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Channel: Progetto Genderqueer – Non Binary Blog
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Lei

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“Lo faresti lo stesso se fossi sotto un altro top manager?”
Dall’altro lato vi era un imbarazzato silenzio.
“Dove sbaglio? Sono troppo colloquiale con voi? Dovrei fare come gli altri? Che si fanno rispettare?”
Dall’altro lato un impassibile sguardo.
Chissà cosa pensava. Forse, che a dire queste cose mi spinge quell’insicurezza di vedermi, come immagine, meno maschio degli altri manager. E’ come se temessi che vedessero la mia debolezza, che non mi percepissero come un maschio Alfa, che possano prendersi gioco di me lavorando poco e male, parlando alle mie spalle.
Mi guardo allo specchio, in bagno, dopo la riunione.
Adesso porto qualche millimetro di barba. Fino a qualche anno fa, un impiegato con la barba sarebbe stato visto come trasandato, ma adesso pare che faccia addirittura chic: tutto frutto di una cultura di zecche e di hipster che non condivido, ma cosa potrebbero pensare se io adesso fossi l’unico a non avere la barba?
Mi sciacquo il viso, ma non devo rimanere troppo in bagno. Potrebbero pensare che sono una mammoletta, come le donnine che vanno ad incipriarsi il naso. Mentre mi sciacquo tiro leggermente indietro i capelli. Inizio a stempiarmi, leggermente, anche se probabilmente sono l’unico ad essersene già accorto. Ahimè, sta succedendo nonostante il quintali di Minoxidil che uso senza troppo farmi notare da mia moglie.
L’aria è pervasa da un forte odore muschiato. Avrò esagerato col dopobarba?
Vedo quelle del quinto piano ciarlare sottovoce quando passo davanti a loro. Credo che mi abbiano addirittura ribattezzato col nome del forte profumo speziato che uso.
Credo che qualcuna abbia pure cercato su internet e ne abbia regalata una boccetta al fidanzato, magari immaginando di essere con me, mentre fa l’amore con lui.
Adesso è ora di tornare in ufficio. Noi top manager non abbiamo di certo le pause centellinate da un tassametro, ma è anche vero che se i polsini si bagnano magari si rovinano i gemelli.
Torno in ufficio. Ci lavoro da tredici anni ma ancora non lo sento come un posto rassicurante e mio. Dietro di me una vetrinetta con la collezione di pipe e di sigari dal mondo, e le Mont Blanc col pennino d’oro. La scrivania è enorme, e quasi vi scompare sopra la foto del mio matrimonio e la foto coi miei figli. Nella foto del mio matrimonio indosso il frac che lei aveva scelto per me. Ho i capelli tirati indietro. Lei è un’esplosione di femminilità: sopracciglia ad ala di gabbiano, capelli fatti crescere apposta per le nozze, e poi tagliati, da rituale, durante il viaggio di nozze. La gonna è gonfia e vaporosa, i gioielli sono tutti coordinati, e le dànno luce al suo viso.
Nella foto coi bambini ho un’aria triste, assente. Non dedico loro abbastanza tempo e lo so.
Sistemo ancora alcune carte e poi vado via: devo sbrigare un po’ di commissioni prima di tornare a casa.
Passo alla grande Coin all’angolo. All’ingresso una signorina mi accoglie indicandomi il reparto da uomo. Mi sento in dovere di darle spiegazioni. E’ una sbarbina che si e no avrà la terza media: perché uno come me dovrebbe darle spiegazioni?
Mi dirigo nel reparto femminile per comprare un regalo immaginario per una donna immaginaria.
Stringo tra le mani, senza farmi notare, un reggiseno le cui toppe setose rosa antico scivolano tra i miei polpastrelli. Ho il terrore che una donna, una cliente del negozio, mi veda e pensi che io sia un pervertito.
Mi dirigo a casa senza comprare niente. Mia moglie è paranoica, e pensa sempre che io dedichi quel poco tempo tra famiglia e lavoro a un’altra donna. Non sa quanto, ironia della sorte, abbia ragione.
Entro in casa, lei è in bagno con una delle sue mille maschere anti-age. Ha proprio ragione Fulvio, il mio amico del calcetto, a dire che a noi uomini le donne piacerebbero anche se fossero tutte in tuta, eppure lei spende, spende metà del mio stipendio, a comprare creme anti-qualcosa che non ha. Se dicessi che il suo viso è setoso come quando ci conoscemmo, a dodici anni, non mi crederebbe.
Ricordo i primi baci con lei, alle scuole medie. Setosa era la sua pelle, e setosa era la mia. Ricordo che in quegli anni c’erano i cartoni animati delle guerriere Sailor, e una di loro, che nella vita diurna era un bel ragazzo, per difendere la terra si trasformava in ciò che realmente era: una ragazza, una guerriera. Nel cartone animato la crisalide guerriera aveva una relazione con la bella e femminile protagonista, si univano in un bacio, e in me si scatenavano ingenue e infantili fantasie quando baciavo quella che sarebbe diventata mia moglie. I cartoni animati dell’epoca, dell’inizio degli anni novanta, erano una continua ispirazione per persone come me. Ranma baciava Akane quando era trasformato in ragazza, e mentre i miei compagni guardavano i porno di Rocco Siffredi, le mie fantasie sessuali consistevano nell’immaginare Xena ed Olimpia, immaginare di essere la protettiva virago Xena che si prende cura della dolce Olimpia.
Dovetti arrivare alle superiori per capire realmente. Ricordo quel pomeriggio, al cineforum della scuola, in cui, a causa dell’indisponibilità del film programmato, proiettarono “Tutto su mia madre” di Almodovar. C’erano i viados di strada, sieropositivi e dediti al meretriciato. All’inizio del film si vedeva che, quando ancora erano uomini avevano delle mogli, e pensai che fossero solo errori di gioventù. Grande fu la sorpresa quando scoprii che anche dopo che erano diventate donne avevano continuato ad amare le donne, metterle incinte, e persino contagiare loro l’hiv.
Era tutto così squallido, ma per un attimo io non mi ero più sentito solo. Non ebbi il coraggio di intervenire nel dibattito dopo il film, nè di parlarne con lei.
Passarono molti anni, anni in cui, a parte l’emozione di quel momento, conobbi molte figure di uomini che, come me, si sentivano donna. C’era Platinette, c’erano le ragazze del Grande Fratello, c’era Efe Bal, ma io mi sentivo così lontano da loro.
Per anni decisi di custodire un segreto, un segreto che mi porto avanti da quando, da bambino, mia sorella maggiore si divertiva sadicamente a vestirmi da donna, mettendomi un suo reggiseno e due arance dentro al posto delle tette, mi truccava posticciamente coi suoi trucchi plasticosi, e poi iniziava la sfilata. Lei rideva di me ma io,  a sua insaputa, ricordo con tenerezza quelle esperienze. Ricordo che leggevo di nascosto i suoi Cioè per capire il mondo delle ragazze. In parte io volevo capire le ragazze, che mi iniziavano a piacere, in parte io avrei voluto essere una di quelle ragazze che scriveva alla rubrica della bellezza e chiedeva consigli su come depilarsi.
Di anni, però, ne erano passati tanti. Avevo conosciuto il corpo femminile, tramite quello di mia moglie. Ci siamo sposati vergini, per via delle pressioni dei suoi genitori, testimoni di Geova, che l’avevano indottrinata in tal senso, ma questo veto autoimposto nei riguardi del sesso penetrativo ci diede la possibilità di sperimentare, da giovanissimi, il petting e le coccole, tutti quei rapporti che, non coinvolgendo direttamente i genitali, non ponevano tra noi una grande asimmetria. Saremmo potuti essere due uomini, due donne, due figure androgine, due anime affini. Nei rapporti non sono mai stato bravo o esperto. Abbiamo imparato insieme. Quando la toccavo, quando toccavo il suo corpo giovane e vellutato, per un attimo immaginavo di fare l’amore allo specchio.
Solo così riuscivo a provare piacere: immaginando che fossimo due ragazze lesbiche. Lei non lo ha mai saputo o immaginato, o almeno, spero.
Adesso lei è nel suo bagno. Ne abbiamo due in casa. Il mio è spartano. Giusto uno spazzolino elettrico e un regolatore per barba. Il suo bagno, un regno a me precluso, è un paradiso. C’è la zona trucchi, ordinati per funzione e tonalità, la zona prodotti per capelli, la zona con le creme, il peeling, lo scrubs, l’igiene personale. Chiude a chiave la stanza per evitare che i bambini entrino e rompano le sue trousse di cristallo, ma una volta sono riuscito ad entrare, mentre lei era al Lyons Club con le amiche.
Ricordo che quella sera il mio volto era diventato dolce e gentile sotto le pennellate dei prodotti che allora così maldestramente usavo. Ricordo che mentre il mio volto veniva liberato dalle tracce di spigolosità e virilità, l’emozione divenne piacere, un piacere erotico, un’esplosione liberatoria.
Oggi ho una cassetta degli attrezzi, in garage, ma dentro ci sono i prodotti che compro per me, dicendo di comprarli per una ragazza immaginaria. La mia pelle è più scura della sua, avrei avuto comunque una mia trousse personale, anche se io e lei fossimo state complici, anche se ho imparato col tempo, su internet, che la tonalità deve essere sempre leggermente più chiara.
Spesso la mia unica possibilità per essere me sono i viaggi di lavoro. C’è sempre un giorno libero che ci dànno, per visitare città straniere, e io lo dedico per stare in queste lussuose camere, da solo, ed essere me stessa.
In lussuosi negozi e centri commerciali compro regali per mia moglie e per Lei. Li divido prima di fare i bagagli del ritorno. E’ quello il momento più triste per me, in cui la chiudo, mi chiudo, in una valigia per ritrovarmi chissà dove e quando.
Lacrime quando lo struccante mi porta via dal mio viso.
Spesso compro a mia moglie cose non dissimili da quelle che compro per me. Quando fantastico su di me al femminile non c’è mai, accanto a me, un uomo. Non vivo fantasie con un uomo accanto per far esaltare la mia femminilità. Accanto a me vi è sempre una donna, una donna femminile. E’ per questo che spesso compro a mia moglie gli stessi accessori che compro o che vorrei comprare per me stessa: vedendoli indossare in mia presenza è come veder vivere in lei una parte di me, quella parte che non può esprimersi.
Lei non sa, non sospetta. Del resto…come potrebbe? Non mi abbandono mai ad estetiche o comportamenti ambigui. Io devo essere maschio, e non so se lo devo a me o agli altri.
Nelle ultime settimane ho pensato di farmi un piccolo regalo. L’accenno di barba mi permette di far crescere un po’ i capelli, ma mia moglie dice, con voce serena ma impenetrabile, che come capelli lunghi, in questa coppia, bastano i suoi, e che sarebbe gelosa se i miei dovessero risultare più belli.
Quando eravamo giovani ascoltavo David Bowie e Marylin Manson, insieme ad un sacco di altre rockstar glam, in cui uomini super etero e machisti camminavano sui tacchi degli stivaletti da cow boy, portavano lunghe chiome cotonate e parlavano in falsetto. In quegli anni, con la scusa del glam, e nascondere i miei esperimenti di femminilità dietro alla mera imitazione di super maschi animali da palco. Avevo lunghi capelli neri, e lei ne era un pò invidiosa, ma le piacevano. Frequentavamo un locale a tema, dove lei mi accompagnava entusiasta. Spesso, prima delle serate in cui andavamo li a bere birra e vodka ed ascoltare musica dal vivo di gruppi più o meno mediocri, andavamo da me in mansarda, dove lei mi aiutava a prepararmi. Smalto nero, trucco agli occhi, e piastra ai capelli. A volte mi metteva anche il suo rossetto nero,  e io mi sentivo un po’ come quando mi sorella mi conciava a festa, con la differenza che stavolta ero con la donna che sarebbe stata la mia compagna di vita. Ricordo come quella piccola trasgressione, all’insaputa dei suoi genitori bigotti, ci eccitava moltissimo entrambi, e ricordo molti baci in cui le nostre labbra si incrociavano scambiandosi rossetto nero ed argentato,e finivamo a fare petting spinto,per poi fermarci bruscamente per non finire a far l’amore. Quel rapporto completo non lo voleva lei per non perdere prematuramente la sua “virtù”, ma non lo volevo neanche io. Avrebbe distrutto la mia fantasia di noi due amiche, complici ed amanti. Non so se ad eccitarci c’era il fascino del proibito, o se in quei momenti, in cui le nostre lunghe ciocche nere si confondevano, mentre lei mi baciava il mio petto piatto e senza peli, e mentre mi riempivo del suo profumo vanigliato, vivevo l’illusione di congiungermi con l’uguale in un’alchemica simbiosi.
Era bello che questa fantasia continuasse anche dopo, quando al locale, mentre ci baciavamo, ci scambiavano per due ragazze ubriache e sporciaccione.
Cosa è rimasto di quegli anni? Oggi siamo intrappolati in una cavalleria rusticana di ruoli scritti da altri, come se fossimo i burattini in uno spettacolo di un artista di strada, che si muovono, si, ma solo tramite movimenti rigidi e rigorosamente previsti.
Dal lavoro, spesso, eludendo il firewall e navigando in anonimo, cerco uomini come me su internet. Ho trovato una mailing list, anni fa. Non sono sicuro che ci siano uomini coi miei desideri e con le mie fantasie, ma mi rassicura che abbiano una moglie, e che il loro principale problema sia come dirlo a lei.
Mi sentirei molto a disagio in un forum di omosessuali. A dire il vero mi sento sempre molto a disagio quando vedo un omosessuale, o quando qualcuno può, per qualche ignoto motivo, pensare che io lo possa essere. Per questo ho sempre paura a relazionarmi in spazi virtuali che potrebbero essere pieni di persone che si dicono simili a me, ma sono in realtà omosessuali che fanno le femmine.
Quando trovai quella lista virtuale, a breve avrei visitato Napoli per lavoro. Avevo conosciuto Jennifer, una sorellina di quelle parti, e ci saremmo viste per un confronto, davanti ad un caffè.
Quella volta avevo deciso di non usare solo l’albergo fornito dall’azienda, e avevo quindi prenotato parallelamente un alberghetto da una stella, dove sarei andato a cambiarmi.
Cosa sarebbe successo quando i nostri sguardi si sarebbero specchiati l’una davanti all’altra? Ero andata a cambiarmi, ma la matita mi tremava nella mano mentre tracciavo una linea sopra l’occhio per valorizzare il mio sguardo.
Ci saremmo dovute vedere al bar sotto l’albergo, ma quando uscii, al posto di sentirmi liberata, mi sentii fortemente a disagio. Bastarono pochi metri per uscire dall’albergo per avere addosso gli occhi basiti, perplessi o goderecci degli uomini. Quegli sguardi, fino a poco tempo fa, erano stati i miei. Sguardi avidi, prevaricanti, sguardi di chi si sente soggetto e non oggetto di corteggiamento. Accelerai il passo fino ad arrivare al bar. Lei era li. Ordinai il caffè con voce bassa. La mia voce non mi aveva mai dato disagio fino a quel momento. Jennifer parlava invece in falsetto ed era abbastanza a suo agio.
Mi raccontò di sua moglie, di come ha scoperto, e di come stanno dolorosamente divorziando, e mi sembrava di essere a tavola con una vecchia amica per caso ritrovata.
Gli sguardi su di noi,però, si fecero più insistenti, e le chiesi di andare via. Volle venire con me in albergo, ma non scorderò mai cosa successe.
Jennifer iniziò prima a guardare e toccare tutti gli oggetti del mio bagno, oggetti e cosmetica pregiata, che probabilmente mi invidiava,  poi iniziò a lusingarmi,a  dirmi quanto ero femminile io e quanto lo erano gli accessori che avevo addosso. La sua mano scorreva sulla mia coscia, accarezzava il collant, ma la cosa mi generava imbarazzo. Lei invece era molto eccitata, e presto l’altra mano raggiunse le sue parti intime, facendomi capire che avrebbe voluto farlo anche a me.
La congedai con grande imbarazzo, e quella notte piansi. Ero di nuovo sola.
Mi chiusi molto, lasciai la mailing list, anche se probabilmente c’erano tante persone come me, ma io non avevo le energie per aprirmi a loro, non di nuovo.
Qualche anno dopo una delle poche sorelline con cui ero rimasto in contatto, un collega libero professionista che si occupava di cantieristica, mi indicò un gruppo di auto mutuo aiuto per persone come noi. Si teneva una settimana si e una no, quindi avrei dovuto inventare due riunioni di lavoro serali per tenere a bada lei. Ci pensai molto, ma la voglia di rimettermi in discussione, stavolta in un luogo in cui vi erano più persone e minor rischio equivoci, era tanta.
Andai al maschile, con la mia giacca, la mia cravatta, il mio profumo muschiato: erano il mio scudo. Scoprii che più che per “persone come noi”, era il tutto organizzato da un’associazione di omosessuali e trans, e la cosa, che scoprii solo quendo ero già lì,  mi causò, inizialmente, molto disagio.
Con sorpresa, però, scoprii che chi in quell’associazione stava parlando di se, non era così lontano da me.
Oltre a persone come me, uomini che vogliono fare le donne, vi erano donne che volevano essere uomini. E alcune di loro avevano mariti, mariti a cui non sapevano come dire di non essere donne eterosessuali ma uomini gay. Le loro storie, raccontate a cuore aperto, provocavano a me un amaro sorriso. L’emozione fu per me talmente forte e sconvolgente che decisi di non andare più al gruppo di auto-aiuto.
La mia amica invece, lei l’ho rivista qualche mese fa. Mi è venuta incontro mentre uscivo da un pranzo di lavoro, e io ci ho messo un po’ a capire chi era. Non porta più parrucche ma ha una folta chioma sua. Ha divorziato dalla moglie e sta con una donna conosciuta nell’ambiente del bdsm, che prima di lei stava con una donna nata tale. Mi ha detto che non si occupa più di cantieristica ma ha aperto un locale con la nuova compagna, ma che un po’ il suo lavoro le manca.
Ho dovuto fare in fretta nello scambiare due chiacchiere. Avevo paura che mi vedessero con lei, che scoprissero chi sono.
Ogni giorno, quando vivo la mia routine, facendo il bullo coi miei sottoposti, quando lascio tagliare via, al barbiere dell’angolo, l’accenno di riccioli che mi erano costati mesi di attesa, perché mia moglie vuole essere l’unica detentrice della femminilità in casa, quando aspetto con ansia le trasferte di lavoro, quando compro furtivamente una gonna non sapendo quando e se la metterò mai, penso a ciò che, ormai, so di essere, e che non potrò mai realmente essere davvero.

 


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