voglia di rimettermi in discussione, stavolta in un luogo in cui vi erano più persone e minor rischio equivoci, era tanta.
Andai al maschile, con la mia giacca, la mia cravatta, il mio profumo muschiato: erano il mio scudo. Scoprii che più che per “persone come noi”, era il tutto organizzato da un’associazione di omosessuali e trans, e la cosa, che scoprii solo quendo ero già lì,  mi causò, inizialmente, molto disagio.
Con sorpresa, però, scoprii che chi in quell’associazione stava parlando di se, non era così lontano da me.
Oltre a persone come me, uomini che vogliono fare le donne, vi erano donne che volevano essere uomini. E alcune di loro avevano mariti, mariti a cui non sapevano come dire di non essere donne eterosessuali ma uomini gay. Le loro storie, raccontate a cuore aperto, provocavano a me un amaro sorriso. L’emozione fu per me talmente forte e sconvolgente che decisi di non andare più al gruppo di auto-aiuto.
La mia amica invece, lei l’ho rivista qualche mese fa. Mi è venuta incontro mentre uscivo da un pranzo di lavoro, e io ci ho messo un po’ a capire chi era. Non porta più parrucche ma ha una folta chioma sua. Ha divorziato dalla moglie e sta con una donna conosciuta nell’ambiente del bdsm, che prima di lei stava con una donna nata tale. Mi ha detto che non si occupa più di cantieristica ma ha aperto un locale con la nuova compagna, ma che un po’ il suo lavoro le manca.
Ho dovuto fare in fretta nello scambiare due chiacchiere. Avevo paura che mi vedessero con lei, che scoprissero chi sono.
Ogni giorno, quando vivo la mia routine, facendo il bullo coi miei sottoposti, quando lascio tagliare via, al barbiere dell’angolo, l’accenno di riccioli che mi erano costati mesi di attesa, perché mia moglie vuole essere l’unica detentrice della femminilità in casa, quando aspetto con ansia le trasferte di lavoro, quando compro furtivamente una gonna non sapendo quando e se la metterò mai, penso a ciò che, ormai, so di essere, e che non potrò mai realmente essere davvero.

 


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Il confine dell’accettabilità T

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Il caro amico Ethan ha portato alla mia attenzione una polemica nata nelle pagine dei soliti noti attivisti gay (in senso stretto: uomini omosessuali), atti a cercare, su siti sconosciuti americani, personaggi transgender “falsi” o “non accettabili” , al fine di screditare chi è transgender in percorsi non medicalizzati.

Il punto della situazione è polemizzare sul fatto che, se sparisce un vincolo fisico, l’obbligo di una trasformazione fisica definitiva, chiunque puo’ potenzialmente dirsi transgender (come del resto già oggi chiunque puo’ definirsi gay o lesbica, senza incappare nell’accusa di opportunismo, provocazione, soprattutto senza che quest’accusa parta dalla comunità LGBT stessa, e soprattutto senza che debba dimostrarlo, o debba garantire riti di passaggio tribali per essere considerato/a tale).

La ricerca verte verso persone che non solo non prendono ormoni, ma non hanno effettuato un cambio di look verso lo stereotipo del genere a cui appartengono a dispetto del sesso, quindi, venuto meno l’ormone, e venuto meno anche il look, loro obiettano che la persona in questione sia veramente trans, sostengono che si spacci per trans per dei vantaggi sociali (infondo tutti sanno che dichiararsi trans in una qualsiasi parte del mondo oggi porta innumerevoli vantaggi sociali…), o per deridere e beffeggiare i “veri” trans (ovviamente coloro che loro hanno protocollato come detentori delle caratteristiche che li qualifica come trans DOP bollino blu banana chiquita).

Innumerevoli sono i casi che questi “gay all’antica” riescono a trovare su siti americani, spesso di orientamento transfobico (la notizia a me segnalata proveniva addirittura da https://twanzphobic.wordpress.com , un sito che già dal nome è tutto un programma), delle persone che si definiscono donne trans pur senza bisogno di ricorrere a gonne, parrucche e tacchi dodici, ma mentre una donna biologica puo’ rivendicare il suo essere donna anche con giacca, cravatta, capelli rasati, ovviamente se dovesse farlo una persona di identità di genere femminile, ma cromosomi xy, essa verrebbe catalogata dalla nostra simpatica commissione di attivisti Gay vecchio stampo come una “falsa persona trans. Le si negherebbe, insomma, di essere un vero tonno pinne gialle.

Questi attivisti gay binari cercano inoltre la simpatia delle persone transessuali binarie, quelle “nate nel corpo sbagliato”, che passano dal femminile al maschile o viceversa in modo netto, chiarendo che questi personaggi antibinari e anticonformisti “danneggiano” le “vere” persone trans, perchè “le usano” (???) si “prendono beffa di loro” (???), sono in realtà dei fondamentalisti cristiani contro i “veri” trans (…).

Inoltre se uno di noi accusasse di transfobia questa “commissione gay alla ricerca del vero transgenderismo”, loro direbbero indignati e basiti di non esserlo, perchè per loro la transfobia è un atteggiamento di ostilità al mondo trans in toto, mentre ci tengono a precisare che loro sono tanto tanto tanto solidali a Luana, donna nata nel corpo sbagliato, che “diventa” donna e si sposa con matrimonio etero col suo “eterissimo” Pedro.
Non riescono a capire, insomma, che transfobia è anche schifare le persone transomosessuali, le persone trans non medicalizzate, e le persone trans portatrici di identità di genere non conformi e non binarie, ed è anche trattare con pietismo e finta solidarietà quelle persone trans canoniche che loro hanno deciso, dall’alto del loro magistero, di considerare accettabili.

Non mi sto chiedendo se la donna trans che non vuole fare la laser al viso, che esce in giacca e cravatta, e che è “pelata” e non sente l’esigenza di coprire il tutto con una parrucca, sia “realmente” trans. Non mi sto chiedendo questo perché non ce n’è bisogno. Non mi interessa “verificare” che la sua identità di genere sia femminile, perchè non ve n’è alcuno bisogno, e la dinamica che porta a definire uno spartiacque tra accettabile e non accettabile, tra “vero” e “falso” trans, all’interno della nostra comununità è solo altamente pericolosa, e non mi spaventa tanto la cricca di quei quattro vecchi gay che propongono questi temi, ma di tutta la zona grigia e disinformata di attivisti LGBT che, senza riflettere sulle implicazioni, esalta queste posizioni, mette like a status transfobici, matura dentro di se un odio per cio’ che non è conforme ai suoi parametri, quando lui stesso o stessa non è conforme ai parametri di coloro che combatte.


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Se l’amico del mio amico è mio nemico?

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Ogni mese mi appresto a pulire la mia lista amici facebook rimuovendo persone con cui non interagisco.

Ripenso alla mia lista amici del 2009, di quando muovevo i miei primi passi nella comunità LGBT e di conseguenza nell’attivismo.

Ad essere apparsi, negli anni, o in alcuni casi, riapparsi (non le persone ma le tipologie di persone), sono metallari, musicisti, buddhisti, radicali, liberali, massoni, praticanti bdsm, collezionisti di pipe, laici ed atei, attori e doppiatori, e tutta una serie di persone eterosessuali che condividono come una passione o un’area di studio, che conoscono la mia situazione (sesso F, genere maschile) e non si pongono il problema di “accettarla“, proprio perché non c’è nulla da accettare, e non sono abituati all’idea di essere loro a “decidere” se la mia condizione personale è legittima.
Se a loro mi presento come uomo, per loro sono uomo, e questa cosa non distrugge per loro anni di certezze e teorizzazioni.

Cio’ non accade invece nel mondo dell’attivismo, o almeno in parte di esso, nello zoccolo duro di teorici, di quelli che inventano percentuali (esempio: il 99% dei bisessuali è gay), che si atteggiano ad antropologi senza averne titoli, quelli che non sono riusciti a completare percorsi di studi e si nascondono dietro il “ma io ne so di più degli studiosi in materia” per imporre visioni vetuste, superate anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità”, legate al proprio vissuto e agli incontri casuali fatti da loro.

Recentemente ho “deciso” che la mia lista amici è preziosa, e non voglio rischiare di avere in lista persone che magari mi hanno aggiunto per via degli amici comuni lgbt, ma che poi mettono mi piace a chi considera illegittima la condizione di transgender non medicalizzato.

Qui non si parla di ideologie diverse. Posso essere pro Israele e dialogare con chi è pro Palestina e viceversa, o essere milanista e dialogare con gli juventini, essere di destra e dialogare con chi è di sinistra, perché ci si può confrontare in modo sereno con chi diffonde e sostiene idee, ideologie e teorie anche diverse dalle proprie, ma in questo caso non si tratta di contestare un’idea o una teoria, ma di seminare odio, intolleranza e disinformazione verso chi si trova in una determinata condizione personale.

Un tempo i cristiani fanatici, integralisti e fondamentalisti, attaccavano i gay e le lesbiche. Qualcuno fece notare loro che non era carino accusare qualcuno per una condizione personale e indipendente dalla sua volontà (essere nero, ebreo, o in questo caso gay), ed è in quel momento che le menti più geniali del mondo reazionario hanno trasformato il gay in un omosessualista, e la sua condizione personale è diventata un’ideologia, una teoria, ovvero quella gender.
E se è quindi di cattivo gusto attaccare qualcuno per una condizione personale (il gay, la lesbica) non è affatto di cattivo gusto attaccare qualcuno che diffonde un’ideologia atta a corrompere i giovani, ad “omosessualizzarli“…

Con un parallelismo inquietante ed evidente, viene commesso, dai gay e dalle lesbiche anziane, lo stesso comportamento verso i portatori di identità e di orientamenti meno conosciuti o meno frequenti: i bisessuali, i pansessuali, i transgender non medicalizzati, le translesbiche, gli ftm gay, etc etc.
Queste persone spesso non hanno mai aperto un libro di teoria queer, nè vi sono interessati, anche perchè spesso, se attivisti, si sono formati con la letteratura relativa al loro retroterra politico (i B hanno studiato gli autori e i pensatori bisessuali, i T hanno studiato la letteratura transgender), mentre la teoria queer spesso interessa più che altro a chi è gay o lesbica (gli esponenti della teoria queer in italia sono filosofi gay e lesbiche, e non transgender e bisessuali).

Ad ogni modo, non mi interessa chi sostiene e riempie di like chi, nascondendosi dietro l’accusa di una teoria, di una ideologia, colpisce persone bisessuali, pansessuali, e transgender non canoniche, seminando odio, diffidenza, allarmando gay e lesbiche e transessuali verso coloro che rappresenterebbero addirittura un “pericolo” per loro.

Se metti mi piace a queste idee, non puoi essere mio amico. Potrai dirmi che segui le persone che propongono queste idee perchè “infondo sono degli attivisti capaci” e “che tanto hanno fatto nei decenni per gay e lesbiche“, e che “tuttosommato la loro bifobia e transfobia risultano secondari rispetto a tutto il bene che hanno fatto ai gay e alle lesbiche“. Ma stai dicendo questo semplicemente perché non sei nè T nè B. Probabilmente, se non fossi ebreo, o nero, riuscirei ad apprezzare un grande storico “che però è razzista” o “che però è antisemita“, perché il non sentire colpita la mia personale condizione mi aiuterebbe a passarci sopra, facendo un torto ad ebrei o neri. Quindi, non parlerei di maggiore lucidità od oggettività nel saper apprezzare un o una intellettuale che “ha dato tanto” ma “che però è bifobo e transfobo”, ma semplicemente di strafottenza.

Non ho bisogno di inseguire le persone, nè ho particolari vincoli sull’uso dei miei spazi virtuali privati. Non mi interessano veteroattivisti, bifobi e transfobi. Il mondo è abbastanza grande e penso che chi vuole mettere dei like a concetti che seminano l’odio verso la T e la B puo’ fluttuare aldilà della mia lista amici, esattamente come coloro che mettono like ad Adinolfi e a Gasparri.

Consideratemi pure “paranoico“, ma a casa mia invito chi voglio:)

 

 

 


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Ladri di…etichette (al limite siete transgender…)

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da: Ladri di Biciclette

In questi giorni ho osservato alcuni, giovani e meno giovani, ragazzi transgender del web, Andrew Cacciatore ed Ethan Bonali, essere violentemente presi di mira da persone trans medicalizzate, i quali li attaccavano semplicemente per il loro fare informazione sui percorsi non medicalizzati.

Non c’era arroganza, senso di superiorità, non c’è biasimo dei percorsi altrui. Sia Andrew che Ethan portavano della documentazione, a volte anche ripresa da questo blog, di persone transgender non medicalizzate che avevano trovato un equilibrio senza la medicalizzazione e che erano socializzate secondo genere d’elezione nella loro quotidianità.

Venivano anche usati avatar e copertine del diario, su facebook, che dichiaravano che esistono trangender non medicalizzati e che non è la medicalizzazione (eventuale) a rendere transgender, ma la propria identità di genere, che va rispettata.

La presenza di questi due giovani (e meno giovani) attivisti, non legati a ruoli istituzionali, e quindi liberi di esprimersi senza tener conto della permalosità e dell’analfabetismo funzionale altrui, ha causato un violento rigurgito di intolleranza.

Diverse persone trans medicalizzate hanno iniziato a giudicare la loro vita, partendo dal fatto che “si, possono dire di essere felici, ma poi quando entrano dal panettiere sono donne”, con una certa cattiveria e rivendicazione di superiorità per il loro miglior “passing“.
Delegittimano la richiesta di rispetto del proprio genere perchè “se non passi non devi aspettarti niente ed è inutile che fai vittismo”.

Oppure ho letto di forzature sul fatto che addirittura il ragazzo T non medicalizzato “amerebbe” il suo corpo e addirittura il ciclo mestruale (che onestamente non amano neanche le donne biologiche cisgender) e andrebbe in giro con minigonne (del resto anche loro, il giorno prima di iniziare gli ormoni, immagino andassero in giro con minigonne…).

Un altro pretesto per screditare le persone transgender non medicalizzate sarebbe quello che “sono velate, attivisti da testiera, non hanno nome e faccia, appena spengono il pc tornano a vivere come da sesso biologico“. Questo pregiudizio cancella non solo le tante persone transgender non medicalizzate (compresi me, Ethan ed Andrew) che su internet usano i loro volti e i loro veri cognomi, ma anche che non prendere ormoni non significa essere velati e non vivere socialmente il proprio genere d’elezione, come fanno già tanti non medicalizzati, sia attivisti, sia non attivisti. Inoltre non si capisce perché dal non medicalizzato si aspettino il “sacrificio” obbligatorio dell’attivismo oppure “nome cognome e faccia” oppure di essere referenziati su google, quando loro stessi, referenziati dal prendere ormoni, possono permettersi cognomi finti, avatar fittizi, e di non avere l’onere di fare attivismo.
Altro pretesto è la reversibilità. La società “non deve dare credito ai non medicalizzati“, perché se lo facesse “poi questi potrebbero tornare indietro e screditare i veri trans!“, come se a chi si dichiara gay o lesbica si chiedesse un giuramento a vita per evitare che poi “si torni indietro“.
E poi, ovviamente, il fatto che sicuramente chi non prende ormoni lo fa “per paura o perché, diversamente da noi, non ha le palle, con statistiche inventate al momento (tipo: nel 99% dei casi), come se avessero lanciato un sondaggio con campione affidabile..
Inoltre viene confuso il “non voler prender ormoni” con l’essere “contro, come se si volesse spingere gli altri a non prenderli, oppure screditare il percorso di chi li prende. E’ come se un bisessuale che ne è fiero, in questo modo screditasse i gay, o un mulatto screditasse i neri.
Spesso appare anche la precisazione “comunque io nonostante loro sono soddisfatto del mio percorso e lo rifarei”. Non capisco il senso di questa precisazione: perché l’esistenza dei non medicalizzati dovrebbe insinuare dubbi in chi è nel percorso canonico?. L’esistenza dei bisessuali rischia di scatenare curiosità nei gay e negli etero?

Altro pretesto è che, secondo loro, le persone transgender non medicalizzate, si autonominerebbero “transessuali, quando, rileggendo tutto il materiale proposto dai due attivisti sopracitati, non ho mai visto apparire la parola “transessuale” e l’attivismo mondiale va verso la sua abolizione e verso l’uso della parola, che il movimento ha coniato e scelto, transgender, che include tutte le persone portatrici di una diversità di genere (gender not conforming).
A quel punto alcune dicevano, con disprezzo per la parola transgender, al massimo sono transgender” o “al limite sono transgender“, come fosse un contentino che loro davano a questi “nè carne nè pesce” o “finti trans”, ma un contentino che stavano danto quasi controvoglia, tanto che spesso veniva aggiunto “vorrei vedere voi se non foste incazzati se qualcuno vi rubasse le etichette. Poi vi era sempre la precisazione chetrans” sarebbe abbreviativo di transessuale e che quindi non puo’ essere usato dai non medicalizzati, e che addirittura ftm ed mtf indicherebbero direzioni percorse in senso medicalizzato, e che quindi anche queste non possono essere usate dai non medicalizzati.
Anche se gli intellettuali transgender hanno deprecato “mtf” ed “ftm anche nel caso di persone medicalizzate, perchè indicano percorsi binari in cui si “diventa” qualcosa, quando in realtà il sesso genetico neanche cambia, queste parole potrebbero essere di semplice comprensione e di facile utilizzo, per capire, senza dover spiegare in modo morboso, il sesso di nascita e il genere verso quale la persona sta andando. Ma anche queste parole dovrebbero essere rigidamente di chi sta facendo la transizione medicalizzata, e di chi rigidamente spolvera una vecchia parola, poco usata all’estero: transessuale, per mettere una distanza verso chi non sta seguendo un canone di transizione “standard che i cisgender (non transgender) hanno deciso con una loro legge, e che parte della comunità trans ha deciso essere il percorso “normale” per “meritare di essere transgender“.
Vi è di base un’ignoranza anche sui termini: chi è stato lontano dall’attivismo T e dalla letteratura T è convinto che transgender sia un termine che riguarda chi ha un’identità di genere a metà tra M ed F (genderqueer) e che invece transessuale è il termine (migliore e più nobile) per definire le persone nel percorso canonico. Se qualcuno dice il contrario, ovviamente è lui l’ignorante…

Nel frattempo le persone transgender non medicalizzate, per fuggire da accuse e da esclusioni, si sono rifugiate nelle definizioni della teoria queer: genderqueer, genderfluid, a volte anche senza esserlo (a volte si tratta di persone con identià di genere definita completamente come maschile o femminile), ma perché usandole continuano ad essere sì disprezzate dai trans canonici (che continuano a dire che queste persone dovrebbero sparire perchè creano confusione), ma almeno non sono più “ladri di etichette“.

Questa polemica, che ha visto coinvolti Andrew ed Ethan (e persino io, che, visto come “il boss dei non medicalizzati” venivo visto come il mandante della disinformazione antibinaria e loro i miei poveri sicari soggiogati…), ha visto anche molta solidarietà da parte di donne transgender che non sono medicalizzate. Di alcune nessuno sapeva che non prendessero ormoni, o che non li prendessero più, ma l’attacco è sempre maggiormente rivolto agli uomini T, sui quali appare evidente la presenza di medicalizzazione ormonale. Queste donne T non medicalizzate, di cui non faccio nomi, ma che sicuramente sarebbero contente se li facessi (non si vergognano di non prendere ormoni), sono lasciate in pace perché non vi è una grande differenza estetica tra loro e le medicalizzate, anzi addirittura a volte passano di più.

Allora qual è il problema? Disturba che alcune persone transgender non “pàssino” ? e quindi risultino “non accettabili” agli occhi della società binaria? In questo modo loro “lederebbero la reputazione” di chi ha un aspetto che potrebbe permettere di integrarsi meglio nella società binaria ed eteronormata?

Se il passing non esistesse, non fosse possibile con ormoni e chirurgia, tutte le persone gender not conforming sarebbero visibili come tali, e la popolazione umana dovrebbe abituarsi all’idea che esistono donne XY e uomini XX.

Non so come la presenza di persone che, pur non “passando”, chiedono il rispetto della loro identità di genere, possa “danneggiare” chi invece ha un aspetto che è sicuramente coerente con la propria immagine di se, ma è anche coerente con ciò che la società vuole da un uomo e da una donna.

So già che critiche arriveranno, a causa del  “vigente” analfabetismo funzionale. Le ferite interne dei lettori fragili faranno si che questo mio post sia interpretato come “Nathan fa disinformazione, dicendo che i trans medicalizzati transizionano solo per la società”. Io non ho mai detto questo, ma penso che le persone che hanno transizionato per se stesse e per raggiungere l’immagine di se, sono poi quelle che non odiano i non medicalizzati, non li vedono come una minaccia, non si sentono “lesi” dalla loro esistenza e non vedono messo in dubbio il proprio percorso.

Chi invece si sente leso dall’esistenza di quelli che “al massimo sono transgender“, dovrebbe interrogarsi del cosa tutto ciò solleva in se stesso/a.

 

 

 

 


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Dimostrazione dell’esistenza di un attivista parte 1

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Lo scopo di un’educazione liberale è quello di trasmettere il senso del valore delle cose che non fanno parte delle forme di dominio, contribuire a creare dei cittadini equilibrati di una comunità libera, e attraverso la combinazione di questa appartenenza alla comunità con la creatività individuale mettere gli uomini in condizione di conferire alla vita umana quello splendore che, come un numero limitato di persone hanno dimostrato, la vita può raggiungere”. (B. Russel)

 

Ho peccato. Confesso che ho peccato nel farmi trascinare nel mondo dei frammenti, dei pettegolezzi, delle malignità. Sono stato ingenuo.                                       Però colgo questa divertente sfida: la dimostrazione della mia esistenza come attivista (quella fisica e indipendente dai miei compagni di attivismo sembra, almeno per alcuni, non essere più in discussione).
Fig. 1 incredulità san tommaso

Attivismo

Essere attivi significa dare espressione alle proprie facoltà e capacità, alla molteplicità di doti che ogni essere umano possiede. […] L’attività consiste in un comportamento socialmente riconosciuto e volto a uno scopo, che si manifesta in corrispettive trasformazioni socialmente utili. (E. Fromm)

Se ci sono doti che possiedo sono quelle del pensiero e dell’analisi. E se c’è un’attività che posso fare (compatibilmente alla mia situazione attuale) è quella di documentarmi, capire e informare.

L’informazione corretta:

  1. Cambia lo stato delle persone, le fa uscire dall’isolamento, rende loro possibile l’azione.
  2. Può eliminare pregiudizi che creano danno alle persone.
  3. Permette di scegliere veramente ciò che è meglio per se stessi.

Questa mia principale (ma non unica) attività ha causato reazioni scomposte in un piccolo gruppo di persone. Non decet. Non dovevo compiere l’indecenza di voler mostrare le cose come sono. Così, non potendo attaccare le idee, hanno attaccato la persona. E la mia risposta sarà non sulle persone ma sulle idee.                      Suddividerò le mie osservazioni in tre parti: ideologiche/teoriche, politiche e morali. Se queste mie osservazioni avranno effetto, allora sarà dimostrato che esisto in quanto attivista. Se avranno un buon effetto, allora sarà dimostrato che sono un buon attivista.

Osservazioni ideologiche/teoriche

Le basi su cui poi si costruirà tutto il pensiero e l’azione, non solo come attivisti, ma come persone che si riconoscono in un genere e in una comunità, influiscono sulla scelta del lessico, sul modo di esprimersi e formulare idee, proposte e soluzioni, finanche a influire sull’immaginare sé stessi e il proprio futuro. Sulle premesse che si accettano si baserà l’azione politica e la possibilità di fare rivendicazioni e con queste si influisce, se non si sceglie direttamente, il futuro di chi viene dopo di noi e il nostro.

Arrivo quindi a porre l’attenzione sulla prima importante osservazione:             si è scelto, per motivi contingenti o per mancanza di lungimiranza, di accettare la logica inclusione/esclusione dalla società. Fino al DSMIV abbiamo accettato la narrativa di chi ci voleva “fuori norma”, non pensando che la norma è una convenzione e che può essere discussa.

La società è la sintesi di una norma” è la frase che mi sono sentito dire da certi attivisti per confutare l’esistenza e la legittimità di categorie di persone nonconforming. Questa frase riporta al concetto, per fortuna superato, di malattia mentale. Malato è tutto ciò che non risponde o non è organico alla società, alla maggioranza, e pone le persone transgender e nonconforming sotto il perenne ricatto della possibilità di “essere riparate” (questa è ancora una grande paura di alcuni attivisti storici gay). E’ l’argomento utilizzato dai ProVita, Manif Pour Tous, Family day, intellettuali sul libro paga del Vaticano. E’ sempre stato retaggio di una mentalità conservatrice e autoritaria che ha le sue radici culturali tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 e che tanto danno ha fatto.

Il DSMV ha, per fortuna, ridefinito i termini di malattia mentale anche alla luce di molteplici studi i quali dimostrano come, in culture non normalizzate che accettano soggetti non conformi, questi non soffrano di nessun disturbo. Questo significa che vi è un grande peso dovuto alla cultura, costumi e mentalità di una società. Questo significa che alcuni tipi di disagio, interpretati come disturbi, possono variare in una scala che dipende dal “differenziale” culturale.

E’ per questo che si è passati a parlare di disforia ,e non più di DIG, e che vi è una scala di disforia (http://dare.ubvu.vu.nl/bitstream/handle/1871/40250/?sequence=8) e diversi tipi di disforia. 

 

Figura 2 grafico utrecht

Cosa comporta quindi l’accettazione della logica imposta da vaticanisti e gruppi omofobi e transfobici?

In prima istanza costringe a giustificare la propria natura mediante argomenti pseudo-oggettivi o oggettivi ma utilizzati in maniera strumentale.

La prima costruzione pseudo-logica è l’equivalenza transgender=disforia=transizione.

Esaminiamo i vari fattori:

Transgender indica un’identità di genere, quindi una percezione di sé complessa che coinvolge il modo di essere, di percepire il mondo e di rapportarsi agli altri. Ho osservato come, cambiando semplicemente il modo di parlare di sé (mediante i pronomi adeguati al genere e la scelta di un nome) le persone cambino atteggiamento, è come se si animassero, i loro gesti diventano propri. Questi sono i primi segni che si é trovata la propria identità.

Transgender è una definizione ombrello che ospita una parte dello spettro di variazione di genere che coinvolge le persone il cui genere non corrisponde al sesso biologico.

Gli stessi studi che hanno portato a ridefinire il concetto di malattia mentale mettono in evidenza che vi sono culture nelle quali le persone transgender non soffrono di disforia o ne soffrono minimamente (What can the Samoan “Fa’afafine” teach us about the Western concept of gender identity disorder in childhood?). Questo perché la cultura e gli ambienti in cui si trovano li socializzano per quello che sono.

Da qui cade il concetto di condizione necessaria e sufficiente di sperimentare disforia per avere un’identità transgender.

Anzi, possiamo dire che la disforia non fa parte dell’identità transgender ma può essere una conseguenza dovuta alla cultura cui si appartiene

Non solo, occorre puntualizzare che l’identità è la base e che la disforia, e un eventuale transizione medica e chirurgica, possono essere una conseguenza e non una legittimazione. Invertire l’ordine di queste categorie è legittimare una logica di violenza che vuole che sia l’esterno a definire l’individuo mediante prove  dolorose e, a volte, inutili.

Le persone T* che impongono questo modo di pensare esercitano un comportamento violento e discriminatorio dovuto al timore che un concetto plurale e complesso dell’identità di genere transgender ponga l’attenzione sul fatto che l’intensità della disforia dipenda dal cambiamento (naturale e continuo) dei costumi e della cultura di una società e non da una malattia immutabile e che questo avvantaggi le argomentazioni dei gruppi intolleranti nel nostro paese.

Sostanzialmente, accettando la narrativa della parte “nemica”, si è in uno stato ricattabile con l’argomentazione del “capriccio” o della scelta.

La colpa degli attivisti che accettano e promuovono questa mentalità è di lasciare così a fattori esterni la determinazione di chi sono e ciò succede solo per le persone lgbtqia+ e non per chi aderisce al modello eterosessuale. Quindi, per alcuni esseri umani l’identità di genere è un dato di fatto mentre altri devono dimostrarla.

Tutto questo non significa affatto che non esistano persone che soffrono di disforia a livelli importanti e debilitanti e che abbiano diritto all’accesso alle terapie ma significa che non vi è un unico modello di transizione, un unico modo di esprimersi, un’unica narrativa.

Disforia

Dal DSMV la disforia di genere è una condizione persistente per la quale un individuo percepisce una marcata differenza tra la percezione/espressione di sé e la percezione che la società ha di lui/lei/loro. Questa situazione crea effetti invalidanti quali disagio, ansia, stress e si ripercuote sulla sfera sociale e lavorativa della persona. Il manuale continua affermando che la disforia può essere vissuta in varie maniere, incluso il forte desiderio di essere socializzati come il genere opposto, di essere liberi da alcune caratteristiche di un genere, o la forte convinzione di sentire e reagire come il sesso opposto.

  1. Ricordiamo che il DSM è un manuale di diagnosi e non indica terapie che vanno decise a seconda dei casi dopo un attento esame e non meccanicamente. E’ inoltre da far notare che il National Istitute of Mental Care sta prendendo le distanze dall’uso del DSM.
  2. Il DSM non afferma in nessun caso l’equazione transgender=disforia ma afferma solamente che può esserci disforia di genere.              Inoltre occorre porre la questione della dipendenza della disforia di genere (richiamando la sua definizione) dalla struttura della società e dall’intorno sociale dell’individuo. Persone con identità transgender possono sperimentare diversi tipi di disforia (fisica, sociale) a diversi gradi. Facciamo un esempio molto stereotipato: se cresco in un ambiente molto binario in cui i ruoli e le espressioni di genere sono rigidissime è chiaro che soffrirò di più. Non sono da escludere neppure i fattori dell’età e della fragilità strutturale della personalità degli individui. Ho notato che persone che iniziano il percorso in età più matura hanno una maggiore serenità. Questo può dipendere dal fattore di attività sessuale (il periodo in cui il corpo è più attivo, probabilmente, rende la differenza percepita maggiore) e dal rafforzamento della personalità che avviene negli anni. Il DSMV e gli studi svolti in proposito sembrano confermare questa ipotesi trattando in maniera differente i bambini e gli adolescenti transgender.
  3. Il DSM non afferma da nessuna parte che se si ha un’identità di genere transgender è necessario sottoporsi a trattamenti ormonali e/o chirurgici.     Ma afferma solamente che tali trattamenti rimuovono o diminuiscono, con buona probabilità, situazioni di disagio.

Date queste premesse viene a cadere l’equivalenza costruita ad arte transgender=disforia=transizione.                                                                   Decade quindi l’affermazione, già logicamente scorretta, per cui l’identità deve essere confermata dall’esterno e, in maniera specifica, dal provare disforia.

Abbiamo quindi usato argomenti logici per far cadere argomentazioni basate solo su impressioni e paure personali.

Purtroppo queste argomentazioni assolutamente illogiche, come per la teoria del Gender e la distorsione grossier operata sugli studi Queer, portano a conseguenze molto pesanti e vanno ad influire sulla libera scelta e sulla qualità di vita di molte persone.

  1. Una conseguenza è la creazione e imposizione di un modello unico di transgender, spesso identificato con la persona transessuale, che vuole la persona con questa identità di genere obbligata a dimostrare la sua autenticità adottando comportamenti stereotipati. Non solo, una delle conseguenze più dannose, per il presente e per il futuro, é continuare a fornire lo stesso dato ai professionisti, ovvero a confermare una visione stereotipata ed esagerata, pur di avere accesso senza problemi alle terapie. La soluzione sarebbe combattere per ottenere maggiore trasparenza e accessibilità e non quella di “falsare” un dato su cui poi si baseranno teorie, studi, terapie. Questo comportamento equivale a turbare la misura di un dato e la conseguenza è che il dato diventa insignificante.
  2. Transnormatività e “presentabilità” : accettare la logica dei detrattori della comunità LGBT significa importare e rielaborare il concetto che, per avere una vita sociale ed essere inseriti, occorre adottare i costumi e i modi di pensare della società. Si tende quindi a presentare un’immagine che ci “mimetizzi” perdendo l’identità di genere per ritrovarci inclusi nella categoria di maschio o femmina. Sostanzialmente si opera una menomazione dell’identità. Non tutti i transgender (anzi, una prospettiva statistica e non normativa suggerirebbe che le situazioni limite sono le meno frequenti) rientrano nelle definizioni maschio/femmina. La presentabilità è un’altro meccanismo di forte castrazione della personalità e del genere. Rafforza l’idea di dover mendicare la legittimità ad essere ed esistere e rafforza un sistema normativo.              E’ assolutamente lecito assumere un modo di vivere binario e convenzionale purché questo sia nella natura della persona ma non è lecito imporlo. Non è lecito presentare solo aspetti censurati spacciandoli per rappresentativi con la motivazione di ottenere diritti per tutti.Vi sono due paradossi in questa mentalità:a) si rinuncia alla libertà personale e ad essere se stessi per essere inclusi in società.                                                                                                    b) ci poniamo contro noi stessi appoggiando ed agendo secondo un sistema correttivo.
  3. Linguaggio unico: l’accettazione della visione ristretta che costringe a giustificarsi e provare la propria identità e la costruzione completamente artificiale dell’equazione transgender=disforia=transizione porta a eliminare la magnifica complessità e narrazione di questa identità di genere. Riducendola a diagnosi e terapie si forma un vocabolario fatto di parole negative e alla descrizione di stati di sofferenza, aumentando il disagio delle persone e non fornendo la possibilità di pensarsi diversamente e quindi di concepire azioni alternative possibili. Questo linguaggio negativo aumenta gli stati di depressione e ansia. Riducendosi ad una identità stereotipata si porta ad un linguaggio che perpetua il sessismo e fornisce un quadro falsato per gli studi di genere e per i terapisti. Il linguaggio è fondamentale non solo per esprimersi e comunicare ma anche per pensarsi e quindi si va a danneggiare su più livelli , compreso quello psicologico, la persona.
  4. Le ripercussioni sul mondo del lavoro sono pesanti se si continua con la logica della malattia. Per quanto possiamo essere competenti ed equilibrati dovremmo sempre dimostrare, se ci viene permesso, il nostro valore, mentre, per il resto dell’umanità  viene data per buona la competenza fino a che non si fallisce. Questo, spesso, preclude l’accesso a professioni qualificate e condanna le persone T* a lavori umili e poco retribuiti.
  5. Transfobia interiorizzata: l’accettazione della logica della giustificazione della condizione T* porta a reiterare le stesse dinamiche che si subiscono contro i transgender che non rispondono alla norma.                                   Su questo tornerò nella seconda parte dell’articolo.

    Ethan Bonali


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Dimostrazione dell’esistenza di un attivista parte 2

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di Ethan Libano

Riprendo ora il mio precedente articolo (Dimostrazione dell’esistenza di un attivista parte 1) illustrando brevemente le premesse alla mia critica politica e morale di quella parte di movimento LGBT che accetta argomenti di natura essenzialista, tanto cari ai nostri oppositori. L’essenzialismo di genere ha la sua radice nella convinzione che uomini e donne siano intrinsecamente diversi e che tale differenza sia dovuta al genere, usato come sinonimo di sesso. La convinzione base che vi siano solo due possibilità, XY maschio e XX femmina, fornisce materiale a molte “argomentazioni” transfobiche. 

A questo proposito possiamo affermare che la costruzione del sesso basata sui cromosomi è stata pressoché demolita dagli esperti nel settore.

Sarah S. Richardson, professoressa di scienze sociali ad Harvard, nel suo libro “Sex Itself: The Search for Male and Female in the Human Genome” dimostra come l’attribuzione impropria delle caratteristiche femminili e maschili ai cromosomi x e y sia divenuta il pilastro di un particolare modo di trattare e pensare il sesso biologico come un codice genetico binario e inalterabile. La Richardson spiega come, nel corso del XX secolo, i concetti di X e Y come cromosomi che influenzano il “femminile” e il “maschile” abbiano influenzato la comprensione delle differenze sessuali in biologia e medicina.

C’è una parola chiave: normale. La percezione di ciò che è normale e la convinzione , basata sul buonsenso ma non sulla scienza, che la divisione binaria proposta dal modello xx-y spieghi il dimorfismo, ha giocato un ruolo decisivo non solo per quello che pensiamo siano e facciano i cromosomi x e y, ma per la loro stessa esistenza di cromosomi “sessuali”. Per la Richardson l’invenzione dei cromosomi sessuali ha portato ad una cattiva scienza e a moltissimi dei pregiudizi esistenti sul sesso e sul genere.

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– Claire Ainsworth , ricercatrice di Cambrige, ha pubblicato un interessante articolo su Nature, intitolato Sex redefined, in cui mostra come il sesso sia uno spettro di variazione e il binarismo una costruzione.

Azzardiamo ancora di più, il cromosoma y ha un’influenza minima nel determinare il sesso maschile come minima è l’influenza del cromosoma x nel determinare il sesso femminile. La costruzione del genere e del sesso basata sui cromosomi sessuali ha influenzato i modelli, le domande e le risposte che la scienza si è posta assumendo un concetto tassonomico come reale.

Recenti studi pubblicati su Science con il titolo The brains of men and women aren’t really that different, study finds, hanno dimostrato che non esistono cerveli maschili e femminili ma che vi sono conformazioni diverse dovute alle diverse attività che convenzionalmente attribuiamo a maschi e femmine.              La maggior parte dei cervelli è “un mosaico di parti femminili e maschili” e solo lo 0,1% dei soggetti hanno comportamenti corrispondenti agli stereotipi di maschio e femmina. E’ probabilmente tempo di rivedere i test cui vengono sottoposte le persone transgender.

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Concludendo la demolizione dell’argomento base dei fruitori dell’essenzialismo possiamo dire che la costruzione del sesso mediante i cromosomi x e y si basa sulla convinzione di partenza di alcuni scienziati che nel corpo umano ci dovesse essere per forza qualcosa che fosse essa stessa “sessuale” (Per ulteriori argomentazioni si cerchino anche gli articoli accademici di Anne Fausto-Sterling, docente di biologia e studi di genere alla Brown University).

Cosa succede politicamente quando accettiamo il sistema sopra descritto?

  1. L’azione politica riduce drasticamente le sue proporzioni e diventa mero mestiere per far includere una categoria individuata e costruita sulle basi di un sistema escludente senza però elaborare una visione alternativa poiché incapace di immaginarla.
  2. Si individua la categoria da rappresentare come soggetto giuridico in base ad una pura astrazione. Si costruisce la categoria giuridica selezionando solo coloro che rispondono ad una visione binaria e presentabile. Statisticamente si lascia fuori la maggioranza di popolazione che richiede di essere riconosciuta.
  3. La costruzione di una categoria e la selezione arbitraria (ignorando le definizioni riconosciute a livello internazionale) delle caratteristiche dei suoi componenti, nella fattispecie parliamo della lettera T dell’acronimo lgbtqia, costringe i non-conforming a “migrare” sotto altre categorie. L’adozione di assunti abituali basati sulla differenza maschio/femmina rendono impensabili le pratiche di genere minoritarie (chi scrive non è convinto che siano così minoritarie). Gli argomenti utilizzati in maniera impropria e generica sono: l’egoismo, l’egocentrismo e il neoliberismo (usato senza cognizione di causa come argomento jolly). L’affermazione standard è che si tratti di una moda.
  4. Si usano gli argomenti essenzialisti per delegittimare le differenze o si sostiene che le differenze siano insensate proponendo un’inclusione illusoria che non è accettazione ma tentativo di far dissolvere gruppi che mettono in discussione la monoliticità della categoria.
  5. La scelta della presentabilità porta a creare la divisione tra moderati e radicali in base alla scelta di adesione o no al modello sociale mainstream.                    L’ala moderata ha un miglior dialogo con le istituzioni poiché non mette in discussione lo statu quo escludente. Questo porta a due conseguenze:          a) le concessioni saranno limitate b) l’ala “moderata” non lavora per la popolazione lgbtqia (al massimo solo per una parte) ma per il sistema vigente. L’ala “radicale”, d’altro canto, avrà serie difficoltà nel rapportarsi con le istituzioni ma porterà avanti istanze molto più aderenti alla realtà e la possibilità di porre in essere una vera politica di cambiamento.
  6. Quest’ultima osservazione non deriva da quanto scritto sopra ma ha carattere di pura critica politica:                                                                        Continua ad essere sostenuta la convinzione per cui se non ci si organizza in partiti e non si individuano categorie e istanze precise e circoscritte non si ottengono risultati (la prevedibilità di un sistema è estremamente rassicurante). A queste persone devono essere sfuggite un paio di cose: a) il fallimento del sistema dei partiti b) le più grandi conquiste degli ultimi anni (ma anche quelle storiche) sono state ottenute da movimenti intersezionali. Sono i grandi movimenti di persone di differente natura ma convergenti in una visione della società comune a creare pressione sul sistema politico e sociale. I cambiamenti nella politica economica delle multinazionali, così come le conquiste dei diritti ambientali, sono avvenuti non per la politica (che ora rischia di far passare un accordo che renderà schiave le persone e che pone le multinazionali al di sopra degli Stati) ma per l’opera reale di una moltitudine che riconosce gli stessi valori. La struttura politica è sostenuta da quei figli del ’68 che hanno amato molto di più la struttura del potere che la rivoluzione e che forse vi hanno aderito non per vitalità ma per conformismo.

Osservazioni morali

Dirette conseguenze dell’accettazione del binarismo e dell’essenzialismo sono:

  1. Transfobia interiorizzata : è la convinzione di valere meno di una persona cis. Questo porta a volere/dovere giustificare la propria esistenza, a rifugiarsi in argomenti deterministici e pseudo-scientifici e a valorizzarsi attraverso l’esaltazione del dolore. A quanto pare, per molte persone trans* il valore e l’autenticità del genere sono misurati mediante gli interventi cui ci si sottopone e al grado di disagio che si prova. L’esaltazione dell’esperienza del dolore è speculare al disprezzo che i sostenitori dell’essenzialismo tentano di riversare sulle persone T*. 
  2. Transnormatività : è il tentativo di imporre un modello accettabile che ricalca quello cis/eteronormativo. Per cui verrà ritenuta rispettabile e legittima la persona transgender che si adatterà o esprimerà l’aspettativa del ruolo di genere della società. Le donne trans* dovranno rispondere alla costruzione del femminile e gli uomini trans* alla costruzione del maschile.
  3. Misgendering : l’atteggiamento violento di porre in discussione l’identità di genere di una persona. Questa pratica è diffusa anche tra le persone T* che non sanno riconoscere un transgender se non dal suo aderire a stereotipi.Frasi esemplificative di misgendering sono:– Ho appena finito di lavare i piatti e “mi sento” una “lavastoviglie” e voglio essere riconosciuta come tale. – Dentro mi sento un gatto e ogni tanto miagolo. Ma che discorsi del bip! 

    – Così ti puoi anche sentire Napoleone.                                                                                                                                                                             – Così ridicolizzi il mio percorso!                                                                                                                                                                                       – Non puoi impormi il tuo genere, al massimo uso il pronome che vuoi per cortesia. 

    Queste sono le tipiche frasi di chi non sa cosa sia l’identità di genere e impone la legittimazione solo a posteriori danneggiando esistenzialmente le persone transgender. Queste persone promuovono la cultura della violenza e sono responsabili del disagio sofferto da chi è nella loro stessa condizione e che può giungere anche a conseguenze estreme. Queste non sono opinioni ma transfobia.

  4. Body shaming : attuato da persone T* nei confronti di altre persone transgender è una strategia di misgendering che punta a enfatizzare e ridicolizzare le caratteristiche femminili negli FtM e maschili nelle MtF.Una frase tipica è: sembri decisamente una femminuccia. 
  5. Sessismo : l’accettazione di modelli stereotipati porta ad adottare tutti i comportamenti che si attribuiscono ai due sessi. Facciamo dell’aspettativa del ruolo di genere la nostra identità.Abbiamo per gli FtM il cosiddetto Manning up (Fai l’uomo!) consistente in tutti quei comportamenti che negano la sensibilità e la fragilità, l’esaltazione della mentalità sessuale predatoria dell’uomo, del paternalismo che lo vuole protettore del gentil sesso e via dicendo di tutti i luoghi comuni del modello del macho.Per le MtF si ha l’adozione del modello della “femmina” con ciò che ne consegue : modello fisico del “femminone”, modello della “bimba” : vulnerabilità, sensibilità portata al paradosso, mito del principe azzurro etc. o modello “ape regina”.                                                                                                                                                                                                
  6. Bullismo : la necessità di difendere la legittimità basata su fragili convinzioni porta a dinamiche di gruppo che isolano coloro che non la pensano e non vivono allo stesso modo. Si arriva a veri e propri linciaggi di gruppo in cui il singolo si sente forte perché vede ripetuta dal gruppo la sua convinzione a discapito di un altro. Questo avviene in quei gruppi dove c’è uno/a pseudo-leader e dei gregari. In certi gruppi ci sono assurde regole per le quali non si potrebbe assumere il nome d’elezione e usare i pronomi del proprio genere prima di aver iniziato la transizione o comunque se non ci si è adoperati per adattare la propria immagine all’aspettativa di genere.
  7. L’accettazione di tutti i luoghi comuni di cui abbiamo parlato porta ad azioni che tutelano gli interessi solo di alcune persone T* a discapito di tutti gli altri non-conforming trasformando un’azione politica in una personalistica.

Conclusioni

Alla luce di tutto quello che è stato discusso possiamo giungere alle seguenti conclusioni:

  1. Occorre riconsiderare il rapporto con gli specialisti ed elaborare un linguaggio e dei modelli che descrivano realmente le persone transgender e non le obblighino entro costruzioni fittizie per poter accedere alle terapie necessarie. Si deve anche tenere ben presente che non tutte le persone transgender desiderano transizionare al sesso opposto. I termini FtoM e MtoF indicano una direzione verso la quale ci si muove ma non indicano obbligatoriamente l’arrivare al sesso opposto.
  2. Considerare e perseguire la depsichiatrizzazione della condizione transgender in quanto non si tratta di un disturbo ma di una condizione legittima nello spettro della variabilità dell’identità di genere.
  3. Riconsiderare la narrativa per descrivere e raccontare la condizione transgender riducendo la narrativa del dolore e descrivendo la complessità del fenomeno. Fornire maggiori e più precise informazioni sia alle persone transgender, al fine di permettere una scelta consapevole delle terapie di cui si necessita, sia a coloro che si avvicinano con interesse a questa realtà. Occorre rimodellare l’immagine mainstream che forniamo ai media e che i media ci rimandano in un meccanismo chiuso e falsato.
  4. Contrasto più consapevole e preparato alla transfobia portando alla luce i meccanismi a monte della violenza che risiedono nel linguaggio e nelle convinzioni sessiste ed essenzialiste. L’insulto (o forme di violenza peggiori) è una forma di transfobia evidente ma scaturisce da costruzioni mentali acquisite.
  5. Promuovere i movimenti intersezionali in quanto permettono un’azione concreta sui meccanismi, che sono reali, e non sulle categorie, che sono costruzioni. L’intersezionalità permette un’analisi completa di un problema e non è un’alleanza di convenienza ma il riconoscimento di una visione comune del futuro, quello che rende un’azione politica produttiva e creativa e non normativa.

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Orientamenti non trans-escludenti

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Una visione vetusta degli orientamenti fa si che essi siano visti:

  • solamente sotto l’aspetto sessuale e non quello affettivo
  • in modo binario (omosessuale, eterosessuale)
  • a determinarli è sempre il proprio sesso biologico e quello del/della partner

Il superamento di questa visione ha portato a parlare di:

  • orientamento erotico-affettivo
  • orientamenti intermedi tra omo ed etero (come bi e pan)
  • l’orientamento non fa più riferimento ai sessi biologici (dell’amante e dell’amato/a) ma ai generi

Ad esempio oggi se si deve parlare dell’orientamento di un ftm, a prescindere dai suoi genitali o dalle sue apparenze, il suo orientamento sarà declinato in base alla sua identità di genere, quindi egli sarà uomo ftm etero se attratto dalle donne, uomo ftm gay se attratto dagli uomini e non il contrario.
Se in coppia con una donna, questa coppia verrà chiamata etero, se in coppia con un uomo, sarà chiamata coppia gay.
La compagna dell’ftm, in quanto attratta da lei, non potrà essere considerata lesbica, e il compagno dell’ftm di conseguenza non potrà essere considerato etero.

Se l’orientamento non è più così legato al sesso e all’attività sessuale, si può maggiormente riflettere sull’affettività (non priva di desiderio) lasciando in secondo piano i corpi e i genitali.
Le persone potranno essere quindi maggiormente portate o spinte a creare relazioni con le donne, oppure con gli uomini, oppure indifferentemente con uomini o con donne, o con una maggiore preferenza per un genere, poiché maggiormente compatibili con una personalità femminile, oppure con una maschile, o indifferentemente con l’una o l’altra, o con una maggiore preferenza per un genere.

Uso la parola “preferenza” che così tanto è stata censurata dalla comunità gaylesbica, che, in una visione bifobica, ha escluso la possibilità che tutte le persone che non hanno un orientamento “esclusivo” (gay o etero), possano “preferire” un genere, senza però escludere completamente di provare desiderio, attrazione, e affettività verso l’altro.

Mettere in risalto i generi e non i corpi potrebbe far borbottare gli attivisti vecchio stampo, far pensare che ci avviamo verso una visione bigotta e moralista dove il desiderio e l’attrazione vengono censurati e messi forzatamente in secondo piano.
La motivazione di questa presa di posizione è il fatto che chi prova desideri mono-sessuali e binari (chi è gay nel senso che è attratto dal corpo geneticamente maschile, o chi è lesbica nel senso che è attratta dal corpo geneticamente femminile) pensa che gli orientamenti rivisitati nella chiave del genere possano minacciare e cancellare l’accezione che loro hanno dell’orientamento, legato ai corpi.
In realtà la loro visione è pacatamente transfoba, poiché esclude che le persone in cui sesso e genere non sono canonicamente coniugati possano essere oggetto di desiderio (che non sia al massimo una curiosità effimera e morbosa) e che addirittura possano essere scelti come partner.

Persino alcune persone trans sono figlie di questa visione cis-sessista in cui la persona trans (o gender not conforming) rappresenta un/una partner di ripiego, e non sia invece scelto e desiderato in quanto tale.

Ci sono persone che addirittura hanno una maggiore preferenza per le persone trans o androgine. Si è diffuso recentemente il termine skoliosessuale per chi è particolarmente attratto dalle persone gender not conforming. Esso non deve essere associata ai fetish, altrimenti potremmo anche dire che una donna lesbica sia una “feticista” delle donne, o un uomo gay un “feticista” degli uomini, quindi cosa renderebbe “feticista” chi trova attraente l’androginia?

Non si deve però pensare che, nella maggioranza dei casi, vi sia una ricerca in particolare della persona T o androgina. Spesso questa caratteristica del (o della) partner diventa una delle tante che costituiscono la persona per cui si prova fascino. Infatti a sopravvalutare sessi, generi, la loro consonanza o dissonanza è chi ha un’estrazione binaria e quindi tutto ciò ha risalto, e rimane poco spazio a tutte le altre caratteristiche che compongono l’individuo nella sua complessità e che lo rendono interessante.
Per un amico binario la cosa rilevante è che stai con una trans. Per un amico non binario sarà rilevante che personalità ha, cosa ti ha colpito di lei, in che ufficio lavora, cosa legge e che musica ascolta.

Ci sono donne lesbiche che scelgono una compagna che è T, ma il fatto che essa sia T non è nè il motivo della scelta, nè un deterrente: semplicemente una donna cisgender (biologica) si innamora (e/o ne ha desiderio) di una donna, che nel caso particolare è una donna transgender, ma è prima di tutto donna, e quindi la sua figura è compatibile col desiderio eroticoaffettivo della compagna lesbica (anche se questo lascerà basito chi ha una visione degli orientamenti legata più ai corpi che all’essenza).

Il fatto che questa donna cisgender e lesbica sia attratta da una donna transgender non la rende meno lesbica e non la rende “automaticamente” bisessuale o pansessuale. Dire che i (e le) partner delle persone T debbano essere “almeno” bisessuali è un atteggiamento transfobico, poichè è possibilissimo che una donna etero, attratta solo da uomini, sia attratta da un ftm e lo scelga come compagno, così come un uomo etero, attratto solo dalla femminilità e non dalla virilità, scelga una trans.

Vengono considerate persone bisessuali tutte coloro che hanno un orientamento che non esclude persone di genere femminile e maschile, qualunque sia la sfumatura dell’orientamento (che vi sia una preferenza per il maschile o per il femminile non importa). Quando l’orientamento bisessuale non è polarizzato solo verso uomini biologici e donne biologiche, ma vi è un atteggiamento di non esclusione verso le persone transgender, spesso si usa il termine pansessuale, ma non tutti coloro che hanno un orientamento bisessuale non binario scelgono questo termine. Alcuni preferiscono il termine bi, nonostante la sua etimologia contenga implicitamente una visione duale e binaria.

Se le persone T ricevono transfobia sia dalla comunità omosessuale, sia da chi ne è esterno, ciò capita anche a chi, per caso o per scelta, si ritrova partner di una persona T.
Spesso quella visione per cui i partner T sono un ripiego è la visione delle persone che circondano il o la partner della persona T. Ci sarà magari nostalgia per i o le partner precedenti, ci saranno dubbi per l’orientamento sessuale e affettivo dell’amico o amica storica, che “si credeva” di conoscere, e la bifobia e la transfobia si uniranno nell’atteggiamento di mancata accoglienza e incoraggiamento per la nuova relazione.

Ad creare un vergognoso e pericoloso connubbio tra l’atteggiamento transfobo e quello bifobo rispetto alla coppia in cui una delle due persone è T è la visione binaria. Una coppia cis/trans rimescola le carte e dà fastidio, perché chi la circonda si sente messo in discussione e deve rivisitare i concetti di uomo e di donna, di omo e di etero, e non vuole farlo.

Se un uomo etero vede un ftm fidanzato con un gay, si sentirà minacciato nella sua definizione se anche lui ne è spontaneamente attratto. Allo stesso modo un gay non attratto dagli ftm si sentirà minacciato se un altro gay invece ne è attratto tanto da starci insieme, ed usa la stessa definizione che lui ha scelto per sè. Lo stesso succede alle donne (lesbiche ed etero) quando una loro amica intraprende una relazione con un ftm. E lo stesso succede quando è una propria amica o un proprio amico a fidanzarsi con una mtf.
Siamo talmente fragili, e a dirla tutta, monosessisti e bifobici, che non facciamo caso alle altre caratteristiche dei e delle partner che i nostri amici e conoscenti ci presentano. Siamo talmente tanto binari e abituati a connotare le persone per i genitali che è il genere non conforme al sesso che ci turba e ci fa sentire minacciati.

Il binarismo, che un tempo faceva sembrare una minaccia le persone omosessuali (ora per fortuna succede solo con i quattro stronzi dei partiti estremisti e reazionari da 1%), oggi, assodato che l’omosessualità maschile e quella femminile rientrano in una simpatica e ordinata matrice 2×2 insieme a gli e le eterosessuali, se entrano in gioco bisessuali, pansessuali e transgender, viene fuori un meraviglioso ventaglio di possibilità di attrazioni ed affettività, e questo, al posto di sorprenderci e arricchirci, ci spaventa.

 


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Quanto dà fastidio ad alcuni gay che gli ftm siano desiderabili per altri gay?

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L’amico Ethan mi ha inoltrato un commento che pare sia stato rivolto, per vie traverse, in una lista a tema queer ma che di fatto è binaria, al mio precedente articolo.
L’articolo era la trasposizione per iscritto del mio intervento all’evento “pansessualità e bisessualità”, in cui si parlava degli orientamenti eteroaffettivi “non trans-escludenti, ovvero delle persone (lesbiche, uomini etero) attratte da donne che non escludono le trans mtf e delle persone (donne etero, uomini gay) attratte da uomini che non escludono i trans ftm.

A sentirsi urtati dal disquisire di questo non sono stati nè le donne etero, nè gli uomini etero, nè tantomeno le lesbiche (che si stanno mostrando molto aperte e interessate al mondo delle trans e del transfemminismo e translesbismo): la lamentela è ovviamente partita da un gay.

Mentre il mondo si evolve e ormai sempre di più gli attivisti omosessuali sono sensibili alle tematiche T, rimane uno zoccolo duro di giovani universitari devoti ai vecchi attivisti, in un rapporto di devozione tutto maschile cis, in cui si organizzano simposi culturali che strizzano l’occhio a quel mondo antico tanto rimpianto in cui l’omosessualità era lecita ma la misoginia dilagava ed era data per scontata.

Ecco il commento:

Questo articolo è un capolavoro. È l’incarnazione letterale dell’espressione: “discutere del sesso degli angeli”. I protagonisti, infatti, sono talmente angeli da lasciare i corpi in secondo piano, gli antagonisti sono diabolici gay discriminanti. Dal momento che non vogliono darlo a chi tra le gambe ha una vagina, ecco che stanno discriminando perché troppo legati al carnale (e la carne, si sa, è Regno di Satana).
Far notare che nel frattempo le prostitute transessuali vengono ammazzate, che in Italia non c’è la piccola soluzione, e che il matrimonio gay ce lo scordiamo ancora per dieci anni sarebbe veramente triviale, stupido e piccolo borghese. Di conseguenza, di fronte a tali raffinate questioni io mi ritiro a leggere Ockham e mi taccio.

Divertiamoci a fare l’analisi del testo, come fosse una poesia di Cecco Angiolieri

Questo articolo è un capolavoro (sarcasmo).
È l’incarnazione letterale dell’espressione: “discutere del sesso degli angeli” (ovviamente se si parla di trans si parla di sesso degli angeli e di cose inutili, inutili ad un gay che sente e pretende come unica tematica quella degli uomini biologici attratti dagli uomini biologici e trova superfluo il partare di altro).
I protagonisti, infatti, sono talmente angeli da lasciare i corpi in secondo piano, (l’analfabeta funzionale deve essersi perso il passo in cui si diceva che un’attrazione per un corpo androgino non è affatto asessuata, e che percepirla come tale significa screditare, in modo “pacatamente” transfobo, chi è attratto dall’androginia, e anche la bellezza stessa delle persone androgine e gender not conforming, che secondo questi binari non possono essere oggetto di desiderio, non tanto per se stessi, cosa che sarebbe comprensibile, ma neanche per altri)
gli antagonisti sono diabolici gay discriminanti.(in realtà il lettore distratto non si è accorto che si parla anche di ftm gay, o di gay in coppia con ftm, ma ovviamente per lui nessuno di questi due casi è un “gay“. si tratta ovviamente in un caso di una donna etero, nell’altro di un uomo etero, quindi il cattivo gay è quello che schecca e scappa quando sente la parola “vagiaaaina”!!!)
Dal momento che non vogliono darlo a chi tra le gambe ha una vagina,
(il gay che scrive mette talmente tanto al centro il suo pene, che è davvero convinto che tutta letteratura pansessuale e dedicata agli orientamenti non binari sia tutta una macchinazione atta a convincere gli omosessuali attratti solo dal fallo, quindi una parte degli omosessuali, a “dare” l’uccello a chi ha la vagina, magari con una bella penetrazione vaginale, essendo loro poco fantasiosi per comprendere i tanti modi in cui un uomo ftm puo’ dare e provare piacere…)
ecco che stanno discriminando perché troppo legati al carnale (e la carne, si sa, è Regno di Satana).(deve essersi perso la parte in cui si diceva che l’attrazione che i partner delle persone T provano per le persone T è tutt’altro che platonica)
Far notare che nel frattempo le prostitute transessuali vengono ammazzate,(a parte l’uso della vetero-parola transessuale in luogo di transgender, ecco il momento del benaltrismo, scommetto che lui impiega il 90% del tempo del suo attivismo a salvare le trans dal femminicidio)
che in Italia non c’è la piccola soluzione, (a parte che l’attivismo T non usa da un decennio il concetto di “piccola soluzione”…se seguisse il blog o le attività dell’associazione che ha proposto l’evento relativo all’intervento contestato saprebbe che si è estremamente sensibile alla rettifica anagrafica delle persone non medicalizzate)
e che il matrimonio gay ce lo scordiamo ancora per dieci anni (quindi si deve parlare sempre dei gay cisgender e dei loro problemi?)
sarebbe veramente triviale, stupido e piccolo borghese. (come se l’autore del blog fosse un punkabbestia comunista che taccia tutti d’esser borghesi)
Di conseguenza, di fronte a tali raffinate questioni (che non ha l’intelligenza di capire) io mi ritiro a leggere Ockham e mi taccio (appunto, se consideri superfluo questo articolo e la sua tematica, perché sei venuto a rompere i coglioni?).

Probabilmente questi sono quelli che considerano di cattivo gusto l’etero medio e buzzurro che dice “ahò, come se fà a prendere er cazzo, a me fa specie”.
Non hanno torto a definire omofobo questo eterello, ma poi loro stessi scheccano schifando la vagina (questo però non viene visto come misogino o “eterofobo”, perchè alle minoranze si perdona tutto….)
http://www.mirror.co.uk/news/world-news/its-like-partially-deflated-balloon-7210095

Concludendo….Tutto questo ha senso precisarlo se l’articolo fosse rivolto a criticare chi ha un orientamento binario e non a parlare di chi invece ha orientamenti non binari.

E anche se fosse, come mai si sentono così tanto toccati i gay? e non le lesbiche, i e le etero?
Quale tematica smuove in alcuni gay il fatto che un ftm gay possa essere oggetto di attrazione per un gay cisgender? Cosa lo disturba nel fatto che ciò succeda? Paura della competizione?

Forse dovrei evitare di rispondere agli imbecilli che vogliono rimanere anonimi, oppure agli anonimi che vogliono rimanere imbecilli…


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